Le ragioni del principio antropico 

L’universo è sconfinato nel tempo e dunque anche nello spazio. La teoria cosmologica del Big Bang, quasi unanimemente accettata da tutti gli studiosi, fissa una origine dell’universo circa 15 miliardi di anni fa: tenendo conto dell’espansione dell’universo scoperta da Edwin Hubble negli anni 1920/30 e del fatto che la velocità massima con cui ha luogo ogni genere di propagazione (di materia, di informazione, di energia, etc.) è quella della luce, si potrebbe osservare un volume di spazio pari a quello di una sfera con un raggio di circa 15 miliardi di anni luce (a.l.): essendo un a.l. la distanza che la luce percorre in un anno nel vuoto, 15 miliardi di a.l. equivalgono a circa 142.000 miliardi di miliardi di Km! 

In questa immensa distesa spazio-temporale, la vita, almeno per come la conosciamo noi e per quello che sappiamo dell’universo, così come ci appare oggi con i nostri limiti osservativi, si è sviluppata su un piccolo pianeta di un sistema stellare periferico di una comunissima galassia a spirale: la Terra. 

Le valenze conoscitive di questa osservazione chiamano in gioco, da qualunque angolazione la si voglia leggere, il ruolo ed il significato della presenza dell’uomo e della vita nell’universo: qualunque esso sia, la sola nostra presenza, impone che questo universo debba essersi originato e sviluppato, per caso o per disegno prestabilito non è possibile appurarlo (anche se su ciò possiamo congetturare), in maniera tale da rendere possibile la vita e la presenza di esseri intelligenti quali noi siamo. 

È il cosiddetto principio antropico: in sintesi il tentativo di interpretare l’universo sulla base del fatto che nella sua genesi ed evoluzione ha reso possibile resistenza di esseri ‘coscienti in grado di osservarlo e di porsi domande su di esso. 

Le condizioni iniziali dell’universo in cui viviamo e leggi fisiche che ne sono scaturite e che lo regolano sono infatti proprio quelle necessarie per consentire resistenza della materia, della vita e dell’uomo sul pianeta Terra. 

Noi sappiamo che l’universo è nel suo complesso retto da 4 tipi di forze od interazioni come è più corretto chiamarle (gravitazionale, elettromagnetica, nucleare forte, nucleare debole) le cui intensità vengono espresse per il tramite di alcune costanti fondamentali della fisica quali la velocità della luce, la costante di Planck, la costante gravitazionale di Newton, la costante di Hubble, etc.: queste costanti, insieme ad altre della fisica che esprimono le proprietà delle particelle elementari, quali la massa, la carica, etc., avrebbero potuto benissimo assumere valori diversi da quelli a noi noti, ma se ciò fosse avvenuto, l’universo non sarebbe così come noi lo conosciamo e noi non saremmo qui a porci questo quesito: in altri termini noi esistiamo perché esistono certe precise relazioni tra interazioni e particelle. 

Basta cambiare di poco il valore di una di queste costanti e le condizioni che hanno portato alla vita vengono a mancare! 

“L’esistenza degli esseri umani è iscritta nelle proprietà di ogni atomo, stella, galassia dell’universo ed in ogni legge fisica che regola il cosmo”: così afferma Trinh Xuan Thuan, astrofisico americano di origine vietnamita. Altri studiosi si spingono ancora oltre appoggiandosi ad uno dei più sorprendenti risultati della meccanica quantistica e sostengono che è proprio la presenza dell’uomo a dare senso all’universo: senza l’uomo esso non ne avrebbe e pertanto l’evoluzione dell’universo non può che essersi univocamente indirizzata sulla via che porta alla vita ed all’uomo. 

Il principio quantistico che ne fa da referente a1Terma che è l’interazione tra osservatore e cosa osservata a conferire realtà al fenomeno e perciò è necessaria la presenza dell’uomo a fare collassare l’onda dell’universo e stabilime l’esistenza, proprio come un elettrone, che in buona sostanza è una nuvola di carica spazialmente non individuabile, acquista realtà di particella solo quando un osservatore fa collassare la sua funzione d’onda, cioé fa sì che, mediante un oppportuno dispositivo sperimentale, la probabilità di osservarlo in un certo punto sia massima rispetto a quella di osservarlo in altri punti dello spazio-tempo quadrimensionale, nei limiti consentiti dal principio di indeterminazione di Heisenberg. 

In questa ottica si comprende la entusiastica affermazione del fisico americano John Wheler: “Se perché esista un osservatore cosciente è necessaria resistenza di un universo, è altrettanto vero che l’esistenza di un osservatore è ugualmente indispensabile per il collasso dell’onda dell’universo: vale a dire per sancire la sua esistenza”. 

