Considerazioni isagogiche su Elegia per me stesso di Rodolfo Vettorello

       Chi in punta di piedi entra nella poesia di Rodolfo Vettorello si trova davanti un diagramma spaziale-evolutivo, che apre il lettore a una nuova dimensione antropometrica, derivata, in gran parte, dal perenne assioma ontologico, presente in maniera dominante nell’alveo della riflessione tanatologica, nata dalla sempre presente, e ossessiva, lezione eraclitea. Questa idea già presente, e ampiamente trattata da Leopardi e acutamente sviluppata da Foscolo nel suo capolavoro lirico-poetico, trova degno e felice epilogo in quest’opera di Vettorello, con la quale, in un avvenire non troppo remoto, dovranno cimentarsi intelletti di ben altra levatura, per compiti ben diversi. 

      Se Foscolo nel carme Sui sepolcri dal continuo fluire del tempo e degli elementi aveva tratto spunti di intenso lirismo, che si possono riassumere in questa manciatina di versi:

e una forza operosa le affatica

di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe

e l’estreme sembianze e le reliquie

della terra e del ciel traveste il tempo,

nei quali serpeggia latente, ma terribilmente evidente col suo spettrale potere Thanatos, nella silloge vettorelliana la morte è presente in quasi tutte le liriche e convoglia l’animo e la riflessione dell’attento lettore verso orizzonti pregni di infausti, ma reali presagi. Nel raffinato componimento poetico l’autore non soggiace al trito e stucchevole sentire comune, ma da considerazioni meramente riduttive come aquila si eleva, per spaziare dalla cristallina purezza dell’infinito su quella forza operosa, cui soggiace in modo ineluttabile l’uomo col suo destino.   

      Su una tomba nella chiesa di S. Francesco, a Fondi, anni addietro ho letto con molta attenzione un epigramma, che ha lasciato una traccia indelebile nel mio animo:

        Tendimus huc omnes: metam properamus ad unam;   omnia sub leges mors vocat atra suas.

      Che si può rendere: «Tendiamo tutti verso questo luogo: andiamo in fretta verso un’unica mèta; la tenebrosa morte raduna tutti i viventi sotto le sue leggi». È, questo, il monito, che con cruda verità la Natura rivolge all’uomo: all’ignoto autore non sfuggiva il potere tanatocentrico comunemente concepito. 

      Dopo la lettura della significativa silloge, che invita a riflettere su una realtà sempre presente, l’uomo sembra ebbro del nettare degli dei omerici con aggiunta di nepente; e molti, impressionati dalla lirica compostezza e dal messaggio, veicolato dal vigoroso afflato poetico, se ne stanno tristi, cupi, preoccupati, come se fossero stati condotti via con la orza dall’antro di Trofonio. Gli stretti vincigli della Natura, infatti, angustiano il loro animo traballante, spaventato, incerto per la cupa prospettiva del futuro non adeguatamente preparato dal presente, che, come insegna Seneca, scorre incerto tra mille occupazioni, per lo più inutili, perché nessuno è veramente padrone di sé e del suo tempo. 

      Immerso nel turbinio di mille faccende, continua l’antico filosofo, nessuno dà giusto valore a tempo e alla sua giornata, e non si rende conto come egli muoia giorno dopo giorno. L’uomo, come ripete Vettorello, che certamente ha assimilato il dettato senecano, vive nella continua illusione che la morte sia un evento destinato a un futuro lontano, quando è sotto il suo sguardo, e gran parte di essa è già alle sue spalle. Tutto il passato è in potere della morte. Ma Vettorello rende attuale l’antico insegnamento, quando nella lirica La rimpatriata scrive:

Il tempo che è passato da quei giorni

che si giocava insieme nei cortili

ha lavorato su di noi con cura

per farci diventare quel che siamo …

La vita si costruisce e demolisce

                       le cose e le persone a suo piacere. 

       Nell’aria rarefatta del puro lirismo, che si infutura in un archetipo spesso sfuggente ed evanescente, il poeta riporta il lettore alla realtà del presente, che si potrebbe individuare, rovesciando in modo adeguato i rapporti, nel carpe diem oraziano. È proprio questo tema di fondo che inciprignisce e costringe il lettore a rugghiare per contrarietà, per lo più mal gestite. 

      Significativo, quindi, è il titolo Elegia per me solo, che Rodolfo Vettorello ha voluto dare alla pregevole silloge. Il critico, per lo più, concentra l’attenzione sul primo lessema elegia e cerca di trovare agganci e riferimenti con la poesia fiorita in Grecia e il Roma. Sotto questo aspetto, degna di nota è la dotta e ben documentata Prefazione, vergata da Santo Gros-Pietro, che va, necessariamente, tenuta presente per la profonda dottrina e lo stile impeccabile; può bastare a sollecitare il lettore per un primo approccio, per contestualizzare un genere letterario, che nella tradizione letteraria ha trovato geniali esponenti e visioni diverse, pur nell’inveterato solco della tradizione. 

       Per Vettorello l’elegia non è flebilis, secondo la felice intuizione di Ovidio, perché non effonde lacrime di dolore per l’abbandono della donna amata o per un amore non corrisposto. Il poeta svuota il lessema  dall’interno e lo riporta a origini e luoghi più remoti nel tempo e nello spazio, da dove è partita, per giungere prima in Grecia e, successivamente, a Roma. In questo senso, almeno esteriormente, si potrebbe accostare a Callimaco, ma il discorso condurrebbe molto lontano e metterebbe in ombra lo sforzo e l’originalità del poeta, il quale si riallaccia direttamente al genere della lamentazione, presente in tutte le letterature orientali, come quella, più documentata, ugaritica ed ebraica. 

