Divagazioni linguistiche 

La storia della lingua non è altro che la storia della mente umana attraverso l’analisi della parola e dei suoi significati nella varietà di ogni aspetto creativo. Concetto, questo, che ci porterebbe a dedurre, andando a ritroso nel tempo, le origini di molte, se non di tutte le lingue, procedendo per gradi nell’analisi strutturale del linguaggio, scomponendolo nei vari passaggi della sua formazione che da principio fu certamente composta di monosillabi, al pari di tutte le lingue primitive, che, altrettanto vero, conobbero inarticolati suoni gutturali. 

Noi stessi, del resto, da bambini, abbiamo cominciato a parlare con sillabe. Pa (per papà), ma (per mamma), ta (per tata), etc., accorciando e contraendo o troncando sillabe più lunghe, per poi sillabare parole di ogni misura con l’imitazione e l’esempio dei più grandi. Il che non era possibile ai primi formatori delle lingue e ancora oggi è impossibile un processo del genere nella lingua cinese, immutata nei propri ideogrammi sin dalla tenebrosa notte dei tempi. 

Il contrario si è verificato, invece, nella lingua greca e conseguentemente in quella latina, le quali, durante le varie tappe del loro perfezionamento, hanno subito continui adattamenti e trasformazioni a mano a mano che il progresso ha consentito adeguamenti alle esigenze dei tempi, sotto la spinta di altre civiltà, rispettando per capriccio o per dolcezza oppure per imposizione dialettale o per pronunzia irregolare e corrotta, il dover comunque cambiare faccia alle parole col successo del tempo, fino a introdursi nelle scritture e dare vita ad esigenze di regole ed eccezioni, come vediamo nella nostra e in quasi tutte le lingue. 

Seguendo un’accurata analisi dell’itinerario filologico dei termini, ci possiamo rendere conto di come, da pochi primitivi monosillabi radicali e successivamente dai nomi che da principio formavano tutto il linguaggio tra diversi allungamenti, differenziazioni e variazioni di significato, inflessioni, composizioni e modificazioni di ogni sorta, riuscissero i latini a cavare infinità di parole nuove e, con esse, minime espressioni di differente variabilità delle cose che in principio si erano andate accumulando in uno stato confusionario, e traessero quel complesso linguistico che doveva racchiudere tutti i pregi del discorso che poi sono anche i nostri. 

Nel seguire questa panoramica dissertazione linguistica è sottinteso che coloro i quali non hanno dimestichezza con le lingue classiche, di qualunque nazione siano, non possono sentire le stesse armonie dei versi latini e greci, se non prima si siano assuefatti a udime la cadenza in ogni circostanza, notandone, con regolarità e, un po’ per volta, tutte le sfumature, le piccole corrispondenze e relazioni, fino a che l’orecchio non ne gusterà le armonie. Ovviamente, simili processi sono indispensabili anche a chi meglio intenda le stesse lingue, latina e greca. 

In altre parole, l’armonia è data soprattutto dall’esercizio e dalle consuetudini invalse nel tempo, educando, in crescendo, l’orecchio fino a raggiungere scelte preferenziali, proprie, ad esempio, del volgo che trova armonia, più che altrove, negli inni sacri e non in qualsiasi eccellente poeta latino. Ciò perché gli inni ecclesiastici, per metro e andamento, rima e struttura somigliano a versi barbari e in metri latini. Lo comprova il fatto che, se ci accade di ascoltare un qualsiasi 

pezzo di un’aria che conosciamo e, ad un certo punto, di notare che il seguito di questo pezzo è diverso da quello conosciuto, proviamo subito un senso di discordanza, perché avvertiamo che questa diversità si contrappone alla sua particolare assuefazione. 

Ciò significa che, in casi del genere, la consuetudine e l’esercizio hanno un ruolo determinante nella distinzione armonica o disarmonica dei suoni. Alla stessa maniera di come parimenti è determinante, nella lunga vita di una lingua, il mantenerla immutata nelle sue radici e quindi nei suoi toponimi, che, in quanto tali, non potranno mai morire (Davide Nardoni, Manuale idiotico, Ed. EILES, 1994). 

