La cultura della guerra 

Molti sono per la guerra, perché sostengono sia un mezzo per il raggiungimento della pace1. Sembra assurdo: l’uomo anela alla pace, e intanto proclama la guerra; fa guerra per realizzare la pace. Ci troviamo dinanzi ai due schieramenti del si e del no, che perseguono (apparentemente) la stessa finalità con due strade diametralmente opposte: quanti vogliono la guerra, ritenuta capace di risolvere ogni controversia, e quanti la rinnegano, considerandola un crimine contro l’umanità. Due schieramenti “l’un contro l’altro armati” che ribadiscono la ferma convinzione di trovarsi nel vero e nel giusto. 

Sappiamo che non si è mai certi di essere nel vero e nel giusto, ma sappiamo, e siamo pienamente convinti, che l’uomo va rispettato nel suo essere profondo, nella sua umanità, per quello che è, capace di produrre dialogo. Ma questo è un aspetto che va ripreso; per il momento, riteniamo delineare sinteticamente le opposte culture che animano questi schieramenti e, poi, vogliamo richiamare all’attenzione alcuni filosofi e studiosi che hanno affrontato il tema della guerra. Qualche esempio soltanto, perché la sua letteratura è molto vasta. 

La cultura della destra, in Italia e nel mondo, è propensa alla guerra. Neoconservatrice e autoritaria in politica, aperta a tutte le istanze in economia. Il suo liberismo è portato ad avallare qualsiasi cosa torni utile e renda denaro, come il ricorso alla forza delle armi, il consumismo sfrenato, le tecnologie, spingendo la gente (persino la piccola e media borghesia, gli stessi operai e i giovani), delusa dai passati regimi a darsi ad un edonismo egoistico e privo di idealità; edonismo che devia dai veri problemi la gran parte di persone e lascia campo libero a poche per consolidare nel pubblico il loro privato. 

Altra cultura è quella della sinistra che offre una non piacevole immagine di sé, priva di un programma chiaro e unitario, tale da formulare proposte alternative concrete. E questo la porta spesso a litigi interni che la compromettono ad ogni momento. A proposito della guerra, essa non ha espresso una chiara posizione. Inoltre, quando il Consiglio di sicurezza dell’O.N.D. votò la risoluzione che legittimava l’intervento militare alleato, una buona parte del centro sinistra accettò favorevolmente la decisione, la quale fu un segno tangibile di asservimento alla maggiore potenza. Il disorientamento della sinistra è dovuto al fatto che, crollata l’ideologia marxista, deve contrastare la destra su un terreno (quello del capitalismo) che prima le era impraticabile. Sicché, i temi che affronta (l’economia, la giustizia, la scuola, la politica interna), sono gli stessi di quelli dei suoi oppositori. 

Chi si distanzia e differisce, è la sinistra più a sinistra, la radicale, molto sensibile ai grandi temi che travagliano la società italiana e il mondo, e li denuncia (la guerra, la globalizzazione, l’ambiente, i Paesi poveri), schierandosi senza tentennamenti dalla parte dei non-violenti, dei no global, degli ambientalisti, di chi chiede l’azzeramento dei debiti dei Paesi poveri. Sono temi che danno linfa a questa sinistra e la rendono credibile, perché s’avvicina alla politica dell ‘ uomo, denuncia l’emarginazione, gli abusi sconsiderati e gli scempi. 

1. – Al di là di ogni disputa, l’alternativa migliore sarebbe quella di restituire il suo vero ruolo alla politica. Si legga, a proposito, E. Peyretti, La politica è pace, Assisi, Cittadella ed., 1998, pag. 203.

E già siamo nell’ambito della terza cultura, quella dei movimenti, fuori dei canoni della politica ufficiale, sicuramente recepita, ma non accolta, perché va contro i molteplici interessi dei pochi, e semmai utilizzata il più delle volte dalle altre solo per fare retorica o essere di facciata, e non con l’intenzione di volerla attuare. È la cultura dei pacifisti, cioè, di coloro che rifiutano la guerra e contestano l’operato dei governi, i quali trascurano l’aspetto umano della vita, contribuendo a nullificare l’uomo, togliendogli dignità, valori acquisiti nel tempo, princìpi; ma è anche la cultura dei no global, che si battono per un mondo a misura d’uomo, contro l’ammasso di capitali da parte di sempre più agguerrite multinazionali, a scapito dei sempre più poveri. Ed è ancora la cultura degli ambientalisti, che rivendicano un mondo più sano a favore della vita. 

