Specchio dell’animo

Eugenio Bruno, calabrese di nascita e romano di adozione, da qualche anno opera in Sicilia, avendo qui ritrovato la disposizione alla pittura già da tempo accantonata. Attualmente lavora per l’allestimento di una personale che avrà luogo a Madrid nel settembre del ’95, ma al suo attivo ha tantissime altre mostre in Italia e all’estero. 

Quello che incuriosisce di questo pittore è il suo silenzio, la sua riservatezza, lo starsene quasi in disparte, a differenza di altri che espongono ad ogni fatta di luna. 

Ogni artista vero è segnato nel suo profondo da stati d’animo e da situazioni personalissime, e solo a sprazzi, quasi ad intermittenza rallentata, sprigiona prepotente ciò che si porta dentro, rtgenerandolo e facendolo vivere di luce propria, vera, come lo è in casi del genere l’arte. Eugenio Bruno è uno di questi, e più che essere ascoltato, ha forte l’esigenza di ascoltare, di capire il suo travaglio, che è, poi, identico a quello degli altri. 

Potrebbe essere questa una delle motivazioni che diamo al suo riserbo, ma non è certo esaustiva. Per questo abbiamo chiesto a Bruno quale altro motivo stia alla base di questa indifferenza che lo spinge ad isolarsi dal contesto produttivo pittorico di questi ultimi anni. 

«Senza dubbio, è vero quanto dice – risponde l’artista -, e lo confermo appieno; ma il motivo profondo, per cui sembro e sono discostante, è la mercificazione che il più delle volte si fa dell’arte. La vera pittura deve innanzitutto rispondere alle esigenze dell’animo, piuttosto che a quelle del corpo. Come può notare, c’è un abisso tra l’arte come esclusivo profitto e quella come la intendo io». 

Questa dichiarazione è molto utile a chi vuole inoltrarsi nel mondo pittorico di quest’uomo che, a spese sue, sa andare contro corrente, a favore, però, di un’arte che è tutta luce ed è, di riflesso, lo specchio di un animo terso, come tale ci appare l’acqua degli abissi marini o quella, più direttamente toccata dai raggi solari, che è in superficie, oggetto in entrambi i casi di tanti suoi quadri. Si vedano, ad esempio, Gli abissi o Paesaggio, con le diverse gradazioni di luce che danno la somma di tanti colori intensi e vivi, di una luminosità sorprendente, che s’accompagnano alle pennellate ora larghe ora smorzate, in ogni caso, sempre sicure e pronte a cogliere nel segno il bisogno di dire e di comunicare che è nell’artista.. 

Nella pittura di Eugenio Bruno l’esplosione della luce dà la tonalità ai colori che riflettono un paesaggio per tantissimi aspetti surreale. E l’ascendenza surrealista non manca certo in questo pittore, proteso, com’è, verso l’onirico, il diverso, appunto, per cogliere in modo nuovo l’essenza della vita che è nella luce che si dilata e dilata le cose e l’uomo. Per meglio cogliere questo aspetto, che è l’essenza primaria della pittura di Eugenio Bruno, si potrebbe tenere come preciso riferimento Arborescenze, in cui i colori, dilatandosi, sembrano formare un “unicum”, simbolo di uno stato di cristallina purezza, a cui l’artista tende, volendo in esso rispecchiarsi e ad esso richiamare gli altri che questa purezza hanno (ohimè, per sempre?) perso di mira. In questa prospettiva si colloca la splendida tela dedicata a Don Chisciotte. Bruno, con la sua pittura, come il personaggio di Cervantes, in un contrasto di luce, dai colori forti, esprime la condizione dell’uomo di oggi proteso tra la realtà e il sogno, tra la quotidianità e l’evasione. 

L’artista è travagliato da questo dualismo, per cui è spinto da un’esigenza di ricerca che va al di là dell’aspetto estetico, intento, com’è, a scoprire l’essenza della vita e delle cose. Quello che lo interessa è la zona buia del profondo, l’estrazione di quell’io che fa difficoltà ad emergere proprio perché troppo l’uomo è preso dalla materialità e dai rumori. Sicché, se in un primo momento, Bruno si era dato al paesaggio e al fIgurativo, via via è venuto a sviluppare un’arte tutta propria che, pur awicinandolo alle varie esperienze del Novecento italiano ed europeo (De Chirico, Picasso, Kandinsky, Marc), trova la sua ascendenza nel surrealismo, che così recita, servendoci di una frase di De Chirico, a sua volta mutuata da Bréton: «L’opera d’arte deve abbandonare del tutto i limiti dell’umano, deve rinunciare completamente al buon senso e alla logica». 

Le esigenze dello spirito sono quelle che maggiormente contano nella pittura del Nostro. Così si spiega il suo scandagliare delle profondità marine o certi suoi lavori che chiamerei “aerei”, per quel suo giuoco di luci e di ombre che sa di sacche di nubi e di chiaro intenso, facile a vedersi volando. E si spiega così la luminosità che fa da padrona in ogni suo quadro, sia che si tratti di visioni oniriche o che oggetto della sua attenzione sia il mare o il cielo, perché alla base della sua creatività artistica c’è l’aspirazione alla purezza. Di qui anche il contrasto, su cui abbiamo insistito (luci e ombre, lineare e non lineare), che è caratteristico di quest’arte. 

Le stesse sculture, che si rifanno alla millenaria civiltà di Sicilia (in particolare i sei pannelli in cemento che ripercorrono la storia di Marsala dai Fenici ai giorni nostri), riprendono questi motivi che tendono alla ricerca di una forma che bene non si configura. Come nella tela Resurrezione, o in quella ispirata alla Famiglia, opere ben riuscite sia per la fattura, che sa di una delicata stilizzazione degli elementi, sia per i colori, dove perviene (la luce del Cristo resuscitato che squarcia la tenebre attorno; nell’altra, il senso dell’unione, proprio della famiglia, che s’amalgama con l’unicità-molteplicità del creato) ad una simbiosi di realtà e di sogno. 

L’informale che c’è nella pittura di quest’artista si origina dall’insoddisfazione che è in lui, dal bisogno di ricercare una forma che, magari andando al di là della realtà, sia capace di comunicare con sé e con gli altri. Si veda, per esempio, la tela Sicilia, oppure l’altra, La notte. Nella prima, il contrasto prodotto dalla luce (contrasto che caratterizza l’Isola e i Siciliani) o, meglio, la dilatazione propria della luce proietta cladodi di ficodindia somiglianti a ombre umane, mentre nella Notte, che è sinonimo di buio, e anche di paura, i volti stralunati, toccandosi, fanno pensare a una boscaglia, dove i colori, facendosi breccia, urtano (il rosso e il nero sono di predominio) ed esplodono una luce che meraviglia e suscita stupore. Partendo da una realtà, quindi (la Sicilia, per quello che essa è, e la notte che, di per sé, dovrebbe essere un momento di riposo), l’artista va al di là del visibile per immergersi in un’atmosfera insolita, ma pur sempre radiosa e avvincente. E questo viaggio che lo coinvolge ci rende partecipi e ci avvince. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg.41-43.

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