La poesia di Buttitta

G. Giacalone, Saggio critico su Ignazio Buttitta, Lalli ed., Poggibonsi, 1987, pagg. 95. 

Rileggiamo con piacere il saggio su Ignazio Buttitta che è stato aggiunto alla ormai vasta fortuna critica del poeta siciliano in Italia e all’estero. 

Il volume fa seguito allo «Ignazio Buttitta» di AA.VV., Novecento siciliano, Catania, 1986. 

Giacalone in sette agilissimi capitoli inquadra l’inconfondibile personalità poetica del Buttitta. Nel primo capitolo l’Autore affronta l’aspetto etnologico (la sicilianità del poeta) e il noviziato poetico suo. Nel secondo tratta questo aspetto etnologico come carica sentimentale del suo impegno politico, mentre nel terzo è visto come base in cui il talento poetico del Buttitta comincia a prendere forma e consistenza di poesia universale. Nel quarto l’Autore rivive in un’ottica comico-grottesca la filosofia buttittiana che ci fa ricordare la posizione pirandelliana. Nel quinto capitolo vi ravvede un’epica popolare, e il sesto tratta del passaggio dall’epica corale alla elegia personale. Il settimo è dedicato alle componenti dell’arte di Buttitta. L’Autore affronta la sua critica con grande obiettività che gli deriva da due motivi inequivocabilmente fondamentali: il primo riguarda l’elemento etnico in quanto egli è siciliano come lo è Buttitta. Questa prerogativa permette al Giacalone di penetrare meglio di qualche altro critico non siciliano le gioie e le sofferenze, i sentimenti e le aspirazioni, le ingiustizie e le delusioni politico-sociali del popolo siciliano. Il secondo motivo riguarda il carattere del suo pensiero di critico creativo, proprio della sua attività spirituale, improntato ad una straordinaria intuizione intellettiva sempre sveglia e pronta a cogliere l’intelligibilità delle cose intuite. La critica del Giacalone affonda nella coscienza del poeta per cogliere il suo «fiducioso anelito alla giustizia sociale» che auspica al popolo della sua Sicilia. 

La poesia del Buttitta «non ha origine o ispirazione letteraria» né si rifà a «schemi o moduli della poesia dotta», non rientra neanche in quei movimenti storico-letterari e neppure in quella corrente del verismo o neorealismo, come può sembrare a prima vista, la quale è più conforme alle sue «strutture narrative». Nasce invece da quelle caratteristiche e condizioni, anche «contraddittorie», che sono il costume, il carattere, il sentire, il folklore, i quali esprimono fondamentalmente e inconfondibilmente quel tratto etnico sui generis che in una parola si definisce sicilianità. 

Osserva il Giacalone che la «qualità eccezionale» del Buttitta come poeta popolare è nell’avere non solo «elevato il dialetto siciliano a lingua d’arte», ma anche «nell’avere universalizzato la sicilianità del suo sentire», cioè nell’avere fatto materia del suo canto il popolo siciliano nella sua «millenaria e contraddittoria civiltà», perché, appunto, nell’urto di tanti popoli succedutesi storicamente in terra di Sicilia, si è formata e consolidata nei millenni quella coscienza popolare che, passata sotto il filtro della eterogeneità etnica dei popoli invasori, è intessuta e vive, sotto la spinta di strutture morali e sentimentali, del costume del popolo siciliano. 

La critica di Giacalone è un contributo non indifferente alla critica letteraria. Forse prima o contemporaneamente a lui erano state riconosciute alcune qualità trascendentali della poesia del Buttitta quali la «universalità», la «verità» e la «bontà» che altro non sono che qualità inerenti alla sua produzione poetica e costituenti quella che si può chiamare la sua «perfectio poetica». 