Prima di accennare al dibattito filosofico sulla guerra, va detto che il messaggio di Gesù è contro ogni tipo di guerra; così è anche il messaggio delle altre grandi religioni monoteistiche. Sono il fanatismo, l’intolleranza, i fondamentalismi che generano le guerre di religione, da quelle combattute dai crociati cristiani alle altre dei musulmani. È la situazione contingente che spesso fa deviare dal messaggio d’amore e di bene delle religioni; e questa devianza è dovuta ai condizionamenti politico-religiosi a cui l’uomo è sottoposto. Ne deriva che la storia che produce è un continuum di positività e di negatività. Lo constatiamo nella quotidianità tutti, lo affermano i filosofi, non ultimo G. B. Vico che, però, fa risalire questo intreccio ciclico, sempre allargato, alla Provvidenza, la quale dispiega così i piani della Divina sapienza2. Ma, in un mondo sempre più laicizzato, questa visione della storia cede il posto ad una maggiore consapevolezza delle capacità dell’ uomo, che, rispettoso per quanto voglia della volontà divina, reclama ed afferma in modo deciso il suo libero arbitrio. Sicché, imponendosi con la razionalità che gli è propria, agisce quasi sempre per fini utilitaristici, a cui assoggetta il senso della giustizia3, un modo di intendere la giustizia che non è, però, quella che alita in ciascuno di noi e che, a solo pensarla, abbraccia tutto, l’umano e il divino, la materialità e la spiritualità. Mentre l’ utile, qualunque sia, condiziona la giustizia, anzi la uccide, come afferma Kant4. E con essa la vita, perché l’utile porta a guerre nefaste, anche se si combattono in nome della democrazia e della pace; e i popoli che le subiscono vivono nell’estremo abbandono, nella miseria più nera e nell ‘ indifferenza di tutti. Per quale ragione? Per esportare, o imporre, con la forza delle armi la democrazia e la pace? E, ancora, si può parlare di missione umanitaria quando, partecipando in armi, si è alleati con i Paesi che hanno voluto la guerra? 

Questi interrogativi, che abbiamo sentito e spesso ci siamo posti negli ultimi tempi, sono dovuti ed hanno in sé la crisi dell’uomo, tanto teso a soddisfare i propri bisogni, quanto incapace di vedere e venire incontro a quelli degli altri. Allora, come si può volere la pace o, per lo meno, pretendere di vivere in pace, se non si è propensi ad accettare gli altri, e se si vuole imporre, più che dialogare e cooperare? Perché accanirsi a volere un ordine a senso unico? C’è in tutto questo una ragion d’essere che consiste nell’avvantaggiarsi della disgrazia altrui: più gli altri stanno male, tanto più si consolida la loro sudditanza, dal bisogno e dalla 

2 – G. B. Vico, Principi di Scienza Nuova, in Opere filosofiche (a cura di N. Badaloni – P. Cristofolini), Firenze, Sansoni, pagg. 393-394; 465-467. 

3 – U. Grozio, Prolegomini al diritto della guerra e della pace (a cura di G. Fassò), Napoli, Morano, 1979. 

4 – I. Kant, La metafisica dei costumi (a cura di G. Vidari), Laterza, Roma-Bari, 1983

politica. Chomsky scrive: «Strangolali, affamali; e dopo avrai le tue belle elezioni e tutti non faranno che parlare di quanto sia meravigliosa la democrazia5». Chiamiamola democrazia, se vogliamo! 