Senza la presa di coscienza della sua esistenza da parte di un osservatore, cioè senza un processo di osservazione e misurazione, la cosa osservata è priva di realtà fisica: il principio antropico sembra dire che gli esseri umani, in quanto osservatori, sono la coscienza di sé riportando così l’uomo al centro dell’universo. posizione da cui era stato strappato con forza dalla rivoluzione copernicana. 

È superfluo sottolineare che una simile applicazione su vasta scala di un principio il cui dominio di azione è il microcosmo non è affatto unanimamente accettata sembrandone il suo uso del tutto arbitrario, fuorviante e ad hoc per dimostrare un assunto aprioristicamente accettato per buono. 

Quest’ultima versione del principio antropico è quella detta forte in contrapposizione alla prima detta debole. proprio perché mentre la prima partendo dalla realtà che ci circonda si limita alla ricerca delle condizioni che apriori la hanno resa possibile, l’altra impone una lettura finalistica di questa realtà: in altri termini secondo la versione debole la presenza della vita ci può aiutare solo a selezionare tra le possibili storie dell’universo quelle compatibili con la vita mentre la versione forte si spinge oltre assegnando all’uomo il ruolo di termine ultimo. di fine del creato. 

È fortemente anomalo, ma a mio avviso fecondo di possibilità di ricerche future. come nella cosmologia moderna sia entrato. attraverso la variante forte del principio antropico, un elemento finalistico anche se usato in chiave scientista come spiegazione post hoc dell’universo. 

Il problema di fondo che spinge parecchi cosmologi ad una lettura forte del principio antropico è essenzialmente legato alla improbabilità che dal Big Bang sia potuto emergere un universo come il nostro: bisognava perché ciò accadesse un universo che già nello stato iniziale fosse ben ordinato e ciò è assai poco probabile anzi è molto speciale: bisognava che le leggi dell’universo in cui viviamo preesitessero ad esso stesso regolandone la genesi e lo sviluppo: e siamo a due passi dalla presenza di Dio! 

Questa scomoda presenza può però essere rimossa ipotizzando un modello ad N-universi. per il quale alcuni si richiamano alla teoria inflazionaria caotica elaborata dal fisico sovietico Andrei Linde ed alla disomogeneità e disuniformità al contorno del Big Bang, dati questi recentemente confermati dal COBE (Cosmic Background Explorer) il satellite della Nasa che sta fornendo importanti indicazioni sulla struttura dell’universo. 

Secondo la teoria ad N-universi esistono infiniti universi non in relazione tra di loro e noi esistiamo in uno di essi nel quale si è potuta sviluppare una vita basata sul ciclo del carbonio e possiamo percepire solo questo universo perché solo in esso siamo in grado di compiere operazioni di misura. 

Così facendo la vita torna ad essere un caso e non una condizione al contorno stringente ed assoluta. 

Dimenticando per un momento la duplicità di lettura del principio antropico esso appare come una sorta di nuovo propulsore della ricerca cosmologica, nuovo nel senso di un utilizzo post hoc del dato reale della presenza della vita sulla terra: partendo dalla constatazione della presenza dell’uomo si deducono le condizioni iniziali adatte a determinare tale presenza; ciò pur non costituendo un nuovo epistema è comunque un indicatore del bisogno di nuovo che si avverte all’interno della comunità scientifica’ (vedi il problema delle 3 C in fisica non lineare: catastrofi, caos, complessità). 

Che il principio antropico possa avere implicazioni finalistiche o meno, mi sembra, ma è una mia personale opinione, esuli dal campo della ricerca scientifica vera e propria e chiami piuttosto in gioco il bisogno di metafisico che emerge sia dalla crisi di valori della cosiddetta civiltà tecnologica sia dai tentativi di coniugare fede, teologia e scienza che attraversano trasversalmente il dominio della ricerca teologica e quello della ricerca scientifica. 

Sembra infatti riemergere la necessità di un principio, di un elemento ordinatore che assicuri razionalità ai fenomeni della Natura in maniera da permetterei di descriverla in termini logici, simbolico-matematici, o metasimbolici ed il vecchio epistema laplaciano per il quale l’ipotesi di Dio sia superflua per la descrizione del mondo non appare più, come altresì accade al meccanicismo newtoniano ed alla dinamica lagrangiana, come una condizione imprenscindibile per la ricerca scientifica. 

Una tale necessità pare sembra farsi più impellente a mano a mano che si accumulano dati sulla teoria del Big Bang, una teoria che pone i fisici dinanzi ad un oggetto particolare descritto con il nome di singolarità: uno stato fisico che non sappiamo descrivere in termini di equazioni e con cui i fisici hanno poca amicizia poiché esso contravviene ai più basilari principi di continuità su cui è costruito l’intero edificio della fisica. 

