Franco Nicastro, autore di diverse opere sulla storia dell’autonomia regionale, ha una consolidata tradizione di impegno contro la mafia, dimostrato dal 1961 al 1978 attraverso il giornale «Sicilia domani » e testimoniato da Romolo Menighetti nel libro Un giornale contro la Mafia (Ila Palma, Palermo, 1984). 

Nei 4 volumi dedicati ai rapporti tra mafia e Pci, Nicastro ha insistito sull’intento dei comunisti di fare della lotta alla mafia solo uno strumento di competizione politica, e sulla loro incapacità di condurre una valida azione di contrasto al fenomeno mafioso. Intento dell’Autore non è di allargare l’arco delle responsabilità come alibi per una sanatoria delle responsabilità della D.C. e delle altre forze politiche, ma precisare che l’avere strumentalizzato l’antimafia ha impedito il formarsi di un fronte comune per una incisiva azione contro quella piaga storica della società siciliana. 

La conclusione non è di pareggiare i conti, attribuendo a tutte le forze politiche la responsabilità del deficit nella lotta alla mafia, ma di rilevare che il Pci con il suo comportamento ha impedito alle forze politiche di saldarsi in un fronte unico contro quello che Giovanni Paolo II ha chiamato «prodotto del diavolo». 

Nei primi due volumi dell’opera, si dimostra che la linea della purezza anti mafiosa del Pci si era inclinata fin dal 1944, con l’invito alla giovane mafia, rivolto su La Voce Comunista, di staccarsi dai padrini tradizionali e mettersi a disposizione del Pci! Purezza ulteriormente offuscata nel 1947, con l’appello di Girolamo Li Causi al bandito Giuliano; con l’appoggio dato nelle prime elezioni regionali del 1947, dallo stesso bandito al separatismo di sinistra, confluito nel Pci; con l’ospitalità offerta nelle proprie liste nazionali, nel 1953, al capo del separatismo agrario Andrea Finocchiaro Aprile (per il quale, se la mafia non fosse esistita, bisognava inventarla); infine col sostegno dato dalla mafia all’operazione Milazzo, voluta dal Pci, come è anche dimostrato dallo schiaffo del boss Paolo Bontade a un deputato che si rifiutava di votare per Milazzo. Per cui nel mondo massmediatico si è diffusa la convinzione che «le coppole storte pendevano a sinistra». Di ciò si può trovare riscontro nel nulla di fatto con cui nel 1959 si conclusero i lavori della Commissione di studio sulla mafia, nominata dall’ A.R.S. a fine 1956 e presieduta da un esponente comunista. 

Nicastro osserva che di una mafia di sinistra aveva scritto per primo l’ufficiale dei carabinieri Renato Candida, nel libro Questa mafia, trovando conferma in quanto affermato da Leonardo Sciascia sull’esistenza, in alcune zone dell’agrigentino, di una mafia di centro-sinistra superiore a quella di centro-destra, nonché dal mafiologo Michele Pantaleone (secondo cui, nel nisseno l’atteggiamento dei comunisti verso la mafia era improntato al «vivi e lascia vivere»). 

Mentre nello e 2° volume si contesta la pretesa verginità comunista nei confronti della mafia, nel 3° e 4° si oppugna un altro topos creato dal Pci sulla sua diversità etica rispetto alle altre forze politiche. Per contrastare l’assunto, Nicastro richiama la partecipazione del Pci al sistema dei finanziamenti occulti e delle tangenti pubbliche. Ad iniziare dal saggio monumentale, Oro da Mosca, in cui Valerio Riva riferisce sui finanziamenti erogati dal Pcus al Pci, sulla tangente multimiliardaria per il gasdotto Urss-Italia, e sulle risorse finanziarie ricavate dal Pci attraverso la rete di società di export-import organizzate fin dal dopoguerra. 

Nel volume Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta di Guido Crainz sono i verbali del Pci, da cui si rileva il malessere suscitato in alcune componenti dell’alta dirigenza del partito (tra cui Giorgio Napolitano) «dalle entrate straordinarie derivanti da alcune attività malsane». 