       Tralasciando disquisizioni storico-letterarie, si richiama l’attenzione del lettore sulla natura antropologicamente dialettica della poesia vettorelliana, che già nella lirica incipitaria, Le infinite agonie, traccia l’iter del percorso poetico, nel quale pone in piena evidenza la sua polarità perfettamente speculare rispetto ad altre raccolte, pur pregevoli. Il carme, sapientemente intessuto con accorta e ben studiata disposizione metrica, nella quale sintagmi e lessemi formano figure indelebili e sfumano nel non troppo velato lamento sulla fuga del tempo e della vita; condensa in un’amara sequenza di versi il già riportato sintagma foscoliano:

Agonie della vita;

un giorno dopo l’altro si consuma

una nuova agonia,

una infinità

di anelli una catena disumana.

La morte ci umilia e ci devasta

annulla ciò che siamo e le memorie

di un velo di silenzio le ricopre.  

      Il poeta non a caso apre la lirica, e con essa la silloge, con un sintagma estremamente significativo, l’agonia, gli attimi che precedono il trapasso e avviano in modo irrimediabile alla fine della vita terrena. Già da questo primo accenno, cui bisogna necessariamente sottendere un velato pessimismo di derivazione leopardiana, nella tanatocrazia vettorelliana, come nel suo referente immediato, è del tutto assente quanto ha caratterizzato e plasmato la cultura italiana ed europea negli ultimi due millenni: la speranza e la credenza nella vita oltremondana. Questo concetto, molto dibattuto sotto l’aspetto sia filosofico che teologico negli ultimi due secoli, anche se non è mai accennato in modo esplicito, di tanto in tanto emerge e rivela, seppur velata, l’intima aspirazione di un ego, che si dipana nei rivoli dell’umana sofferenza e cerca una pur terrena immortalità. Per cui molta attenzione richiede l’anaptitico emistichio e le memorie, che, in un intenso endecasillabo fratto, rivela l’intima sofferenza, causata, come dirà qualche verso dopo, dal  

sottile malessere gentile

ch’è malattia del vivere, assassina. 

       In questo distico, preceduto da acute riflessioni sullo svolgimento quotidiano della vita, si avverte in modo palese l’ormai noto, e abusato, sintagma montaliano, che tanta fortuna ha incontrato presso ingegni, che potrebbero starsene tranquilli nella fresca grotta di Trofonio e mettere da parte il nepente.

       Come per Montale, anche per Vettorello il percorso della vita è piuttosto accidentato, per la continua presenza di dolori, di sofferenze, di imprevisti. Tra gli altri, la vera poesia si assume il compito di analizzare e portare a conoscenza di tutti la sofferenza, che travaglia l’animo dell’uomo, nella segreta speranza che trovi la possibilità di porvi rimedio. Ma questo, di solito, non avviene, perché non esiste una ricetta o una formula, che, per mezzo del linguaggio poetico, di solito scarno ed essenziale, possa risolvere il dolore o la conseguente crisi esistenziale.

        Per esprimere questo male e per portarlo alla conoscenza del lettore trofoniano, Vettorello si serve dell’anafora, della climax per lo più ascendente, della metafora, dell’anastrofe e dell’allitterazione. Nel calcolato gioco di luce e ombra, negli sfumati chiaroscuri, nelle fuggevoli reticenze, in modo non diverso da Montale, Vettorello con visione  e intento innovativo propone la sua elegia sull’essere contemporaneo, che sfida l’ardua scalata della vita, con la certezza che la sua fine è imminente, perché la morte gli è accanto e cammina con lui. 

        Più difficile, almeno per chi non è aduso a leggere la poesia, è cogliere l’io lirico, introiettarlo e assumerlo come oggetto di riflessione, di meditazione, di miglioramento: è un efficace antidoto contro la sofferenza, che in modo più o meno palese striscia tra le pieghe della psiche umana. Solo in questo modo l’oscura e incombente tanatocrazia perde il suo mordente e sfuma come nebbia del mattino nell’alba luminosa della propria coscienza di essere esistente, parlante, cogitante. La fiducia in sostituisce la fede in Dio e Dio stesso, come nella medesima lirica incipitaria il poeta, non senza rancore e delusione, dice con orgoglio: 

Dio se mi ascolti 

lascia che ti dica

che ti respingo.

voglio che mi basti

la mia coscienza libera e nient’altro.

      Il poeta, con determinata decisione, rivendica la propria libertà di coscienza, cui si accompagna, come corollario necessario, la libertà di pensiero e di religione. In linea con  le più recenti disposizioni a riguardo, stabilite da autorità internazionali e adottate, in linea di massima, da un nutrito gruppo di nazioni, Vettorello si inserisce in quest’alveo, per determinati aspetti, ancora vergine e si rende interprete di un messaggio, che travalica i confini personali e internazionali, e diviene, nella pletora ciangottante di buffi e coprolitici verbigeratori il corifeo dell’eguaglianza tra gli uomini, perché la morte è, per se stessa e per ciò che rappresenta, l’uguaglianza personificata. Alle ingiustizie della vita, prima o poi, rimedia la morte, che non guarda in faccia a nessuno, non per vendetta, ma per la sua disposizione naturale. Blaise Pascal, infatti, nel dotto e istruttivo volume, Pensieri, nei riguardi della morte scrive: «Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare». L’Uomo, infatti, come si evince dalla lettura della silloge vettorelliana, vive come se non dovesse mai morire e, forte della sua presunta supremazia sui propri simili e sugli altri esseri, si abbandona senza remore a ogni sorta di violenze e villanie, che non commetterebbe, se si fermasse un attimo a riflettere che a breve deve presentarsi davanti all’inevitabile tribunale della morte, la quale non concede sconti a nessuno. 