Ciò non fa che rispondere ad una politica di potenza che equivale a politica di menzogne: nel nome della democrazia, viene presentato per oro colato ciò che fa comodo a pochi, opponendo un fermo diniego alla coscienza che non può avallare un tale operato. Di qui la guerra e, ancora, il terrorismo. E l’uomo, pur di avere partita vinta, rinuncia alla politica, che è apertura, sapere ascoltare pareri diversi, consolidamento di punti d’incontro, smussamento di contrasti con intese e rapporti volti a pianificarli, e preferisce ricorrere alla guerra, cioè, usa la forza delle armi per imporsi sugli altri ed assoggettarli. 

Giorgio La Pira6 vedeva nel capitalismo l’ origine di tanti mali che affliggono l’ umanità. In effetti, nella corsa sfrenata verso l’accaparramento di nuove fonti di ricchezza, tutto diventa lecito e possibile, come la guerra, e tutto viene considerato un bene di interesse collettivo, quanto è feccia della peggiore specie. 

Agostino, Tommaso, Machiavelli, Moro, per un motivo o per un altro, avallano la teoria della guerra. Per Tommaso, forte dell’autorità di Agostino, una guerra può considerarsi giusta se è avallata dall’ autorità del principe, è sostenuta da giusta causa, e risponde a retta intenzione7. Non così la pensa Erasmo da Rotterdam, che, spirito libero, cosa singolare per i suoi tempi, condanna la guerra in ogni sua forma e parla di tolleranza e di solidarietà. 

«Dalla guerra ha origine il naufragio di ogni cosa buona e straripa il 

mare di tutte le sciagure; inoltre, non c’è malanno che si radica più tenacemente. 

La guerra semina guerra, dalla più piccola nasce la più grande, da 

una ne scaturiscono due da ciò che sembra uno scherzo una cosa seria e 

cruenta, e la pestilenza bellica nata altrove si propaga ai vicini e addirittura 

ai popoli più lontani ed estranei[…]. Il buon principe non intraprenderà mai, 

per nessuna ragione, una guerra se non quando, dopo aver tentato di tutto, 

vedrà che non si può evitare in nessun modo8». 

Ed Erasmo non manca di andare contro quanti (Agostino, Tommaso e tanti altri – Machiavelli già nel 1513 aveva enunciato la sua dottrina ne Il Principe; More nell’ Utopia, che è del 1516 -, pur detestando la guerra, si era pronunciato per la dottrina della guerra giusta) si allontanano dall’insegnamento evangelico, che esclude ogni forma di guerra nel nome della pace e della solidarietà tra gli uomini, e riprenderà questa sua convinzione con incrollabile fede nel Lamento della pace (1517), perché la tolleranza e la convivenza pacifica trovino accoglienza nell’umano sodalizio. 

5 – N. Chomsky, Il golpe silenzioso (Segreti, bugie, crimini e democrazia), Casale M., Ed. PIEMME, 2004, pag. 135. 

6 – G. La Pira, “Lettera a Pio XII”, «Corriere della Sera», 3 gennaio 2004. 

7 – T. d’Aquino, Summa Theologica, II, q. 40, a. 1 (trad. di L. A. Perotto, in Scritti politici), Milano, Massimo, 1985. Nonostante S. Tommaso ammetta la guerra giusta, promossa da uno Stato che abbia validi motivi, essa «deve poggiare su una retta intenzione volta al ripristino della giustizia per far trionfare il bene». La “retta intenzione” nella guerra attuale contro l’Iraq non c’è. Le menzogne che sono state dette e sono a tutti note confermano questa affermazione. 

8 – E. da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano (trad. di A. Morisi Guerra), Roma, Signorelli, 1992.

Negli uomini di grande cultura c’è la ferma convinzione che solo la pace permette di vivere da uomini, solo essa garantisce l’ordine, il rispetto, la prosperità 

nel progresso e nelle umane attività, solo essa consolida i rapporti tra i popoli e promuove i commerci, indispensabili per assicurare il benessere e migliorare la vita di tutti. 

