Le Pagine ritrovate di Pirandello

Sono trascorsi ormai settantacinque anni dalla morte di Luigi Pirandello e sembrava ai compilatori dell’Opera omnia che tutto fosse stato già raccolto e pubblicato, e che tutto fosse stato detto sull’uomo e sull’autore; a sconfessare questa certezza è Piero Meli, ricercatore attento e scrupoloso che ha regalato ai lettori e agli studiosi un volume (P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia ed., 2010) denso di notizie e di novità editoriali. Il merito di Piero Meli è grande e dobbiamo essergli grati, perché con la nuova pubblicazione offre «scritti sconosciuti o dimenticati », come scrive nella nota introduttiva, mettendo in luce ancora di più la figura e l’opera dell’Agrigentino.

Il volume è bene strutturato e ricco – come dicevamo – di notizie e di novità che aprono il lettore alla conoscenza di giornali, riviste e personaggi, ed offre un ampio spaccato del mondo letterario e culturale tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Occorre leggerlo per rendercene conto e cogliere gli aspetti più salienti e nuovi; per questo, ci accingiamo a farlo con molta attenzione e tanta stima per lo studioso che, con questa sua fatica, dà a tutti l’opportunità di avvicinarsi meglio a Pirandello che non smette di far parlare di sé. Ed è a questo proposito che, dopo aver motivato il suo lavoro, Meli scrive:

«…non pare proprio che il caso Pirandello sia archiviato. Tutt’altro. C’è ancora molto da dire. E alcuni di questi scritti ne assicurano le premesse, aprendo altre questioni e ponendo interrogativi di natura metodologica, mai posti prima d’ora, sulla presunta lezione definitiva di alcune novelle pirandelliane ».

Ad apertura di libro, c’è una rivelatrice intervista-confessione rilasciata da Pirandello ad Eugenio Giovannetti che la pubblica nel 19281. Si precisa che ogni “pezzo” riportato è ampiamente introdotto e commentato dal ricercatore che chiarisce, confronta e annota aspetti che altrimenti al comune lettore potrebbero dire poco e invece aggiungono tessere molto importanti per la comprensione del mosaico Pirandello.

In quest’intervista Pirandello rivela il suo primo amore e parla di una fanciulla di nome Elvira non riportato dai suoi biografi. Ma è possibile? – si chiede Meli. – Si tratta di una bugia o di una verità detta «in un momento di sincerità»? Se lo chiede lo studioso, ce lo chiediamo anche noi. Eppure è Pirandello che lo dice, cosa che prima non aveva svelato a nessuno. Lo dice, magari, inventando, da artista qual era, o anche in vista della conclusione a cui voleva arrivare

Pirandello parla di nozze infantili di cui aveva già teorizzato Freud2, ma egli si riferisce ad un uso riportato da Marco Polo, e che era presso i Tartari, di sposare i loro fanciulli morti e, dopo aver ripreso il passo, alludendo e intravedendo in essi i crisantemi e i loro svariati colori, ne parla da poeta con voce sommessa ma chiara, come acqua di sorgiva.

«Hanno tutti un bel capo rotondo; taluni hanno riccioli tenerissimi, d’un color biondo croceo, altri fulvi e lievemente irsuti, altri candidissimi e morbidi come neve pur mò caduta. Ve n’ha una schiera che ha i capelli colore amaranto, indimenticabili: un’altra che ha sulle chiome lo splendore mesto dei giacinti. Tutti, del resto, nella loro smagliante bellezza, hanno un qualcosa di chiuso e di triste…»

Poi ricorda un sogno avuto da piccolo, ove amore e morte, impersonati da due crisantemi, vanno a braccetto, amandosi «sino a diventarne pazzi»:

«Ho sognato che due di questi fiori così composti nella loro malinconia, si amassero sino a diventare pazzi e ad accapigliarsi comicamente nella loro spasmodica passione. »

E conclude:

«Chi sa che il mio amore e la mia arte non sieno nati da quel primo sogno? Che tutta la mia arte non sia altro che un’orgia di crisantemi impazziti?3»

Effettivamente questa è una chiave di lettura della sua opera. Pirandello se lo chiede dubbioso, quasi nel timore di sbagliare, ma è nel vero, anche se nell’euforia della sua creatività si farà prendere la mano da un raziocinio che tende ad offuscare la sua parte migliore. C’è nei suoi scritti un tendere verso la vita e un accettarla che fanno a pugni con le contrarietà di ogni giorno, sicché la malinconia s’impossessa di lui e sembra non lasciargli scampo. L’umorismo, a cui ricorre, è un modo come un altro per superare questo stato di cose e vivere anche nella consapevolezza della “pena di vivere così”4.