   Nella sua speculazione filosofica, anche se rudimentale e appena accennata per non incidere in modo negativo sulla sensibilità del lettore, Vettorello connette la morte alla riflessione filosofica e cerca di edulcorare, pur con un linguaggio scarno e realistico, il problema e della morte e del destino. Difatti la riflessione sulla morte, come evento naturale non diverso dalla nascita, è stata il principale stimolo per molti filosofi. Arthur Schopenhauer, ne Il mondo come volontà e rappresentazione, che Rodolfo Vettorello ha certamente letto, scrive che la cognizione sperimentale della morte, non dissociata dalla vista del dolore e della miseria, che caratterizza la vita di tanti esseri indifesi, ha senza dubbio impresso l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Del resto se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia costituito proprio così, perché tutto cadrebbe nella banalità e nell’ovvietà.

  Movendo su questo sentiero, per certi aspetti impervio e di difficile soluzione, Rodolfo rinnova il concetto di elegia e le apre un altro orizzonte, in parte ignoto sia ai Greci, sia ai Romani. Per avere un’idea delle innovazioni apportate al genere letterario dal poeta milanese, accanto all’io lirico, che  scandisce il ritmo espressivo e compositivo prima del verso e, in un secondo momento, della lirica bisogna sfilacciare la tramatura narrativo-semantica ed esaminare i singoli lessemi, inglobati in strutturati e sostanziosi sintagmi, resi fluidi e fruibile dall’impeccabile struttura metrica, per la quale si può considerare il navalastro della più alta espressione poetica contemporanea.

  Consapevole dell’inesorabile scorrere del tempo, Rodolfo vi ritorna con accorata insistenza in tutta la silloge, come se il virgiliano «sed fugit interea, fugit irreparabile tempus» gli martellasse di continuo nella mente e gli procurasse una certa ansia e inquietudine, come si può evincere dal messaggio, che vivifica la lirica Non è giunta ancora, della quale qui si riportano solo i più significativi lacerti:

Mi dico che sarà l’ultima volta,

me lo dico sovente,

come si fa con ciò che si vorrebbe

ripetere per sempre, all’infinito.

Andare via da questo luogo d’ora

avrà il sapore amaro dell’addio

ed ogni addio nasconde la paura

che andarsene sia un modo di morire,

    sia pure solo un poco e a poco a poco…

Potrei forse rinascere alla vita

se avessi la speranza che davvero

l’ultima volta non è ancora giunta.

Anche a un’attenta lettura della lirica, riferita solo in parte, sembra che il poeta voglia richiamare l’attenzione del destinatario con la martellante insistenza sull’imminenza della morte e sull’intensità della sua bruttezza. Questa realtà, che l’uomo sperimenta e tocca con mano in ogni momento della giornata, non viene collocata in un ambente determinato, nel quale l’Uomo, oggetto e soggetto di questa tremenda realtà, fornisce la misura per gli altri. Essa diventa tramite d’una realtà e intensità febbricitante. La sua rappresentazione, reiterata con crudo realismo e un sotteso e nervoso timore dell’aldilà, si insinua sensibilmente nell’anima e crea sconcerto, confusione, incertezza; diventa una straziante lamentazione nel bugno della silloge, che avvince il lettore in attesa di luminosi squarci di cielo. Ma anche l’aspetto della bruttezza, che turba i sogni soprattutto di chi ha varcato una certa età, rivela momenti di intensa liricità, che schiudono la mente a respiri liberatori soprattutto quando alle sofferenze ordinarie non si riesce a trovare una via d’uscita. E domina in questi casi la bellezza, che permette di percepire il profondo e rasserenante respiro della Natura, per lo più intesa e proposta in senso leopardiano. Sono, questi momenti, residui reali dei veri componimenti poetici. 

       Non solo nella silloge in oggetto, ma in tutte le raccolte poetiche di Vettorello si riscontrano belle pericopi, accattivanti per le immagini o anche per il canto della lingua. Sorprende, però, che essi non stanno soli, non formano un unico in sé, ma sono, necessariamente, parte di un’unità nella quale il poeta fonde pressanti richiami alla fugacità della vita e alla bruttezza del male di vivere. Bello e brutto, sebbene siano nella loro obiettività categorie opposte, nella poesia di Vettorello non forniscono stimoli contrastanti e inquietanti, perché sono accantonati, come la differenza tra vero e falso. 

         Lo stretto ed inevitabile accostamento del bello col brutto produce un’illuminante dinamica di contrasto, che diviene di volta in volta l’elemento più importante, l’asse che unisce mittente e destinatario. È ovvio che in Vettorello il brutto, la visione pessimistica della vita, il costante richiamo alla morte, diviene il tramite, col quale con innata maestria e mano sicura conduce sull’eccelsa vetta del Parnaso, a diretto contatto col puro cielo della divinità ispiratrice. 