A distanza di più di due secoli gli fa eco Kant, che non solo rifiuta la guerra, ma è contro ogni ingerenza straniera in uno Stato sovrano ed auspica l’ emancipazione dei popoli. Così scrive: 

«Per ciò che riguarda i rapporti stessi tra gli Stati, non può pretendersi 

da uno Stato che esso debba abolire la sua costituzione, anche se dispotica 

(ma che è pur sempre la più forte in rapporto ai nemici esterni), finché 

tale Stato corre il pericolo di essere assorbito da altri Stati: perciò deve 

anche essere permesso rinviare l’attuazione di quel disegno a tempo migliore9». 

Ciò significa che, nel momento in cui un popolo, stanco e deluso del regime che lo governa, comincia a ribellarsi, boicottando e sommuovendo tutto ciò che gli è possibile, per allontanarlo, solo allora può essere motivato l’intervento di una forza multinazionale, a tutela dei diritti dell’uomo e per garantire il ritorno alla normalità. Venendo all’attualità, l’O.N.U. sarebbe potuta intervenire, qualora in Iraq ci fossero state le premesse per farlo. Non c’erano, non è intervenuta ed ha fatto bene. Chi si è arrogato il compito di farlo, fu l’America, scavalcando l’O.N.U., facendole perdere tanta credibilità. Sicché, se prima era auspicata una sua ricostituzione per renderla più democratica e credibile, tanto più ora che è stata delegittimata. Qualcuno dirà che gli Stati Uniti avevano tutte le loro buone ragioni per farlo. Ma, premesso che niente viene dal niente (conferma ciò un principio del Karma, secondo cui, tutte le azioni di bene o di male ritornano al mittente in bene o in male), la guerra, di certo, non risolve i problemi, anzi li inasprisce e li ingrandisce. I fatti attuali lo dimostrano. 

Riprendendo il discorso, qualche decennio dopo la presa di posizione di Kant, un altro tedesco, il generale prussiano Karl von Clausewitz10, stratega ed esperto di arte militare, dopo aver definito la guerra «un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà», aggiunge che essa è «un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua concatenazione con altri mezzi». Da bravo generale prussiano, che dovette contrastare j disegni imperialistici di Napoleone, Clausewitz non poteva non far sua la realistica lezione di Machiavelli e di Hobbes: aggredire per non essere aggrediti, o prima di essere aggrediti. Ma così l’uomo sembra essere destinato a vivere in un continuo stato di guerra, e non può sperare di essere nella pace, fino a quando, a catena, alla forza delle armi risponderà con la forza. 

Von Clausewitz fu uno dei primi assertori della guerra preventiva. Quella che ha voluto ed ha fatto Bush, evidentemente spinto da un insieme di interessi e da tutta una filosofia che si riallaccia al pensiero di Leo Strauss per tramite di molti suoi seguaci neo-conservatori e vicini all’ amministrazione americana, come il vice Segretario di Stato Paul Wolfowitz. Strauss ritiene che la giustizia sia espressione del più forte e che il governante possa servirsi del potere a proprio vantaggio. È la politica machiavellica che deve impersonare l’astuzia e la giustizia. A senso unico, evidentemente! 

9 – I. Kant, Per la pace perpetua (La pace come destinazione etica e politica dell’umanità), a cura di M. Pancaldi, Roma, Armando ed., 2004, pagg. 107-108. 

10 – K. von Clausewitz, Della guerra (trad. di A. Bollati – E. Canevari), Milano, Mondadori, 1996.

Nell’uomo è più radicata la cultura della guerra che non quella della pace. Questa convinzione nasce dal fatto che la guerra viene considerata come la panacèa contro ogni forma di male, l’unico rimedio capace di dare soluzione alle più intrigate controversie che travagli ano il mondo. Ma in base a quale norma i fautori l’avallano e i governanti la dichiarano? I primi, ritenendosi detentori del vero, vogliono realizzare ed affermare i propri principi, i secondi, forti delle armi, se ne fanno paladini e, nuovi crociati, seminano stragi e morte nel nome di finte idealità e di nutriti interessi. E per raggiungere tali scopi, ricorrono alla menzogna in politica che fornisce alibi e attira dalla loro parte il consenso dei molti. 