Continuiamo la nostra lettura. Troviamo una scena di Vestire gli ignudi che, ancora inedita, Pirandello mandò, dietro invito e per la rivista “Le opere e i giorni”, all’amico Mario Maria Martini, a sua volta apparsa nel giugno del 1922, mentre l’intera commedia verrà pubblicata dai fratelli Bemporad nel 1923. Quest’anteprima di pubblicazione non era stata mai notata e, pur avendo la sua importanza, nessuno l’aveva mai citata.

La scena pubblicata sicuramente sarà di aiuto agli studiosi e ai filologi che vogliono rendersi meglio conto del modo di procedere di Pirandello per entrare nel vivo della sua arte. A un confronto sommario, nell’edizione fiorentina la scena subisce tante modifiche. Aggiunge o varia le didascalie, dà più cadenza al dialogo, ripete più volte certe parole, cambia anche la punteggiatura e ritocca qua e là il dialogo. Lo fa per rendere più esplicito il discorso, in funzione dialogica piuttosto che per ragioni stilistiche. Tutte queste sono modifiche non marginali, volte a dare maggiore resa e armonia al tutto per una buona riuscita della commedia. Scrive Meli:

«La scena […] presenta moltissime varianti anche dal punto di vista scenico, espressivo (punti esclamativi, puntini di sospensione, ecc.), didascalie comprese. Interessante dunque il confronto tra la stesura iniziale e quella finale. C’è da considerare tuttavia in questi casi che ritocchi e modifiche molto spesso obbediscono più a ragioni di resa scenica, insomma teatrali, che non a quelle artistico-espressive».

Sono affermazioni che condividiamo, in quanto colgono nel segno il drammaturgo che, coniugando vitaarte, doveva certamente sacrificare qualcosa per aderire il più possibile alla realtà e lo faceva con molta convinzione e coerenza.

Apparentemente divertente, ma dal punto di vista umano molto misera e triste, è la vicenda dell’accusa di plagio che Adelaide Bernardini-Capuana rivolse a Pirandello. Si tratta di una pagina di cronaca che per le persone che coinvolse acquistò importanza letteraria e risonanza nazionale, ed è strano che sia sfuggita ai biografi, sempre pronti a riportare persino le più insignificanti minuzie.

La vicenda prende lo spunto dalla prima rappresentazione di Vestire gli ignudi, avvenuta il 14 novembre del 1922 al Teatro Quirino di Roma per la Compagnia di Maria Melato. Una rappresentazione come tutte le altre, se non fosse stato per la Bernardini-Capuana che, in una lettera pubblicata sul “Giornale d’Italia” il 21 dello stesso mese, rivendicò al marito la paternità della trama! Pirandello non si scompose più di tanto e, in un’intervista fattagli da un giornalista di “Epoca” il 22 novembre, dirà che aveva utilizzato un fatto realmente accaduto a cui ogni artista può sempre accostarsi per farlo «una pura creazione della fantasia».

Pirandello si comportò da signore qual era, limitandosi a dire questo, e l’accusa ebbe la sua ricaduta sulla Bernardini, avendola messa in cattiva luce, visto che era stata proprio lei la protagonista di quel fatto di cronaca. In una lettera a Pietro Mastri del 15 febbraio 1903, così egli commentava la relazione tra Capuana e la Bernardini:«Ah, caro Pirro, che commediaccia buffa e atroce è questa vita nostra!5»

Non c’è alcuna malignità, ma l’amara constatazione che la vita riserva sempre brutti scherzi, buoni solo ad essere rappresentati e da cui è difficile spesso potere uscire.

