Brama di palingenesi 

Rosa Barbieri, Testimonianze dal mare, Ed. Janua, Roma, 1988, pagg. 110. 

Arpeggiando un ideale contrappunto alla precedente raccolta (Dal fondo delle anfore, Pisa, 1984), Rosa Barbieri cerca ansiosa il ‘varco’ montaliano, la ‘maglia’ rotta nella rete per risalire, lei discesa nell’abisso pelagico, a interrogare la grande ‘immensa culla’ della vita, il mare, per rinascere purificata e rorida nel sole e nelle stelle, con quest’ultimo canto poematico: Testimonianze dal mare. 

Oltre i limiti della filosofia, sulle soglie della religione, con timore e tremore kierkegaardiano, si situa la poesia barbieriana, il cui movente giustificativo, squisitamente morale, è quello dantesco del ritrovamento della «diritta via» smarrita, della salvezza individuale e cosmica, attraverso la tragica prova dello sprofondamento e perdita dell’ego negli abissi oceanici ed ambigui della propria anima, attraverso le oscurità angosciose della notte di S. Giovanni della Croce, o l’allucinante visione della ‘waste land’ eliotiana o del deserto beckettiano. 

«I poeti. dice la nostra poetessa in una nota autobiografica, «sono pescatori di luci profonde, convergenti tra reale e immaginario, tra il terrestre e il cosmico». È l’eterno appello ai valori dell’interiorità dello spirito: in te ipsum redi che però in Rosa Barbieri diventa anche (e di qui l’angoscia assillante) la «discesa degli inferi» baudeleriana, la discesa verso gli anditi più torbidi e oscuri della nostra coscienza, e la conseguente inorridita constatazione sia del fascino dell’angelo come dell’attrazione verso il satanico che pure è dentro di noi. Questa prima ‘fase, l’immersione nell’abisso, è la conditio sine qua non per intraprendere l’itinerario mistico verso il Verum-Bonum: solo ripiegandosi su di sé, dopo aver fatto il vuoto e il silenzio più assoluto riconoscendo umilmente la propria nullità e la vanità del tutto, l’anima sarà in grado di auscultare il battito eterno del cuore di Dio. Solo così «il naufragar» sarà dolce «in questo mare» della misericordia divina, l’inquetudine agostiniana riposerà pacata. Ma il rischio e lo scacco heideggerriano e jaspersiano sono sempre in agguato, in questa fase di introspezione radicale, se appena Euridice «scompare a l’ingordo volere», se Dio cioè scandalosamente tace e si onubila alla vista e al cuore dell’anima smarrita. L’in te ipsum redi paradossalmente si capovolge appunto in un tuffo disperato nella voragine infernale, baudeleriana, appunto dove non si ascolta il battito del cuore misericordioso e pacificatore di Dio, ma «il lamento dell’anima», la sua angoscia, il suo smarrimento in un cosmo effimero ed assurdo. 

In questa atmosfera drammatica squassata dai venti del nichilismo e del materialismo contemporaneo, Rosa Barbieri, aggrappata al suo ponte tibetano di corde, sospeso nel precipizio, si dibatte per salvarsi, implorando ali alla poesia per spiccare il volo verso il suo sole, il cielo. 

E la poesia, pietosa, accoglie il grido e la Donna s’impiuma e si fa aquila, si fa Pegaso scalpitante tra le galassie, lasciandosi dietro, perduto, il pensiero che non riesce più a tener dietro a quella corsa sfrenata di immagini galoppanti, accavallandosi nel turbine incandescente dell’immaginazione priva di corrispettivi nel linguaggio ordinario: la scrittura si fa ardua, allucinata, automatica .difficile da ricondurre nell’alveo minimo di una logica». In tale stato di trance forse il poeta gioca la sua partita più pericolosa: un invisibile filo rosso divide il bene dal male, il vero dal falso, la vita dalla morte: «Alle vergini folli i fiori del male / danzano sul petto con vaghezza di morte». 

Il carattere orfico è evidente in molti passi della poesia di Rosa Barbieri, echi di parole proferite da una Sibilla, parole bisognose di una lettura e di un ascolto attentissimo. La grande fascinosità di questo personalissimo linguaggio assurge a profezia nel suo flusso lavico e incandescente di immagini catartiche e purificatrici. Bisogno di un varco di salvezza, in questo nostro mondo tecnologico – consumistico «dove i numeri inalterabili ruotano combinazioni / alleandosi alla morte»; un mondo votato, come pare all’autodistruzione: «Dicono che non rimarrà / più nulla di tutto questo, ogni pagina / ogni parola data al rogo, al massimo / impigliato in qualche metro di nastro». Un mondo nelle mani di empi «orologiai genetici» di «laccatissimi robot.» la cui sola religiosità è il potere, la violenza, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Un mondo, ancora spietatamente additato alla gogna dalla Nostra, in cui regna il maligno, annidato come un «serpente-drago» nelle voragini dello spirito umano, e che ha paurosamente trasformato l’uomo in un diabolico Caronte «con occhi di brace» a solcare «le distese astronomiche e marine» per snidare e dissacrare la santità dell’Essere universale. 