Nell’era delle grandi comunicazioni, ora che veramente sono state abbattute le distanze e il mondo diventa sempre più piccolo, non dovrebbero esistere scontri frontali, e tutto dovrebbe svolgersi nel segno del dialogo, che costruisce e mai distrugge. La guerra è guerra, e non può mai essere considerata giusta. Norberto Bobbio11 ha analizzato nei vari aspetti la teoria della guerra giusta, ed è venuto alla conclusione che è impossibile poter delimitare il giusto dall’ ingiusto, perché mancano la “certezza dei criteri di giudizio e l’imparzialità di chi deve giudicare”. Ne deriva che è una teoria che non ha modo di esistere, come tante altre, specie in un tempo in cui le armi sono più che sofisticate, e il danno che si arreca è sempre maggiore del torto subito. Sono coloro che vogliono veder giustificato il loro operato agli occhi delle popolazioni che ricorrono a risoluzioni e si inventano orpelli giustificatori; sono quelli che prima fanno a meno dell’O.N.U. e poi le chiedono di intervenire per vestire di legalità le loro azioni lesive di ogni diritto. 

L’O.N.U. può intervenire per salvaguardare la pace, non può essere faziosa. Se il suo scopo cardine è quello di mantenere la pace tra i popoli, il suo operato deve essere rivolto senza tentennamenti al bene12. Il mantenimento della pace è il suo fine primario, e pertanto è ribadito in quasi tutti gli articoli che lo Statuto contempla. Il VI capitolo riguarda la «soluzione pacifica delle controversie». L’Organizzazione non può soddisfare 1’interesse di un Paese o di alcuni, perché non perseguirebbe il bene di tutti e le sue soluzioni verrebbero a mancare di solidi principi di legalità; cioè, non agirebbe nello spirito per cui fu costituita, come si è verificato in questi ultimi tempi, facendosi coinvolgere da interessi nazionali, perdendo credito nella comunità internazionale. Perciò, fino a quando sarà snobbata e strumentalizzata dalla maggiore potenza, e alcuni Paesi godranno del diritto di veto, essa non potrà mai rispettare i suoi principi; fin quando i Paesi poveri dovranno elemosinare i miseri contributi, essi saranno sempre condizionati nel voto e, di conseguenza, avalleranno ciò che i potenti hanno già deciso. In politica è spesso invocata l’arma del ricatto, così come viene invocata la menzogna. Tommaso, in certe occasioni, come quando il politico non può farne a meno per raggiungere risultati benevoli, l’ammette13; ma è da stare sempre attenti 

11 – N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, Il Mulino, 1984: «La guerra è una procedura giudiziaria in cui maggiore male è inflitto non da chi non ha più diritto ma da chi ha più forza, anzi si verifica la situazione in cui non già la forza è al servizio del diritto, ma il diritto finisce per essere al servizio della forza. In sintesi: una qualsiasi procedura giudiziaria è istituita allo scopo di far vincere chi ha ragione. Ma il risultato della guerra è l’opposto: è quello di dar ragione a chi vince». 

12 – Il 1° punto del cap. I recita: «1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e a questo fine: prendere misure collettive efficaci per la prevenzione e la cessazione delle minacce alla pace, e per la soppressione degli atti di aggressione o di altre infrazioni della pace e pervenire con mezzi pacifici e conformemente ai principi della giustizia e del diritto internazionale, alla sistemazione o alla soluzione delle controversie internazionali o di quelle situazioni che potrebbero portare ad una violazione della pace…». 

13 – Tommaso d’Aquino, Op. cit.

e diffidare. Lo ha bene intuito Hannah Arendt14, che invita alla prudenza e a guardarci dai mistificatori, i quali spesso usano la menzogna per disorientare e distogliere dalla verità. Come è stato per l’intervento in Iraq. Si è parlato di minaccia irachena, di armi di distruzione di massa, di legami di AlQaeda con il regime di Saddam. Smascherate le menzogne, le vere ragioni vengono intuite, manon rivelate. E, intanto, si continua ad uccidere e a distruggere e, nel nome di ipocrite idealità, alcuni si arrogano il diritto di fare guerra. 