Piero Meli documenta con una serie di scritti questa “Accusa di plagio”. Poi aggiunge: «Probabilmente il gesto della vedova era carico di velati risentimenti contro Pirandello, col quale i rapporti non dovevano essere buoni». A ragione, perché a leggere gli scritti riportati ci si rende conto di certi risvolti impensati e impensabili per chi non è addentro a certe situazioni. Per questo, l’invito alla lettura è d’obbligo.

Interessanti sono le notizie fuori mano che il libro fornisce e riguardano scrittori che qui rivivono e periodici introvabili, persino nelle biblioteche. È il caso di Giuseppe Federico-Pipitone (1860-1940), scrittore palermitano dai multiformi interessi, fondatore de “Il Momento” e, nel 1889, della “Rassegna Siciliana di Storia, Letteratura e Arte”, in cui sono presenti due recensioni e un componimento poetico di Pirandello che, pur lavorando a Roma, non perse mai di vista la sua Isola e non interruppe i contatti con la sua gente. Questi contatti e le riviste servivano a Pirandello per anticipare ai lettori le sue opere e per pubblicizzarle, come risulta nei fascicoli di questa rivista e nelle altre citate.

Le recensioni riguardano un libro di Andrea Maurici, Note critiche, ed una raccolta di versi (Canti e prose ritmiche) di Eugenio Colosi. Entrambe le pubblicazioni danno a Pirandello lo spunto per affrontare temi letterari di attualità in quello scorcio di fine secolo. Lo annota bene Meli, quando scrive che il libro di Colosi «dà spunto, da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi dà pretesto per un’ironica e personalissima divagazione sulla prosa ritmica… Una ragione in più per ripubblicarla6». Ne risulta un Pirandello molto informato che seguiva da vicino le novità librarie e la letteratura nei suoi sviluppi, non solo quella italiana ottocentesca e contemporanea, ma anche quella straniera, soprattutto tedesca.

Pirandello trova utili gli spunti offerti da Maurici con i suoi saggi e dimostra di conoscere le ricerche che allora stavano destando interesse e curiosità presso gli addetti ai lavori. Non a caso ricorda l’opera, allora molto letta, sui primi sviluppi della poesia siciliana di Adolfo Gaspary (La scuola poetica siciliana del secolo XIII del 1882) che coinvolse nel dibattito autorevoli studiosi siciliani, come Francesco Paolo Perez, Giovanni Di Giovanni e Salvo di Pietragarzili, con il risultato di aver dato un’impronta decisiva alla conoscenza e all’influenza di quella scuola sulla futura poesia italiana.

Ritornando alla recensione dedicata al libro di Colosi, Pirandello non si sofferma tanto sul contenuto e su quella poesia (si limita a citare qualche titolo, ma non va oltre), piuttosto s’allinea con quanti sono contrari ad estendere alla prosa l’appellativo di poesia, anche se ritmata e condita qua e là di orpelli che le danno sembianze poetiche. Egli guarda al passato con l’occhio del moderno e lo accetta, ricordando i classici (specialmente Leopardi e Baudelaire) che in questo furono maestri, non condivide l’opinione di Walt Whitman e rifiuta ogni forma di raffazzonamento e di improvvisazione.

Il componimento riportato nella “Rassegna” è “La pioggia benefica”, di cui Piero Meli pubblica anche la versione che si legge in Mal giocondo (Palermo, 1889) che presenta differenze, a partire dall’inizio, e un cambiamento di gusto da parte del poeta. Stupisce, perciò, il fatto che questa redazione non sia stata riportata nel volume di Lo Vecchio-Musti, Saggi, poesie e scritti varii (1993). È da pensare che il componimento non sia stato letto, e questo spiega la ragione per cui è stato solo citato. Se così è, non è certo una bella cosa, perché le varianti dicono molto. Senza volerci dilungare, esse registrano molti ritocchi grafici che rompono col vecchio modo di scrivere, una punteggiatura più attenta e un verso sicuro, reso più armonico per una maggiore attenzione al ritmo interno. Si leggano, ad esempio, questi versi della terza stanza (il testo del volume è tutto un unicum e non ha capoversi)7:

…È buio ancora. Nera, sotto la grave ombra, e indecisa però l’immensa e fertile pianura si rappresenta al guardo. A grado a grado cresce il chiaror de l’alba e lentamente già le cose cominciano de l’ombra a esprimersi: là i monti alti, lontani; qua li arbor più superbi …

e si confrontino con quelli che leggiamo in Mal giocondo:

…È bujo ancora. Nero, sotto la fresca ombra, e indeciso però già il pian si rappresenta al guardo. Cresce il chiaror de l’alba, e lentamente cominciano ad imbeversi di lui le cose: ecco, tra rosei vapori, là i monti, quasi monstri in sonno accolti, qua gli alberi più grandi. …

Rispetto a questi versi, quelli riportati in rivista presentano alcune varianti radicali e altri interventi, piccole cesellature che imprimono una maggiore resa concettuale e poetica. Si noti come scorrono bene i versi « già le cose cominciano de l’ombra / a esprimersi: là i monti alti, lontani», e come dal punto di vista fonico arrivano ingentiliti all’orecchio; poi, quell’«imbeversi di lui» stona nell’insieme! Ma rimandiamo alla lettura e al confronto dei testi, perché il lettore possa rendersene conto e valutare, senza lasciarsi sfuggire l’attacco iniziale che sembra riportarci a quelli della poesia bucolica dei nostri antichi poeti.

La rivista a cui Pirandello collaborò più assiduamente in questo periodo è “Roma letteraria”8, a cominciare dal 1893 fino al 1900. È un Pirandello molto attivo e culturalmente impegnato: segue le novità librarie (poesia, critica, narrativa), scrive poesie e le pubblica insieme con le novelle che subiscono sempre varianti e ritocchi. È un Pirandello che ancora, seppure affermato come scrittore e poeta, cerca una via sua fino a quando non la troverà definitivamente nel teatro. Scrive saggi e recensioni, alcuni più riusciti, altri meno, su autori affermati e non (Chiarini, Tommaseo, Flamini, Mantica, Boner). A proposito della recensione del libro di Giuseppe Chiarini, leggiamo:

«A ben vedere, più che “importante”, l’articolo- recensione del Pirandello è assai modesto. Non più di un mero riassunto del libro del Chiarini, intercalato qua e là da qualche nota personale. […] Di tanto in tanto poi, per risollevare il tono piatto dello scritto, ricorre a fumogeni di marca tedesca. […] Nient’altro. Bruttissima poi quanto inopportuna la chiusa dell’articolo; da principiante; segno evidente d’insoddisfazione dell’autore stesso per il suo scritto.9»

Lo studioso non limita la sua azione alla sola scoperta, ma la valuta e s’esprime con competenza, offrendo il tutto agli altri, quasi ad invogliarli a fare lo stesso. Per questo, appronta un elenco degli scritti di Pirandello apparsi in questa rivista, ad uso e consumo degli studiosi, e ripubblica un racconto, rimasto sconosciuto, e due recensioni, quella su Mantica e l’altra su Boner. È evidente che la scelta è limitata per ragioni di spazio, ma è lo stesso interessante oltre che indovinata.

Il racconto, dedicato al Natale, fu scoperto da Meli e pubblicato su “La Sicilia” del 19 dicembre 2000. Trascriviamo questa notizia del ritrovamento, riportata nel libro, perché altri, appena un anno dopo, se ne appropriarono indebitamente10, senza rendere merito a chi queste ricerche porta avanti da decenni con tanta passione e dedizione.

“Natale al polo” è il titolo del racconto, pubblicato nel dicembre del 1897. Nella sua brevità, è una riuscita prova di scrittura, dove Pirandello, al racconto vero e proprio abbina annotazioni di viaggio dei vari esploratori e affianca considerazioni che già fanno intravedere la pensosità e la profondità di sentire del futuro scrittore.