        Il lettore, dopo pochi versi, si accorge subito che il brutto di Vettorello non è il grottesco o l’orrido, che ha caratterizzato per un certo periodo la letteratura italiana, e non  solo. Si pensi al Tersite dell’Iliade o all’Inferno di Dante, alla produzione poetica dell’alto medioevo, la quale raffigurava brutto chi non entrava nel novero dei cortigiani. Il diavolo, ovviamente, era brutto, e rimane ancora brutto. Vettorello, inserendosi sulla scia di Novalis prima e poi di Rimbaud, il brutto diviene un tramite interessante e necessario, per andare incontro e comprendere l’intensità e l’espressività della volontà artistica, che con la sua meliggine vellica il potere indagatore e immerge l’io lirico narrante nell’animo del fruitore. Con la sua assiologia la poesia di Vettorello ora serve, ora desta, ora allontana l’energia sensitiva, che aspira a una lettura obiettiva del reale e del sensibile, cui si avvicina e cerca di avvicinare. La produzione lirica contempla tanto i contenuti, quanto, e soprattutto, le relazioni, che ingenerano tensione sovraoggettive. Accenna al brutto della morte, perché con esso, come sfida al naturale senso del bello, insito nella vita, produce quella drammaticità sorprendente, che deve stabilirsi tra l’io lirico del poeta e il lettore. 

       La bruttezza e la deformità della morte, quale si riscontra nella poesia di Vettorello, è tratta dalla realtà, dalla diretta esperienza ricavata dall’esistenza quotidiana di un mortale qualsiasi, il quale vede la nascita d’una nuova vita e, in controluce, la morte, che accompagna il neonato fino al suo trapasso. Mancano nella silloge gli Esseri plurali del dovunque e del sempre: protagonista è l’uomo, la donna, il bambino, che non sono scheletri informi e cupi, ma persone vive e palpitanti, come quando, parlando in prima persona, il poeta dice in Ingannare la morte:

Amo i sogni di altrove

e cambiare ogni volta orizzonte

per riuscire a ingannare la morte.

Non mi trovi, se spera

di trovarmi nel luogo che crede

Tutto questo soltanto

per eludere ancora la morte.

        L’io lirico si esprime, in questo caso, con scherno, con disprezzo, con stizzosa alterigia davanti a una realtà assiologica, che viene calata nella quotidianità con un’efficace dissonanza tra la melodia e l’immagine, tra il possibile e il reale, tra il caduco e l’eterno. Il lettore in questo breve stralcio assapora i residui del bello, ma vede in controluce la tristezza della realtà, la bruttezza della morte, il dolore causato dal suo arrivo. Il poeta si sofferma con compiaciuta insistenza sulla dissonanza di quanto evoca e diventa egli stesso dissonante, quando unisce nella tramatura lirica primordiali potenze liriche e osservazioni, che, solo nell’apparenza, sembrano banali. 

     Commisurare i contenuti figurativi vettorelliani alla realtà non può avere che un valore euristico. Quando l’ermeneutica spinge il lettore a penetrare nel profondo, questi deve riconoscere di non esaurire la conoscenza lirica con concetti meramente legati al reale o all’irreale, ma col riferimento a valori immutabili insiti nell’ens cogitans, che diviene motore immobile di un processo analitico strettamente personale. 

        Nella silloge Elegia per me solo non esiste traccia di realtà deformata, anche se molto spesso il discorso declina verità per lessemi ben orchestrati, che confluiscono in sintagmi specifici, nei quali ogni singola parte o parola ha una qualità netta, sensibile. Tuttavia siffatti sintagmi combinano ciò che è realmente conciliabile sia con l’esperienza sensibile, sia con la logica aristotelicamente intesa. Con l’alta qualità delle immagini e con la loro strutturazione sul piano narratologico il poeta intesse un fitto dialogo sulla realtà, che cade sotto il vigile sguardo dell’interlocutore. Esse, e per qualità e per quantità, superano di gran lunga quella particolare libertà, che, grazie alle forze metaforiche fondamentali della lingua, sono magistralmente coniugate con immagini contemplabili. E ciò può avvenire solo nella poesia, mediante la quale riescono a trasmettere un’efficacia più tagliente alle caratteristiche presenti nelle realtà stesse, e tuttavia la loro direzione non è rivolta verso un ideale, bensì segue una dinamica riflessiva, la quale, per così dire in mancanza dell’Ignoto invisibile, rende il reale stesso un ignoto, sensibilmente eccitato ed eccitante mediante la dissoluzione dei confini tra le figure, mediante il logico accostamento degli estremi. Nella composizione lirica Vettorello cerca di scandagliare l’ordinamento reale, pur restando nel reale e nel sensibile, mediante procedimenti noti alla precedente poesia. In ogni lirica della silloge, però, si trova per lo più in germe a quanto nelle altre raccolte è pienamente sviluppato, per rendere la realtà più sensibile e pregna d’una semplicità d’urto, come si legge nella lirica conclusiva, La cagna rossa: 

domani sarà il giorno del trasloco,

andremo via di qua per altri luoghi.                                                                          

O.A. B.




Salvatore Maiorana e il suo ultimo romanzo, Anima (2020) di Vittorio Riera

      Dopo L’Archetipo (2018), Salvatore Maiorana si ripresenta ai suoi lettori con un altro titolo –Anima – tratto di peso dalla psicologia del profondo di cui è antesignano lo psicanalista James Hillman. Protagonista del romanzo non è uno scienziato, come nel caso di Daniel de L’Archetipo, ma uno psicoterapeuta, Julian. Julian, non a caso, è anche il nome del padre di Hillman, e sarà dunque un omaggio al pensatore americano cui si deve il rinnovamento della psicologia tradizionale, la guida, il sentiero lungo il quale si svilupperà e diramerà anche il romanzo.

