Un amore che si trasfigura 

A. Gamboni Mercenaro, Poesie d’amore e altre, Poggibonsi, Lalli 1989 

“Ho scritto questi versi con una penna-scandaglio riproponendo il tema antico e sempre magico dell’amore”, È questa la frase che apre l’autoprefazione alla raccolta di liriche di Antonio Gamboni Mercenaro. Una frase che, a primo acchito, potrebbe suonare come una disarmata e disarmante banalizzazione dell’eterno tema sentimentale, indagato ancora una volta, con lo scandaglio del rabdomante alla ricerca di un amore totale che non troverà. 

Ma in una poesia di intonazione eccezionalmente leggera, qual è quella di questa silloge, ove oggetti percepiti come frammenti della realtà dispongono ad una specie di idillio vissuto, aleggia un pathos lirico pregno di sensuale tenerezza: «La tua bocca una scialuppa di baci/ … / I tuoi seni due gole di tortora» “(Dormivi, pag. 27). Una tenerezza che illegiadrisce una passione ardente e fuga una malinconia che è fin troppo naturale in un uomo che sente riaccendersi d’amore per “tutte le donne che con il loro affetto hanno dato veste ai [suoi] sentimenti” (Dedica). 

Ed è proprio la contemplazione amorosa, evocata in Le tue dita di vento (pag. 24), ripresa in Sei bella quando ridi (pag. 33) e pur non chiusa in L’ultima volta (pag. 38), che porta il poeta verso simboli e verso metafore che sublimano. in un’unica, superiore sfera gnoseologica, la storia personale e la storia dell’umanità, sola e sofferente, che ha, come il poeta «[…] cuore di spugna seccai e labbra sterili di risa» (Nessuno, pag. 62). 

E benché Gamboni Mercenaro nei suoi riferimenti culturali non sia sempre prevedibile, anche perché montalianamente gli basta poco per ricavarne sostanza di poesia da letture più o meno recenti, non è difficile rilevare un suo debito al platonismo rinascimentale. Un platonismo “mediato” tra Gismondo e Perrottino che ricrea l’immagine di un cuore «vaso/ nel mio petto/ con un pesciolino rosso / Il mio cuore/ sei tu!» (Sei tu, pag. 46), ma che non rifiuta, anzi accoglie di Lavinello l’idea che «il silenzio è la preghiera udibile/ dell’anima che cerca Dio» (Il silenzio, pag. 71). 

Un amore, dunque, a tutto tondo, “nel senso più vasto”, sentito, anzi avvertito come una promessa di liberazione dell’umanità: un amore che si trasfigura per adattarsi ad una esperienza autobiografica, e nel contempo si significa e si alimenta della nota melanconica e solitaria. Proprio con “solitudine” e “notte” si apre la silloge: «La notte è solitudine densa»: «La notte è luna mussulmana»: «La notte è quercia dura» (Luna mussulmana, pag.11): per perpetuare questa”preziosa” melopea con le tre lettere ad una donna dove dai dadi truccati dentro «l’urna della solitudine», si passa all’eco di una rata scaduta, per concludersi nello slontanamento di uno «scoglio franato dal dirupo» che pur non cede alle insidie del mare ostile della vita. 

Per concludere queste brevi note non ci resta che rilevare le non poche reminiscenze da lettore colto che sono sparse per tutta la raccolta: essa non è corposa, dimostra tuttavia non poca familiarità con la lirica neosperimentalistica 

dell’ultimo Novecento: e non è azzardato dire che qui si tenta l’apertura di un frammentismo di maniera che, nel toccare le varie corde dell’amore, testimonia di una fine sensibilità “pudicamente” manifestata con navigato mestiere. 

Vito Titone

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 58-59

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