Va ancora ribadito che una guerra, per quanto le motivazioni possano farla avallare, non è mai giusta. E non lo è per tantissime ragioni: considerato che è il contrario della pace, basta questo per dire che essa non è giusta. Per questo va evitata o, per lo meno, vanno tentate tutte le soluzioni possibili perché non si faccia; e, poi, perché, la guerra è un torto nei riguardi di innumerevoli vite innocenti, è tanta distruzione di beni, è un danno spesso irreparabile all’ambiente, è un rinnegare la razionalità, come dire, un regresso dell’ essere-uomo, che si chiude inequivocabilmente nell’egoismo. 

Robert Kagan, in un suo recente libro dal titolo: Il diritto di fare guerra15 difende a spada tratta gli U.S.A., come se fosse un loro diritto fare guerra in nome della collettività («Fin dall’inizio, la politica estera statunitense non ha mirato solo a difendere e promuovere gli interessi materiali nazionali» e, quasi novelli Enea, designati dal fato a reggere i destini del mondo, a perseguire i principi irrinunciabili del liberalismo. Li difende nella scelta della guerra contro l’Iraq e si rammarica che gran parte degli Europei non li abbia seguiti, motivando la sua presa di posizione con la perdita di controllo sulla politica americana16. 

Lasciamo agli altri la possibilità di valutare ancor meglio questi punti di vista. Crediamo, comunque, che la gran parte degli Europei, consapevole delle tante aberranti guerre subite nei secoli nel proprio territorio, e delle altre che tuttora si combattono nel pianeta, si renda ben conto dell’errore che gli Americani continuano a commettere. Riguardo a quanto Kagan scrive, secondo noi: 1) non è questione di perdita di controllo della politica estera americana da parte europea, bensì di attribuzione di senso ai valori e di credibilità17. L’Europa, che ha dietro di sé una cultura millenaria, ha radicati nel suo senso originario i principi di libertà, di democrazia, di uguaglianza e, anche con difficoltà, li persegue. Non così è per l’America, che veste di utilitarismo politico-economico questi valori e li svuota di senso. È questa perdita di senso che disorienta l’Europa e il mondo. 2) Gli Stati Uniti perseguono il liberalismo universale a parole, e non sono credibili; nei fatti, impongono agli altri la loro visione del mondo, come è stato in Afghanistan, in Iraq e in altri Paesi, e quelli che non l’accettano, sono potenziali nemici, suscettibili di andare ad allungare la lista degli “Stati canaglia”. 

14 – H. Arendt: «La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata fra le virtù politiche e le bugie sono sempre state considerate giustificate negli affari politici». (Politica e menzogna, 1972. Trad. it. Milano, Sugarco, 1985). 

15 – R. Kagan, Il diritto di fare guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità (trad. it. di S. Giuliese), Milano, Mondadori, 2004, pag. 55. 

16 – Id., cit., pagg. 16-18: «…evidenziarono una crescente preoccupazione per i problemi intrinseci alla nuova struttura, in particolar modo la rapida perdita di controllo da parte dell’Europa. […] Gli europei non temono che gli Stati Uniti vogliano controllarli; sono solo consapevoli di aver perso il controllo su di essi e, di conseguenza, sulla conduzione degli affari internazionali». 

17 – A proposito, cfr. il discorso di Dominique de Villepin, ministro degli esteri francese, tenuto al Consiglio di Sicurezza delle N.U. il 3 marzo 2003.

La verità è che, come la storia insegna, il modo unipolare di condurre la politica internazionale è stato nocivo a tutti gli imperi del passato ed è nocivo all’America, che da decenni ormai si è imbarcata in guerre che la destabilizzano all’estero e nei suoi Stati. La crisi economica, le pressioni dei grandi trust, la perdita del potere di acquisto dei salari, la disoccupazione, l’insicurezza e la criminalità, oltremodo diffusa, questa, tra i giovani, offrono un’immagine non tanto bella. Ma ai potenti interessa la potenza, poco importa la miseria dei tanti, anzi, se ne fanno scudo per portare avanti i loro disegni, perché la miseria, come le stragi, alimentano la retorica, che rende credibile il loro operato, e ingrandiscono il nazionalismo. 