In tal senso l’esempio ci viene dato dai Greci, che non hanno mai rinunciato a parlare la loro lingua, nemmeno dopo periodi di decadenza; se ne sono sempre ricordati, diversamente dai Romani che, in determinati periodi storici, permisero l’imbarbarimento e la conseguente decadenza del latino, avendo più volte interrotto, e per lungo tempo, i legami con la propria lingua d’origine. Vale, cioè, lo stesso discorso a proposito dell’armonia della quale si è detto all’inizio: la costanza della tradizione e la ricchezza di una vasta letteratura rafforzano, ingentiliscono, aggraziano, prolungano la vita di una lingua. 

Sia d’esempio la sanscrita che, ricca di pregevoli scritture di ogni genere, secondo il gusto orientale, vive ancora in vastissime contrade dell’India, a distanza di secoli. Vive ancora con l’uso e con la cognizione delle sue ricchezze letterarie, con la venerazione dei suoi sommi scrittori. Diversamente da quanto si verificò a ‘Roma nei secoli di barbarie, quando i Romani non sapevano più nulla persino di Virgilio, di Cicerone e di tante loro glorie letterarie. 

Del resto, vuoti così profondi, nel buio della storia, sono sempre avvenuti e sempre avverranno anche tra popoli di grandi civiltà e cultura, ogni volta che la filologia smette la sua funzione di preziosa interprete e fontinuatrice di eventi che per essa stessa affiorano dalla tenebra del passato, dal cimitero delle morte parole, dai fossili linguistici di un’avversa fatalità, ma, il più delle volte, dalla crassa ignoranza di ricercatori presuntuosi e senza scrupoli nel rimestare le regole linguistiche della storia dei popoli. 

Lo studio del linguaggio è sempre rifiorito dopo più o meno lunghe parentesi di oblio, anche nel Settecento, quando si cercavano nuovi impulsi che poi ebbero sbocco definitivo nella metà dell’Ottocento, con la nascita di una nuova linguistica scientifica e, alla fine del Novecento, con l’apertura alla rivoluzionaria filologia sperimentale di Davide Nardoni, che, con diacroniche dimostrazioni del suo crivello, rivisita tutte le fonti letterarie e storico-filologiche per scoprire verità mai dette e con queste rilevare le fallaci interpretazioni di vanagloriosi ricercatori ancorati ad una non sempre illuminante filologia classica, morta nella sua gretta staticità. Costoro poco o quasi nulla dicono della tendenza di adattamento al quale il linguaggio è soggetto nel divenire dei secoli. Motivo, questo, per il quale molte volte alcuni linguisti hanno falsato, senza peraltro accorgersi, le loro ricerche, dando così vita arbitraria a nuove radici tutt’altro che originarie, addirittura inesistenti e quindi non in grado di dare inconfutabile certezza di originalità. 

Nelle lingue c’è una continua interazione, nel senso che non possono esserci immobilismo e compartimenti stagni, dal momento che studiarle vuol dire studiare origini, usi, costumi di popoli confinanti, in un’ alternanza di periodi ricorrenti, con sempre nuovi impulsi da coloro che li hanno raggiunti o dominati, trasmettendo influenze di ogni genere, ma con ciò, nella ricerca di remote origini nessuno può arrogarsi il diritto di cancellarle con l’arma impietosa della devastazione linguistica. 