      Ciò che accomuna i protagonisti dei due romanzi è che entrambi cercano di gettare luce l’uno, Daniel, nel mistero della vita, l’altro, Julian, di mettere a nudo le radici dell’anima, quelle radici che ci consentono di vedere noi stessi in relazione alla realtà che ci sta attorno. E vale pena osservare subito, a riguardo, che in Maiorana emergono diverse personalità artistiche che si manifestano e si intersecano lungo lo sviluppo del romanzo, un romanzo globale, circolare, che può essere letto da mille punti diversi e che noi si tenterà di leggere dal punto di vista del poeta, dell’innovatore della prosa d’arte, una prosa, una scrittura funzionali ai vari drammi rappresentati nel romanzo cui assistiamo, del pittore e quindi del romanziere, e poi ancora del linguista e infine, ma non ultimo, dell’esperto di neuroscienze, competenze, queste ultime, che gli hanno consentito di offrirci un giallo di nuovo conio.

La vicenda: una storia che cura

       La vicenda raccontata da Maiorana si inserisce, peraltro e forse polemicamente, in quel filone di romanzi gialli tanto di moda oggi, l’uccisione di una pianista e insegnante di pianoforte, Alison, sentimentalmente e teneramente legata al neuropsichiatra Julian, che dunque ne rimane sconvolto. Ma è un giallo del tutto particolare poiché il linguaggio non è quello, becero e sguaiato, cui certa letteratura ci ha abituati, inoltre il romanzo si svolge e si sviluppa su piani spaziali e temporali diversi e infine perché non vi sono stucchevoli e prevedibili commissari che indagano. Sì, la polizia scientifica interviene immediatamente in cerca di indizi o impronte più o meno digitali, il giudice delle indagini preliminari fa in maniera asciutta – neutra, annota lo scrittore –le domande di rito (come ha trovato il corpo della donna, se erano sposati, la professione, dov’era la notte in cui ha trovato il cadavere, l’alibi di cui disponeva, gli amici di cui si circondavano lui e la moglie Alison e così via). Poi delle indagini non si quasi più nulla se non verso la fine del romanzo in cui viene svelato il nome dell’assassino anzi dell’assassina e il movente del delitto, la gelosia, una gelosia cieca che può fare commettere i più atroci delitti come ci mostra quotidianamente la realtà in cui siamo immersi. Ciò non significa che le indagini siano del tutto assenti. Esse si svolgono su un piano terapeutico al centro del quale altra protagonista è Alison presente nel romanzo si può dire dal principio alla fine direttamente citata con il suo nome o indirettamente come un’ombra che incombe nello sviluppo del racconto. Soltanto verso la fine, che coincide con la ritrovata pace di Julian, i contorni di questa presenza si fanno sempre più sfocati fin quasi a scomparire anche se il nome di Alison viene citato ancora nelle ultime pagine e risuona come una eco prolungata. Al di là di ogni altra considerazione su come sia stato risolto il giallo, si ha la sensazione che il delitto, e per esso, appunto, il ‘giallo’, sia stato il pretesto per Maiorana per rappresentarci una quelle storie che come per magia hanno il potere di rinnovare e anzi di ricreare – il termine è di Maiorana – la psiche e che pertanto è da annoverare fra quelle che curano narrate da James Hillman cui si deve un’opera dal titolo omonimo, Anima. Non è la nostra una supposizione. Lo stesso Julian, dietro cui Maiorana si cela, confessa di essere rimasto come folgorato dalla lettura di un altro testo di Hillman che ha per titolo Le storie che curano.

Anima, ovvero un manuale, anche, di psicoterapia

      Anima si può considerare anche un manuale di psicoterapia. Non dimentichiamo infatti che Julian è uno psicoterapeuta e come tale non può non rappresentare col distacco dovuto il modo in cui avvengono gli incontri con i suoi pazienti. Solo che Julian è uno psicoterapeuta speciale, per così, perché il dramma vissuto, la morte di Alison, lo ha sconvolto e soltanto con l’aiuto della sua amica Sarah, Sarah Crawler, anch’essa  psicoterapeuta, può uscirne fuori. Sicché si ha un Julian nel duplice ruolo, da un lato un Julian malato, un paziente che si sottopone alle sedute con Sarah, dall’altro lato, un Julian apparentemente guarito che torna a esercitare la sua professione per guarire chi è affetto da turbe più o meno psichiche. Da qui, dei veri e propri incontri realisticamente descritti dove domande del terapeuta apparentemente innocue finiscono con l’avere risvolti profondi nell’animo e nell’anima di chi si sottopone a una terapia del genere. Ricostruiamo uno di questi incontri avvenuti, precisa Maiorana, al settantaduesimo piano di un grattacielo al centro di Manhattan di New York. Il cielo non poteva che essere grigio quando Julian comincia la terapia, come grigio, incolore il suo stato d’animo, il suo umore: “Nella sua mente si affollavano dei tristi pensieri” (p. 30) e tutti convergevano, come in un gorgo, alla morte inspiegabile di Alison. Le domande che Sarah rivolge a Julian sdraiato su un lettino sono empatiche, di immedesimazione nello stato d’animo del paziente, hanno proprio lo scopo di interrompere il flusso di pensieri che angosciano Julian. Dopo alcune considerazioni su taluni aspetti della psicoterapia, come ad es., sul transfert o sul potere che ha di rimuovere immagini conturbanti, Sarah manifesta, senza esitazioni, lo scopo di queste sedute: “Voglio, dice perentoriamente, che tu guarisca raccontando la tua storia” (p. 32) e aggiunge: “Le storie raccontate dai pazienti hanno un effetto terapeutico, guariscono” (Ivi). Da qui, in uno col mutare del panorama che comincia a farsi meno grigio e gravido di colori meno opprimenti, le domande che Sarah rivolge a Julian su un’immagine, su un colore, su qualcosa che lo ha impressionato o emozionato quando era bambino. Alle risposte di Julian, le domande di Sarah si fanno più impegnative, più incalzanti. Da qui, richieste di chiarimenti sulla musica, giusto perché Alison era una pianista, sul tempo che scorre, su Alison, sui genitori. Julian nel rispondere a Sarah sembra uscirne rinfrancato, guarito e ancora più convinto della indispensabilità dell’aiuto che uno psicoterapeuta può dare a una umanità malata, ferita da mille angosce tutte diverse e diverse per intensità. Ciò si può constatare quando Julian ritorna nell’isola non più come paziente, ma come medico, medico dell’anima. Vedremo nel prosieguo dell’analisi come in altri tratti il romanzo si fa saggio. Per il momento, è opportuno dare qualche ragguaglio sui personaggi che intervengono nel romanzo.