Intanto, molti intellettuali americani hanno preso le distanze e criticano l’amministrazione Bush. Interessante, a proposito, è il contributo del sociologo Michael Mann, che passa in rassegna la politica americana di questi ultimi anni e suggerisce un cambiamento di rotta, se non vuole evitare il peggio, cioè, il crollo, se non un disastro per sé e per il mondo. Tra l’altro, scrive: 

«È un Impero incoerente, con un militarismo superattivo e arrogantemente 

sicuro di sé che finirà per distruggersi. Per compensare i propri limiti, 

i nuovi imperialisti si attaccano con accanimento crescente all’unico elemento 

di forza di cui dispongono in abbondanza: la devastazione offensiva 

militare. La mia conclusione è che il nuovo imperialismo americano sta 

diventando il nuovo militarismo americano. Ma non basta all’Impero. Chi 

di spada ferisce … 18». 

Difficile dire, a questo punto, fino a quanto la caduta del Muro di Berlino abbia giovato all’ umanità! È certo che in questi ultimi decenni stiamo assistendo a guerre disumane dettate da una folle superbia e da una tracotanza inaudita, la hybris che rode gli animi e non s’arresta, anzi, inebria ed esalta chi vi si trova dentro, da soldati o da resistenti, e istiga al sangue e agli orrori. Chris Hedges, come soldato prima e poi come giornalista, ha potuto sperimentare questo nelle sue varie missioni di guerra e lo descrive nel suo utile, e certamente scomodo, libro Il fascino oscuro della guerra. 

«Quando assumiamo la droga della guerra proviamo esattamente ciò 

che provano i nostri nemici, compresi i fondamentalisti islamici che 

definiamo alieni, barbari e incivili. È lo stesso narcotico che anch’ io 

ho consumato per anni. E come per ogni tossicodipendente in fase di 

recupero, una parte di me continua ad avere nostalgia della semplicità 

e dell’ euforia della guerra … 19». 

La guerra abitua ad uccidere e a guardare in faccia la morte, trascina nel baratro come una droga e per molti è come il richiamo della foresta; e l’ individuo cessa di essere, perché in essa non c’è posto per il sentimento e la morale. Il soldato e il combattente si spogliano della loro umanità e nel loro bruto cinismo commettono le atrocità più inaudite di cui non sempre veniamo a conoscenza, perché ben poco sfugge alla censura di guerra. Ogni notizia e le stesse immagini vengono filtrate, e non è facile farsi idea chiara della situazione. La pubblicità, i mezzi di informazione, la pressione che si esercita sui giornalisti devono, direttamente o 

18 – M. Mann, L’Impero impotente (trad. it. di Gianna Lonza), Casale M., Ed. PIEMME, pag. 26. 

19 – C. Hedges, Il fascino oscuro della guerra (trad. di M. G. Cavallo), Roma-Bari, Ed. Laterza, 2004, pag. 7. 

non, offuscare la verità. Si conoscono spesso le malefatte del nemico, le perdite inflittegli, ma non le nostre o quelle che subiamo. Ogni giorno conosciamo il numero di morti dei resistenti e non quello dei morti tra gli occupanti. 

C’è, inoltre, uno scatenamento di forze che dà dell’antidemocratico e fanatico estremista a chi, per dire come la pensa e voler fare gli interessi di tutti, dice e afferma il contrario. Anche questo va inscritto nella cultura della guerra! Sicché, per caso veniamo informati dei maltrattamenti ai prigionieri, mentre fanno vedere le stragi delle bombe irachene, e non dei bombardamenti alleati. E se filtra qualcosa che oscura la propria immagine, viene considerato un caso isolato o un incidente. Intanto tanti innocenti perdono la vita e le loro morti passano inosservate. Cosa importa degli altri? 

«Noi piangiamo le vittime degli attacchi alle Torri gemelle. Le loro 

foto tappezzano i muri della metropolitana. Piangiamo i vigili del fuoco, 

ed è giusto. Ma siamo ciechi alle sofferenze dei tanti che in Medio Oriente 

abbiamo schiacciato insieme ai nostri alleati, ignorandone per decenni diritti. 