Ben vengano le fusioni tra i popoli e, oggi più che mai nel fervore di iniziative comunitarie, siano però difese le loro originarie strutture di appartenenza, distintivo delle proprie radici, inconfutabile contrassegno della propria identità, libere da tecnicistiche elaborazioni, da impetuosa e caotica produzione di neologismi nell’ incalzare dello sviluppo della scienza e della tecnologia, foriera, nel nostro paese, per l’indifferente legge del lasciar correre, di vocaboli e sigle straniere, specie anglosassoni, senza che gli amministratori della nostra vita culturale si premurino di tutelare la lingua che ha dato e dà voce unica e costante alla tradizione nazionale, tenuto anche conto che l’integrità dell’italiano, studiato da un numero sempre crescente di stranieri, non può abbondare di babeli terminologiche e tanto meno essere svilita da eccessivi quanto inutili sinonimi per i quali la lingua diviene più acconcia a nascondere che a manifestare il pensiero (*). Come pure dubbia può rivelarsi l’esattezza di quanto detto e scritto intorno all’ etimo delle varie scoperte filologiche, se condite di esorbitanti divagazioni di compiacimento edonistico, peggio ancora da infelici velleità innovative. 

Lasciarsi inquinare il proprio linguaggio da infiltrazioni di altre lingue o di barbarismi che dir si vogliano, in una commistione di ibridi connubi filologici, significa, a lungo andare, perdere le proprie origini, la propria “identità, dare allo straniero licenza di devastare i propri tesori linguistici, affidare se stessi all’ arbitrio di quelle nazioni che, per vantati meriti di trapassate egemonie, pretendono di avere predominio nell’interscambio lessi cale del commercio, che di certo non fa onore al nostro idioma, erede indiscusso della nobilissima lingua latina dalla quale Dante trasse «lo bello stilo» del suo capolavoro. 

Paolo Monelli, attivo difensore della nostra purezza linguistica, ci attribuiva mancanza di orgoglio, la disponibilità a raccattare ogni foresteria con balorda premura e a farci inquinare il linguaggio con fare tipico degli ignoranti, degli schiavi; e precisava: «il che non è indizio di spirito moderno, è al contrario tabaccosa mania». 

Lapidario e veritiero il pensiero di Lorenzo Valla: «Tramontano gli imperi, tramontano le imprese dei popoli e dei re, ma non la lingua quando largamente diffusa non tanto e soltanto in forza di meriti espansionistici, quanto perché, come la latina, più preziosa della propagazione dell’impero romano, da conservare gelosamente come un Dio disceso dal cielo.» E difatti, ovunque si è espanso il dominio romano, anche se ormai cessato da secoli, ivi la stirpe dei casci latini, la loro progenie, la romana gens, continuano a vivere e a regnare poiché l’impero romano è restato dovunque ha imperato la lingua di Roma. «Imperio populos, Romane, memento», esortava il Vate: «o Romano, ricordati di guidare i popoli al Parime, alla parificazione ». 

Senza dubbio i popoli vanno guidati soprattutto dalla lingua, istituzione voluta dal nostro consenso, a seconda che permettiamo che sia, in un modo o nell’altro, in diretta dipendenza dalla nostra volontà. Se non la curiamo, se non la difendiamo dagli assalti nemici, se la lasciamo contagiare dai germi infettivi d’infiltrazioni egemoniche, prima o dopo finirà per ammalarsi e perdere la sua vetusta potenza espressiva, pervasa da fiaccanti contraccolpi stranieri. Adagio, quindi, a indulgere con l’uso di forestierismi e neologismi a indiscriminate aperture alla moda. Piuttosto è quanto mai necessario istituire un’autorità in grado di adattare la terminologia straniera alla nostra, seguendo l’esempio di quegli stessi paesi che ambiscono a posizioni di assoluta preminenza. E occorre, peraltro, sottrarla agli assalti deformanti di coloro che, facendone continuo uso, si ritengono professionalmente autorizzati a farne scempio. 

Donato Accodo

* Cfr. «Repubblica», sabato, 26 febbraio 2005, «Bonsai italiano», di Sebastiano Messina. In poche righe e con fine satira, l’autore focalizza il problema che non va preso alla leggera, bensì affrontato con fermezza e determinazione. (n.d.r.)

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 5-8.

Print Friendly, PDF & Email

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato.


*