  I personaggi. I personaggi ‘comparse’

        Il racconto ci presenta due gruppi di personaggi antitetici fra loro, gli amici di Alison e Julian e i pazienti con turbe psicologiche, antitetici poiché nulla sappiamo sul piano psicologico del primo gruppo. Conosciamo soltanto i loro nomi, le loro tendenze artistiche o le loro professioni, anche se è proprio fra questi che si cela l’autore e meglio, come si è detto, l’autrice del crimine. Si tratta di vere e proprie ‘comparse’ che nulla aggiungono e nulla tolgono allo sviluppo del racconto. Marco Velani è un anestesista, e la sua compagna, Anne, una esperta d’arte e insegnante di pittura presso un’accademia. Si tratta di persone dalla vita apparentemente tranquilla, divisa tra lavoro e affetti. E così si può affermare di Claire e di Christian, che gravitano nel mondo fiabesco del balletto. Anche di Jane, Jane Melandri, e di Thomas Viviani sappiamo soltanto che come Julian sono affermati neuropsichiatri e così ancora di amici di cui Maiorana cita il nome e la professione. L’unico di questa cerchia di amici che possa far pensare all’autore del delitto è Thomas Dawson, allievo prediletto di Alison. La sua “possente struttura fisica, si legge nel romanzo, gli avrebbe permesso di sollevare Alison come un manichino” (pp. 37-38) e appenderlo afflosciato, inerte, disarticolato, al ripiano più alto della libreria così come venne trovato il cadavere. Lo lascerebbe pensare anche una telefonata dell’amica Jane che  informa Alison del prosieguo delle indagini secondo cui alcune impronte trovate appartengono a un uomo. L’uso dell’indicativo presente sembra avvalorare questa ipotesi. Pure, come ormai, sappiamo non è così.

I personaggi con turbe psicologiche: Soleil, Shana, Lara, Robert

        Agli amici di cui si traccia nel romanzo esclusivamente il profilo professionale e la cui vita sembra scorrere senza traumi sul piano psicologico, si contrappone un gruppo di personaggi con gravi turbe psicologiche. Julian dopo le sedute con Sarah crede di sentirsi meglio, di aver superato il trauma della uccisione di Alison e decide di tornare nell’isola in cui è nato e di riprendere il suo lavoro di neuropsichiatra.

      La primavera con l’esplosione dei peschi in fiore e le flagranze delle zagare sembrano preludere a una nuova vita per Julian, una ri-nascita, un ritrovare se stesso, la sua capacità di tornare a rendersi utile per la società e di tornare ad amare. Lara, Shana, Soleil, queste le sue prime pazienti, cui si aggiungerà in un secondo momento Robert.

       Col ritorno nell’isola, in uno dei tanti flashback, Julian rivive spezzoni della propria vita: Ariel, il suo primo amore, suicidatasi inspiegabilmente, gettandosi da una rupe, Chiara, altro suo amoruzzo con cui trascorreva ore e ore seduto sulla sabbia “a guardare il mare e a sognare il mondo” (p. 85), la casa dov’è nato e dove il tempo si è come fermato e tutto è rimasto come lo aveva lasciato. Ritorno dunque all’isola, a un’isola di cui Maiorana non cita mai il nome ma che da molti indizi sembra trattarsi della Sicilia. L’isola, confessa a Jane, “è un balsamo che lenisce ferite. Guardo il mare, l’alba, i tramonti e penso che l’isola sia il mondo” (p. 104), il mondo, cioè tutto anche perché vi è nato.

 

Robert, ovvero di un caso di psicosi 

       In Robert, Maiorana ci rappresenta un classico caso di psicosi, in cui la persona che ne è affetta perde il controllo delle proprie azioni ed elaborazioni mentali. Le cause, nel caso di Robert, sono da ricercare nel fatto che la madre , peraltro una tedesca e quindi lontana dalla nostra cultura, lo ha abbandonato proprio in un’età in cui maggiormente necessaria è la sua presenza. Da qui, la sua sofferenza e insofferenza maturatesi in anni e anni di macerazione interiore, di ricerca di qualcosa che non è riuscito a trovare. A ciò si aggiunga un insuccesso scolastico che lo ha portato a una sorta di ribellione e di rivalsa, di vedere nella scuola un nemico, un nemico da odiare e punire dando fuoco all’aula approfittando di una momentanea assenza dei compagni. Ma, si diceva poc’anzi, questi soggetti perdono anche il controllo dei propri pensieri e si inventano delle verità che non hanno riscontro nella realtà effettuale. A Julian che gli dice di volerlo aiutare a stare meglio, replica accusandolo di non essere un medico e addirittura di aver detto delle falsità sul suo conto. Robert non guarirà del tutto, pur avendo partecipato allo spettacolo conclusivo con cui si chiude il romanzo. Continuerà a sentire delle voci di dentro, delle allucinazioni uditive che tuttavia non sembrano schernirlo come una volta. Il lavoro di rider che procura lo distrae e aiuta a dimenticare le sue ossessioni che puntualmente riversa in un diario.