È un racconto di una delicata malinconia che accomuna quanti vivono il giorno del Santo Natale lontano dalla propria casa e dai parenti più cari con cui si è, di solito, insieme. È il sentimento che predomina nello scritto, anzi aleggia e s’impossessa dello stesso scrittore che, come gli esploratori polari, si sente sradicato da tutto perché gli manca la sua Sicilia, sempre ricordata e portata nel cuore, quella delle zampogne che con il loro suono invadono i paesi. Leggiamo:

«Se nel cuore vostro ha nido il sentimento di questa notte di Natale, così tenero nell’arcana sua malinconia; se la vostra anima sa levarsi su candide ali a intenderne la dolce e universal poesia […], udite: c’è una nave lassù, che sembra un bianco enorme fantasma con le braccia protese verso l’immensa cupola del firmamento, ch’avvolge silenziosamente il grande e squallido deserto di  ghiaccio, in mezzo a cui la nave è rimasta prigioniera. Guizzano per lo spazio, come spiriti inquieti, le stelle cadenti, mentre dalle cupe dentellature fantastiche degli ammassi di ghiaccio all’orizzonte emergon vividi gli astri nel giro dell’interminabile notte polare. 11»

Lo scrittore immagina, e con la fantasia va tra i ghiacciai del Polo. Qui uomini impossibilitati ad agire innalzano canti natalizi, i più noti, e li fanno risuonare per l’aria, glorificando il Natale. Lo scrittore è con loro e, nella dolce semplicità del canto di Joseph Mohr (“Silente notte, Santa notte…), eleva una preghiera, perché davvero «la chiusa è una preghiera. Anzi. Una diretta invocazione a Gesù. Magia del Natale, in un personaggio in cerca di autore.12»

Ritornando alle recensioni ripubblicate, la prima riguarda Edoardo Giacomo Boner (1864-1908), messinese, l’altra Giuseppe Mantica, reggino, entrambi poeti e scrittori, di cui Meli fornisce notizie biobibliografiche molto utili per conoscerli e apprezzarli.

Pirandello aveva molta stima dei due e scrive senza forzature queste recensioni (a differenza di altre – come quella per Adelaide Bernardini o per lo stesso Eugenio Colosi -) nelle quali palesa tutto il suo compiacimento, perché quei libri parlano al cuore, aprendo ai sentimenti, e si fanno leggere per l’arte dei loro autori.

Di Musa crociata di Boner Pirandello apprezza lo slancio poetico e sociale, la sincerità dell’ispirazione e la bontà d’animo che spingono il poeta messinese non solo a schierarsi dalla parte dei rivoltosi Candiotti, ma anche a lanciare una “crociata” poetica a loro favore e, novello Pietro l’Eremita, a battersi per dare realtà al loro sogno. Come tanti altri, Pirandello risponde all’invito («Guidami, o poeta, io son con te!»), volendo così riconoscere la nobiltà di gesto e l’afflato lirico di quella poesia, come tiene a precisare lo stesso Meli:

«Un modo come un altro per esprimere parole misurate e levigate, quanto emozioni indicibili e incancellabili che, alla lettura dei versi, tornano insieme con “la voce calda e piena d’anima” del poeta peloritano.13»

E Pirandello, senza spendere tante parole, rimanda ai versi, riportando tre sonetti, perché il lettore possa verificare da sé la solidarietà, la liberalità e l’idealità che ne sono alla base e gustarne il fascino. Le parole dicono poco dinanzi ad una poesia che direttamente parla al cuore e sprigiona sentimenti da vivere piuttosto che da dire.

La recensione dedicata al libro di Mantica: A me i bimbi! è un riconoscimento che con animo sincero Pirandello tributa all’amico poeta, capace di esprimere nei suoi versi, anche con fine umorismo, ciò che ha dentro e di rivolgersi, cosa non facile, ai bimbi. Pirandello legge uno per uno i dieci componimenti che costituiscono il libro e si sofferma su di essi, evidenziando di volta in volta come l’autore sappia sdoppiarsi per parlare, in modo comprensibile e piano, con lo stesso linguaggio dei piccoli e calarsi in essi, senza stancarli e annoiarli. Ad un certo punto chiama ancora in causa il lettore, perché possa gustare il bello di questa poesia che, seppure rivolta ai bambini, ha sempre qualcosa da dire, anzi, usando lo stesso verso del poeta, «qualcosa da imparar sempre ci scappa».