A dare corpo al sistema che consentiva tale pratica Nicastro riporta dai volumi Le carte del Pci di Giuseppe Averardi e L’oro di Mosca di Gianni Cernetti, il sistema per introitare fondi attraverso militanti disposti a scagionare il partito e ad assumersi ogni responsabilità (emblematico il caso giudiziario di Primo Greganti e il dissenso di Eugenio Reale da Palmiro Togliatti). Altre testimonianze vengono da Misteri d’Italia di Fabio Tamburini, suocero di Achille Occhetto, definito il re Mida della borsa, e la Politica a memoria d’uomo di Paolo Emilio Taviani, nonché da un servizio di Filippo Ceccarelli su la Repubblica nel vivo dello scandalo Unipol. 

Ma Nicastro non abbandona il filo dell’incoerenza del Pci sul tema mafia. Così non manca di coglierne un aspetto eclatante nella decisione del Pci di accordarsi, nel 1976 e fino al 1979, per l’amministrazione del Comune e della Provincia di Palermo con gli esponenti della Dc, che nello stesso anno Pio La Torre aveva indicato come i più esposti. Di questa tregua beneficerà Vito Ciancimino, allora segretario della Dc palermitana e come tale interlocutore dei dirigenti comunisti locali. Un’operazione inutilmente contestata da Emanuele Macaluso in sede di direzione nazionale. L’accordo avviene nel contesto del compromesso storico, per cui il Pci manifesta la sua disponibilità a smettere la lotta alla Dc, pur di avere responsabilità di governo. Tale linea si realizza, oltre che al Comune e alla Provincia di Palermo, alla Regione siciliana con il governo di unità autonomistica di Piersanti Mattarella. In questo contesto si consuma l’esperienza governativa di Mattarella, che i comunisti, ai .primi del 1979, mettono in crisi avviando una deriva che si concluderà con il disimpegno dei socialisti, e nella tragica epifania del 1980. Così come i comunisti avevano fatto con l’on. Giuseppe D’Angelo, il cui governo, come quello di Mattarella, rappresentava la trincea istituzionale più avanzata contro il prepotere mafioso. 

Sulla discontinuità e la strumentalità comunista nella lotta alla mafia, Nicastro riporta le critiche del libro Un lungo incantesimo di Simona Mafai al Comune di Palermo negli anni Ottanta, e segnala i possibili riscontri in Sicilia alla politica della doppia morale comunista, citando la dichiarazione dell’esattore Nino Salvo di aver finanziato tutti i partiti, compreso quello comunista. La cosa assumerebbe contòrni significativi, se rispondesse al vero la denuncia di Bettino Craxi alla Camera, secondo cui una cantina sociale dei Salvo era grande esportatrice in Urss; e c’è una dichiarazione del senatore Ludovico Corrao, secondo cui il presidente dell’Ente minerario siciliano, Graziano Verzotto, aveva distribuito soldi a tutti i partiti, compreso il Pei. Significativo è il fatto che le querele annunciate non abbiano avuto seguito, come eloquente è il fatto che, a proposito del procedimento giudiziario per la costruzione della raffineria Isab in provincia di Siracusa, gli inquirenti fondavano le accuse su un file in cui comparivano finanziamenti a partiti, burocrati e giornali, tra cui il Pci e «l’Ora». Certo l’attività delle Commissioni antimafia nazionali non corrispose alle speranze suscitate. Si veda l’esito fallimentare dei processi di mafia celebrati tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70, nonché l’evoluzione della mafia, trovando una logica nelle uccisioni di magistrati, giornalisti, funzionari e imprenditori, avvenute non per il ruolo che ricoprivano ma secondo il grado di pericolosità per i loro affari. È il tempo delle uccisioni del giornalista Mauro De Mauro, del procuratore della Repubblica, Pietro Scaglione, del segretario provinciale della Dc palermitana Michele Reina e del giudice Cesare Terranova. 

Il libro è corredato da una attenta postfazione di Ferdinando Mannino, che riferisce dei tentativi di tacitare le tesi sostenute da Nicastro e cioè che «qualitativamente la morale pubblica del Pci non è stata dissimile da quella degli altri partiti. Escludendo i finanziamenti sovietici e delle attività commerciali, la misura dei proventi illeciti può essere stata inferiore, per il fatto che l’area di governo del Pci era molto più ristretta di quella della Dc e dello stesso P.s.i.». La conclusione è che nessun Partito può chiamarsi fuori da collusioni con la mafia, e non serve proseguire il tragico balletto per cui ogni partito continua a scandalizzarsi della mafia degli altri. 

Renzo Mazzone

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 54-56.

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