 Lara, ovvero un pizzico di pedagogia

       Il disagio psicologico di Lara non è, come si vedrà, di quelli traumatici vissuti da Shana e Soleil, ma è conseguenza ugualmente di un errato comportamento di chi ha invece il compito, come gli insegnanti, di non mortificare mai gli alunni che vengono loro affidati. È il caso di Lara che a una sua richiesta di rispiegare una lezione non del tutto da lei compresa, si sente investire dalla maestra che con occhi torvi e parole di fuoco le grida: “Sei una bambina disattenta…Non ascolti mai gli altri” (p. 100). Parole stridule che possono  provocare danni irreversibili se non opportunamente e tempestivamente curati. Maiorana non dà nessun giudizio sulla maestra limitandosi ad ascoltare la ragazza che lucidamente espone il suo disagio psicologico. “Quelle parole sono rimaste impresse, incise, nella mia memoria. Non sono riuscita a cancellarle o a rimuoverle. Ogni giorno sentivo la voce della maestra e la percepivo…come una affermazione della mia incapacità a non sapere relazionare con gli altri” (Ivi). Da qui l’insicurezza, la mancanza di autostima che possono a comportamenti compulsivi, fuori controllo, del tutto errati se non contrastati in tempo con opportuni suggerimenti. E il suggerimento che Julian dà è quello di scrivere un diario dove riversare emozioni senza infingimenti pensieri anche i più intimi, angosce, paure, sogni. “Devi essere vera, dirà Julian anche a Shana, la verità è fondamentale per guarire” (p. 116) e ritrovare la serenità perduta. E Lara ritroverà se stessa, la capacità di relazionarsi con gli altri. Apprendiamo, sul finire del romanzo, che lavora presso un artigiano dove si modella la creta e che fa volontariato andando a trovare dei bambini incurabili cui strappare un sorriso vestita da clown e raccontando loro delle fiabe tra le quali quella della maestra severa. La verità, vista ormai come qualcosa di lontano, di altro da sé, l’aveva guarita e ne poteva parlare come di qualcosa che poteva accadere solo nelle fiabe.

 Shana 

      La vicenda di Shana ci riporta ai giorni nostri con la fuga di tanti diseredati su barconi precari in cerca di un asilo che li metta al sicuro da fame, guerre intestine, pestilenze stupri. Shana ha vissuto esperienze del genere, ma è riuscita a fuggire dall’inferno siriano dove un missile aveva distrutto la sua casa e ucciso i genitori e un fratellino. Sindrome post-traumatica. Questa la diagnosi. Da qui  un disagio psicologico devastante, la paura del buio, l’immagine dei genitori e del fratellino distrutti, inghiottiti dalle macerie sempre davanti agli occhi, gli incubi nel silenzio della notte. Si leggeva nei suoi occhi terrorizzati la richiesta di aiuto a superare questo suo stato d’animo, queste sue paure, queste ombre che oscuravano la sua idea di mondo e per ciò stesso si mostrava decisa a volere collaborare con Julian per ritrovare se stessa e la sua tranquillità. Lo mostrano le sue risposte chiare, ampie, date senza imbarazzo alle domande di Julian che la invita a raccontare dei suoi sogni, dei suoi incubi popolati di esplosioni, di cadaveri, di uomini senza volto che le usano violenza, la stuprano. Queste confessioni sono un toccasana per chi è affetto da queste turbe. Apprendiamo infatti più in là che Shana ha ripreso a dipingere e messo in atto le tecniche apprese a Damasco quando, prima della guerra civile, frequentava la Scuola d’Arte.

    Soleil, invece, ha inizialmente difficoltà, come vedremo, a rievocare i suoi disagi, i suoi tormenti dinanzi ai quali l’atteggiamento di Julian è in genere quello che ci si aspetterebbe da uno psichiatra dinanzi alle confessioni dei suoi pazienti, un atteggiamento empatico, di immedesimazione apparentemente distaccata dalle loro sofferenze. “Penso che l’arte, la poesia, la narrativa, la pittura, la danza, il teatro” (p. 92), annoterà Julian nel suo diario, siano i rimedi che soli possono aiutare a superare disagi del genere. In questa notazione c’è peraltro l’annuncio di uno spettacolo in cui poesia, musica, arte in genere convergono in un capitolo conclusivo e risolutivo per tutti i pazienti.