Ma merito del Giacalone è il riconoscere nella poesia del Buttitta altre qualità, quali la «spes» e la «deceptio» (delusione), che sono elementi costitutivi cioè i «sentimentalia» propri del popolo siciliano storicamente visto e impersonati nello spirito del poeta. Ora, le prime come le seconde qualità costituiscono quelle esigenze logiche e quei criteri della conoscenza in generale di cui non crediamo si possa fare a meno. Il critico mette assai bene in luce il sentimentalismo che si rivela in Buttitta come bisogno di comunicare col pubblico per denunciare le sue impressioni e le sofferenze per le ingiustizie umane e la solidarietà sua con chi soffre o è emarginato. Ma oltre a ciò non mancano note politiche intessute di sentimentalismo, come in «Sariddu lu Bassanu» fino alla satira antifascista. Ecco pochi versi di questo poemetto satirico dal ritmo di ballata popolare «La vita sì fu lorda / ora nuddu la ricorda; / travagghiari un vosi mai: / jocu, vinu, liti e guai; / e la sira li so figghi / comu fussiru cunigghi / si mittivanu a la gnuni / cu li testi a pinnuluni, / e, diuni, li nuccenti / cu la fami ‘nta li denti». 

La «Littra a una mamma tedesca», «La paci» e la «Strage di Portella» testimoniano il «più sincero e universale canto d’amore» e la coscienza di uomo che lancia il suo messaggio di pace e di odio per la guerra. Ma Ignazio Buttitta, non è solo questo. In «Lu silentiu» (1930) la sua poesia è pervasa di un’aspirazione continua alla lirica dotta in un’atmosfera di naturale musicalità. La poesia assurge a valore poetico universale nella poesia popolare ove lo stile epico-eroico ben s’intreccia con quello elegiaco che trova nel «Lamentu di Turiddu Carnevali» (1955) una storia di «Chanson de geste» medioevale che narra l’efferato delitto di mafia di Salvatore Carnevali. 

Il mondo poetico del Buttitta è il mondo della povera gente, dei vinti, che fu anche il mondo del Verga, e la sua poesia non può non essere carica di sicilianità emotiva, capace di trasmettere l’emozione e la commozione con la rievocazione di «memorie d’infanzia o antichi retaggi di miserie ataviche o ingiustizie sociali sofferte dalla povera gente, che nessun governo ha mai lenite». 

Buttitta vede che la storia e il progresso sociale nazionale non coincide affatto con la storia e il progresso sociale della sua Sicilia. Perciò il suo canto vuole essere un canto di denuncia del dramma politico, che è il dramma delle miserie e delle delusioni della Sicilia, dal quale il popolo siciliano vuole liberarsi; e del dramma linguistico, perché la contaminazione della lingua siciliana di italianismi e la parlata di cui fa uso il rapsodo siciliano, nell’intento di recuperare la civiltà siciliana, non è che un «documento di questa violazione estrema della sua sicilianità». Questa denuncia è il messaggio umano che il poeta ha lanciato non solo al popolo siciliano ma agli altri popoli della terra. 

Il Buttitta certamente non meritava l’esclusione operata da Francesco Brevini dall’antologia di poesia dialettale nazionale: «I poeti dialettali del Novecento», edita da Einaudi qualche anno fa. Tanto più che i motivi non sono affatto giustificabili, anzi, hanno scatenato una reazione a catena tra molti studiosi. Brevini si è giustificato affermando’ che «appesantisce l’opera di Buttitta la presenza di elementi sociologici che troppo spesso non riescono a diventare poesia». Ogni opera d’arte si struttura secondo un modo di sentire e di concepire nel quale l’autore cala i vari elementi di cui è intessuta la materia del suo canto. Per questo a noi non sembra affatto valida la sua giustificazione. Non per campanilismo, ma per obiettività di critica. Che dire allora della poesia di Dante, del Verga, del Baudelaire, di Victor Hugo e di tanti altri grandi maestri dell’arte poetica delle varie letterature del mondo i quali nella loro poesia includono anche non pochi elementi sociologici? Così la pretesa del Brevini vuole che tutti i grandi maestri siano egocentrici, ossia che non vedano e non sentano che se stessi, come il Petrarca, il Leopardi, o Gerard Nerval in Francia. Laddove intorno a loro vive e palpita la vita dell’umanità. 

Checché dica il Brevini con la sua critica soggettivistica, non è così. L’esclusione di Buttitta dalla sua antologia è una decisione che indica un limite culturale di estrema gravità e che, tra l’altro, non tiene conto del riconoscimento ufficiale della critica letteraria italiana che addita Buttitta come il più grande poeta popolare della letteratura italiana del Novecento. 

Vincenzo Bilardello

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 50-53

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