L’elaborazione del principio antropico si inserisce nel quadro di queste nuove necessità conoscitive da due differenti versanti: da un lato i teologi non hanno tardato a farne uno strumento per riaffermare un antropocentrismo ed una teologia della salvezza rivista in termini cosmici, dall’altro essa ha spinto la ricerca scientifica su territori ad essa inusuali, pervenendo alla elaborazione di un concetto di dio in termini razionali e logici che coinvolgono il concetto di informazione ed in maniera riflessa quello di entropia. 

Sul versante teologico il principio antropico sottolinea ulteriormente la specificità della presenza dell’uomo nell’universo rimarcando l’unicità di specie vivente intelligente propria dell’uomo. 

Nel porre la genesi e lo sviluppo dell’universo in relazione con il presentarsi della vita, il principio antropico pone. secondo i teologi, un problema di relazione che va oltre l’usuale determinismo causa-effetto proprio perché in tale universo viene a determinarsi una forma di vita intelligente: in altri termini i teologi tendono a sottolineare che la differenza che l’uomo pone all’interno del creato non può essere, né deve essere sottaciuta! 

L’uomo che si pone come osservatore nei confronti dell’universo e che percepisce la sua unicità di osservatore intelligente, riconosce nella esistenza di 

un processo evolutivo che a lui conduce una sorta di codice cosmico che alla luce della fede egli vede come opera di una persona che ha programmato la genesi e lo sviluppo dell’universo in funzione dell’uomo: questa persona gli si palesa quindi come supremo ordine, come realtà apriori dell’universo, in modo da poterlo preordinare, fuori, pertanto, dal tempo che egli stesso crea e nel quale si immerge, come garante della stabilità del creato e delle sue leggi: ma questa persona gli si palesa anche come principio di libertà dato che l’uomo si percepisce realtà incondizionata e libera: in tale persona la fede gli consente di riconoscere Dio! 

Il progetto etico della fede, ma sarebbe meglio dire delle religioni, diventa pertanto il progetto di una sorta di realizzazione cosmica che passa, come per un percorso obbligato, attraverso la realizzazione dell’uomo. 

Il progetto cosmico di Dio, l’universo stesso creato per l’uomo, si compie attraverso la realizzazione dell’uomo, come entità chiamata alla vita ed al mistero dell’essere ed a rapportarsi con il motore euristico dell’universo, Dio, Essere autoesplicativo e principio ordinatore del cosmo e delle sue leggi. 

Sull’altro versante, il principio antropico ha dato luogo al tentativo di un modello matematico di Dio: è la “Omega Point Theory” (Teoria del punto Omega) elaborata dal fisico-matematico Frank J. Tipler. 

Il Dio di Tipler è un Dio in evoluzione, che è nel mondo, lo crea e ne è creato. 

Creato e creatore, lungi dall’essere due cose differenti, sono invece manifestazioni differenti di un unicum, cioé manifestazioni su scale diverse di questo unicum, come fossero realtà sovrapposte una all’altra, ma di una sovrapposizione che li rende apparentemente una trasparente all’altra! 

Consideriamo come esempio esplicativo un uomo: esso è composto da atomi, ognuno dei quali obbedisce a delle precise leggi fisiche: pur non di meno l’uomo, totalità di quegli atomi, non solo non è descrivibile nei termini con cui si descrivono gli atomi, ma è ben più che la semplice somma degli atomi stessi. 

In egual maniera l’universo è descrivibile da precise leggi fisiche, ma oltre quelle leggi emerge una realtà oltre, emerge una Persona. 

L’universo di Tipler è un universo autoconsistente in quanto per esistere non richiede il bisogno di un intelVento ad esso esterno; è in evoluzione nel senso che esso è sede di un continuo aumento di informazione! 

La storia dell’universo è una storia di tipo evolutivo: dalle forme di vita elementari si è pervenuti all’uomo e noi stessi siamo destinati ad essere sostituiti da una specie più evoluta di noi; questo ci suggerisce da un lato la nostra insignificanza nel tempo, nella storia del cosmo e dall’altro ci pone dinanzi un imperativo di tipo etico: quello di assicurare la continuità di crescita dell’informazione. 

In questa maniera si compie l’evoluzione di Dio: come una continua crescita di informazione, garantita dalla vita e tuttavia da essa sempre più smaterializzata! 

Se questa continua crescita avrà un fine naturale, esso è il Punto Omega, una singolarità, la fine del cosmo come completa autorealizzazione del creato, una sorta di intelligenza senza materia, pura ed assoluta conoscenza! 

Domenico Salvatore Giarraffa 

BIBLIOGRAFIA 

1) P.C.W. Davies, “C’è posto per Dio tra i quark e il Big Bang?, n° 31 1’cAstronomia., marzo, 1984. 
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8) Saturnino Muratore, “Antropocentrismo cosmologico e antropocentrismo teologico”••La Civiltà Cattolica•• 1992. III. 236-247.

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 45-51.

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