Sembra che loro non contino niente20». 

La cultura della guerra non accetta l’Altro, se non in condizioni di inferiorità. Nella filosofia contemporanea il ricorso all’ Altro è abbastanza ricorrente21. Il Me vive in rapporto con l’Altro, e non c’è esclusione; diversamente si cade nell’egoismo, e l’egoismo genera l’odio, che è alla base di ogni dissidio e del terrorismo internazionale, il quale non ha niente a che vedere con quello nazionale, perché questo è relativamente facile da individuare e colpire, quello è un fantasma che accomuna nell’odio quanti di diverse nazionalità hanno visto invaso il loro Paese e distrutto; è un irriducibile fantasma che colpisce con la stessa crudeltà con cui altri hanno colpito e colpiscono; e in esso non c’è affatto nichilismo, a differenza di quanto ritiene André Glucksmann22: c’è senz’ altro la ferma volontà di servirsi di qualsiasi mezzo, anche il più nefasto e disumano, pur di vedere i propri Paesi di origine riscattati e resi liberi dall’ingerenza straniera. Cos’altro possono fare i tanti gruppi nazionalisti disseminati per il mondo per fermare il terrorismo degli Stati? Allora, anziché muovere una crociata contro l’ internazionalismo terroristico, non sarebbe più proficuo sradicare le cause? Non sarebbe un bene per tutti? Certo. Ma nessuno vuole la soluzione. La crociata al terrorismo alimenta la retorica della guerra, e i suoi responsabili hanno una ragione in più per spingere altri Paesi a mettersi dalla loro parte. 

Riprendendo quanto si affermava all’inizio, questo è il risultato di un uso improprio della politica, che guarda al particolare e non accetta l’Altro; è un diniego della politica che, innanzitutto, è dialogo che avvicina e non divide. Ma oggi non si dialoga; si sproloquia ed agisce solo dietro la spinta di denaro o di un utile. Oggi l’uomo ha perso l’uso della parola e non è capace di rapportarsi agli 

20 – Op. cit., pag. 17. 

21 – Tanti filosofi hanno rivolto la loro attenzione all’argomento che si rivela molto interessante e ricco di approcci. Cfr., tra gli altri, E. Lévinas, Difficile libertà (trad. it. di G. Penati), Brescia, La Scuola, 2000. 

22 – Il filosofo francese ha presentato la relazione «L’escalation di violenza da Hitler a Bin Laden» al Convegno “Ulisse o Titanic? Libertà e distruzione nella cultura contemporanea”, tenutosi a Palermo il 9 e il 10 ottobre 2004. La relazione è stata pubblicata sul “Giornale di Sicilia”. Glucksmann discorre a senso unico e, come tanti, non si pone il problema dell’Altro. 

23 – G. Monbiot, L’era del consenso (Manifesto per un nuovo ordine mondiale), trad. it. di E. Valdrè, Milano, Lonanesi, 2004.

altri. Eppure si dice portatore di pace, di giustizia, di democrazia, mentre calpesta le leggi elementari della democrazia, non cerca la giustizia, rinnega la pace. In cambio, è pronto ad ogni guerra per sete di dominio e di ricchezza. 

A questo punto, ci si chiede: cosa si può fare? È certo che non si può rimanere passivi; perciò, bisogna parlare di tutto questo per dar vita a movimenti di massa che, se non mandino a casa, condizionino perlomeno i governi. Fare opera di divulgazione significa appropriarsi la politica, comunicare con gli altri, parlare, scambiare idee, formulare proposte, che vuol dire allargare il consenso, creare le premesse per un cambiamento radicale, a favore di un nuovo ordine mondiale, come lo ha bene delineato Monbiot23, con cifre alla mano (e non è idealismo), in cui l’uomo possa essere se stesso e in condizioni adeguate ai suoi bisogni. Che vuol dire riprendersi l’umanità, riconoscersi tra pari ed essere nella pace, contro ogni forma di cieco egoismo e di spietata brutalità delle guerre dei nostri giorni. 

Salvatore Vecchio

Print Friendly, PDF & Email

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato.


*