Amico di Mantica, Pirandello non eccede in lodi esagerate (allo stesso modo tratta Boner), e si mantiene nel solco del libro, anzi auspica sia letto per avere la conferma a quanto ha afermato. Eppure un occhio di riguardo per l’amico ce l’ha, a chiusura, quando, nel sollecitarlo a pubblicare, porta a conoscenza del lettore il libro in preparazione Rime gaje, «attese con viva impazienza da quanti amano la buona poesia». Un modo fine e garbato per dirgli la sua stima e l’amicizia.

Pagine ritrovate conclude con tre novelle pubblicate in “Grandi firme” e con “Minime. Segnalazioni bibliografiche”. Le ultime sono vere e proprie “segnalazioni” ed hanno importanza per gli spunti e le notizie che biografi e bibliografi possono trovare utili, ma le tre novelle (“Idee funebri e gaie di Luigi Pirandello. I pensionati della memoria”, apparsa nel fascicolo 9 del 1° novembre 1924, “Come gemelle”, nel fascicolo 16 del 16 febbraio 1925, e “Zuccarello, distinto melodista”, apparso nel numero 39 del 1° febbraio 1926) sono motivo di studio, perché offrono una redazione diversa da quella riportata nei Meridiani Mondadori.

Piero Meli, riproponendo queste novelle, offre date e notizie, frutto meticoloso di assidua ricerca, e dà lo spunto a studiosi e filologi per un serio studio che possa portarli ad una maggiore conoscenza del modo di procedere di Pirandello e della sua arte, e a stabilire quali effettivamente siano le ultime redazioni, al fine di potere approntare una riedizione di quella collana, stavolta definitiva e fedele al volere dell’Autore. Ad un sommario confronto di queste novelle con quelle riportate nell’edizione mondadoriana, sono evidenti le tante varianti di cui parla Meli e tante sono le considerazioni e conclusioni a cui perviene, quasi ad aprire un tavolo di lavoro e di confronto con gli studiosi. Ma avverte che è:

«Un lavoro non facile, perché a nostro avviso Pirandello non sempre operava correzioni, modifiche e ritocchi avendo ben presenti tutte quante le precedenti redazioni d’una sua novella; basti pensare che la revisione di Zuccarello, distinto melodista per “Le grandi firme” la farà in treno nel dicembre del 192514.»

Rimandiamo queste Pagine ritrovate al lettore che di certo apprezzerà il lavoro certosino del Nostro, la padronanza delle conoscenze, la puntualità delle informazioni, l’esposizione chiara e sicura, e lo ringrazierà per avergli dato l’opportunità di conoscere aspetti nuovi dell’uomo e artista Pirandello. Ed è quanto di meglio uno studioso possa ricevere.

Salvatore Vecchio

Note

1 E. Giovannetti, Quand’amai la prima volta. Confessioni dei più illustri contemporanei, Milano, Treves, 1928;
2 Pirandello cita Freud perché è Giovannetti a riferirlo; il Nostro conobbe indirettamente, tramite la lettura di A.Binet e altre sue frequentazioni, gli studi sulla psicanalisi, ma ne fu vicino per il lavoro di introspezione che faceva in tutta la sua opera.
3 P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, cit., pagg., 14-15.
4 Si veda S. Vecchio, Pirandello, Saggi sul teatro, Roma, Eiles, 2010.
5 P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, cit., pag. 43.
6 Ivi, pag. 64.
7 Ivi, pagg., 73-74.
8 Fondata e diretta da Vincenzo Boccafurni nel 1893, si pubblicò fino al 1922. Boccafurni fu un intellettuale e poeta, molto vicino al Pascoli e a tanti scrittori del suo tempo.
9 P. Meli, Luigi Pirandello. Pagine ritrovate, cit., pag. 79.
10 Ivi, pag. 93.
11 Ivi, pag. 115.
10 Ivi, nota pag. 86.
11 Ivi, pag. 87.
12 Ivi, pag. 86. 
13 Ivi, pag. 93.
14 Ivi, pag. 115.

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 23-29.

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