Ma l’uomo, creatura di Dio, non può non deve morire proprio perché siamo all’epilogo, all’ultimo atto della battaglia dell’anticristo, in cui «il diavolo furoreggia / nella sua esperienza di spazio», fiancheggiato da coloro che si «alternano al comando», unici detentori del codice per interpretare «le formule anagrammate ambiguamente». Toccato il fondo dell’abiezione e della disperazione, con timore e tremore, l’uomo intenerisce il cuore di Dio ed attende «gabbiano imbrattato nella neve» una parola di salvezza, una nuova novella, un nuovo Gabriele. 

E la Parola è venuta ed eternamente corre nel vento; la Parola che saprà far «partorire il seme d’oro» dopo che la carne si sarà straziata e macerata, perché sbocci una coscienza nuova, pura, e l’uomo sia di nuovo libero «con larghe mani» per riabbracciare il mondo. La Parola per cui tutto è stato fatto e per cui si rifonderanno cieli nuovi e terre nuove e per cui ancora «radici lontane rifluirà / il ramo cilestrino che sovverte il gioco». La Parola che ancora dice «Lasciate che i pargoli vengano a me», ecco, un pargolo, il suo bambino, è stato prematuramente chiamato, sacrificio richiesto nell’attraversamento del deserto. Quale «creta dolcissima premuta / alla violenza dell’esistere», il diletto figlio vive ora nel mistero dell’Universo «dalle grandi sciagure, dalle grandi meraviglie», e che ci nasconde un segreto e una gioia inimmaginabili, che ci prepara una «gioia più grande» e più vera, secondo l’intuizione manzoniana. La madre ora sa che egli è nel seno di Euridice, nell’immensa luce dell’Amor «che move il Sole e l’altre stelle», ed al figlio, ora lei, sovvertendo il gioco, chiede la mano perché non possa perdersi per raggiungerlo. In quell’istante supremo, dopo avere posto lo sguardo pietoso sulle maniglie delle porte e delle finestre, sullo specchio, tolte tutte le prese di corrente, ancora e sempre «il glicine [la poesia) rifiorirà lungo l’arco dei secoli per la fatica di tenere desta la memoria». Così, abbandonata ogni cosa di questa società in cui gli uomini, come in un «teatro rabbioso», sono giocolieri disperati «amputati dell’anima», e fatto il deserto interiore, la nave prenderà il largo verso il mare aperto ed infinito dell’Essere, unico e salvifico porto. 

È in questa seconda fase, la ‘pars construens’, che più ci piace cogliere la poesia di Rosa Barbieri; una fase in cui il ‘raptus’ si placa, l’allucinazione si fa sogno dolcissimo in dormiveglia, la parola si ricompone, il pensiero controlla e addolcisce lo spasimo di trance, le schegge e i frantumi delle sillabe si ricoaugulano e le immagini, parossisticamente inseguentesi, illimpidiscono unificandosi. Ed è in questa misura ritrovata di equilibrio olimpico che si scioglie il canto soavissimo di questa Sirena nell’ultima parte di Testimonianze dal mare, e cioè ne Il Veggente e la Cosa, all’unisono col canto dell’Universo di Pierre Tenhard de Chardin. Il varco della salvezza è trovato, la nave segue sicura la rotta illuminata dal faro dell’Oriente; l’uomo, che aveva dimenticato «l’ebbrezza delle stelle e il tocco della Pasqua», può ritrovare l’Eldorado perduto, accogliendo la «pepita d’oro dell’annuncio» ai piedi della radice di Jesse; «l’umanità intera sboccia dal focolaio del Giusto». 

Deluso dalla ‘sfinge’ della ragione che sempre si affatica a riordinare «spezzoni di epitaffi» per spiegare tutte «le possibili facce della Cosa», senza pervenire a nulla se non a riconoscere il proprio scacco, accettato lo scandalo di un Dio che ama la vita nel «Figlio dolente», che riscatta il dolore dell’uomo e del cosmo attraverso il corpo straziato di Cristo «tra le braccia giganti del Sole» (il Padre), l’uomo finalmente rinuncia alle ambizioni luciferine e si abbandona fiducioso al respiro incessante della Cosa, confidando che il risucchio della sua anima nel gorgo eterno dello Spirito genererà una nuova creatura, un nuovo parto di cui già avvertiamo le doglie nella tensione cosmica; l’anelito accorato della fine e del ritorno alla casa della Gerusalemme celeste. 

Come tra i primi cristiani, nell’attesa della Parusia, si leverà il grido: «Vieni, Signore Gesù», dopo aver accettato di morire nel solco come il chicco di grano; perché questa è la legge eterna del divenire, la sola che permetta di risalire à rébours, ricongiungendo la morte con la vita nel «miracolo del capovolgimento»: «Tutte le cose lo sanno / e dolcemente chinano il capo in attesa / che si colmi il limite doloroso» per una nuova e vergine mutazione. 

Filippo Pirro

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 52-55.

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