Soleil, o di un amore nascente

       In Maiorana spesso le situazioni drammatiche sono precedute da descrizioni che non lasciano presagire nulla di buono. Così è, a. e., per l’incipit del romanzo allorché Julian scopre la morte violenta di Alison. Tutto si fa spettrale in questo inizio del romanzo: il silenzio che rimanda a mondi lontani, sconosciuti, una luna arida, smorta, l’accenno alla Terra Desolata di T.S. Eliot, la luce  giallastra dei lampioni, il tanfo di morte, di carcasse di animali in disfacimento, perfino il miagolio di un gatto simile ai vagiti di un bimbo appena nato. Lo stesso accade con i nomi sia quelli comuni che propri di persona, che si caricano di un significato simbolico. Si è visto come l’accenno alla primavera sia come un risveglio, un rinascere a nuova vita. Analogamente avviene per Soleil, in francese Sole. Non è un nome scelto a caso, né la motivazione va ricercata nel fatto che la madre era francese. Anche in questo caso Soleil è sinonimo di luce, di vita, quella vita che soltanto un innamoramento puro, non viziato dall’idea di possesso può suggerire. E infatti – è opportuno dirlo subito – Soleil finirà con l’occupare il posto che Alison occupava nella vita di Julian. 

      Soleil ha subìto diversi traumi tra i quali quello della morte della madre vissuta come un abbandono, trauma al quale si è aggiunto quello del ragazzo di cui s’era innamorata e che era scomparso prima della nascita del loro bambino. Sofferenze, queste, abbandoni che ne hanno fatta un’anoressica preda di una inevitabile depressione. Soleil, annoterà Julian nel suo diario – ed è qui, come in altri passi , che il romanzo si fa saggio – “non ha fiducia in se stessa” (p. 91), vede solo le brutture del mondo nel quale vive. “La psicoterapia dovrebbe stimolare la sua ‘anima’ a produrre immagini di vita, immagini positive” (Ivi). Ed aggiunge, ripensando a quanto aveva pensato per Shana: “Un’esperienza artistica le permetterebbe di avere maggiore fiducia in se stessa”(Ivi). Si vedrà come maturerà questa esperienza artistica. Per il momento, è opportuno ripercorrere brevemente il percorso che condurrà la ragazza alla guarigione.

      Il primo incontro con Soleil non sembra produrre risultati. La ragazza risponde con riluttanza alle domande che Julian le pone, ma lascia trapelare l’odio per l’isola dove ha sofferto. Julian capisce il disagio della ragazza e interrompe la seduta rimandandola ad altra seduta. Ma, a questo punto, accade qualcosa di straordinario tutti e due fanno uno stesso sogno. È proprio qui che il romanzo si fa palesemente saggio, perché il sogno simultaneo dà a Maiorana l’opportunità di inserire il concetto di sincronicità già descritto, ci avverte lo scrittore, da Jung nel corso delle sue ricerche. La sincronicità, spiega Maiorana, non è “un problema di comunicazione telepatica, ma qualcosa di più complesso” che annulla “le categorie di spazio-tempo” (p. 98) come accade, precisa Maiorana, “con due particelle etangled” (Ivi) e come gli confermerà più tardi Sarah arricchendo le sue osservazioni con altri particolari (p. 134). Almeno questa è anche la tesi ultima di Maiorana così come possiamo leggerla nell’ultimo capitolo del racconto: “Julian e Soleil erano come due anime inseparabili. Pensavano le stesse cose, provavano le stesse emozioni di fronte a un tramonto o a un’alba” (p.199). Insomma, le due anime si erano fuse come in un unico organismo che vive e pensa le stesse esperienze. “Le nostre anime, conclude Maiorana forse pensando al suo precedente romanzo, L’Archetipo, sono come due elettroni che, lontani anni luce, sanno cosa fa l’altro” (Ivi).

       Il sogno sincronico è foriero peraltro di qualcosa di buono destinato ad accadere. Più avanti, infatti, Maiorana riporta testualmente quella che è stata definita l’equazione dell’amore descritta dal Premio Nobel per la fisica 1933, il britannico Paul Dirac: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema” (p. 104). “Questa forma di etanglement, commenta ancora Maiorana pensando ai suoi futuri rapport con Soleil, “esiste tra due menti che siano legate da un vincolo d’amore o di affetto” (Ivi). È quanto gli conferma Sarah nel corso dell’ultimo colloquio telefonico nel corso del quale Julian le parla del sogno sincronico (p. 137). È una breve seduta alla fine della quale Julian mostra di  essere del tutto guarito. Nell’anima di Soleil accade contemporaneamente lo stesso fenomeno. Ne è segno il fatto che la ragazza abbraccia Julian prima di andar via dopo un incontro, abbraccio che è da interpretare come l’inizio della sua guarigione. Soleil vede in Julian un’ancora di salvezza, qualcuno di cui ci si può fidare ciecamente. Infatti, al terzo incontro, alla sollecitazione di Julian a raccontare di sé e della infanzia, Soleil si apre ricostruendo senza infingimenti i suoi rapporti con il padre, la madre, le sue delusioni, i suoi desideri, la danza, il pianoforte, il primo vero amore per un artista di strada improvvisamente scomparso prima che il frutto della loro relazione nascesse. Le sue risposte alle sollecitazioni di Julian ampie, circonstanziate, sono dunque segno che la ragazza è ormai avviata verso il superamento delle sue angosce, trasformazione, questa, avvalorata dal fatto che l’abbraccio della seduta precedente si è trasformato in qualcosa di più intimo, in un fuggevole bacio sulla guancia di Julian. Ma c’è più, l’innamoramento avviene per gradi. Alcuni pescatori trovano il cadavere di un giovane che, come Ariel, si era gettato dalla tristemente ormai nota Rupe. Si forma una piccola folla attorno al cadavere. Julian ne fa parte e così Soleil terrorizzata perché crede trattarsi di André, il padre del bambino. Si avvicina a Julian e gli sfiora la mano. È come una scintilla. Julian ha la sensazione che stesse accadendo qualcosa di nuovo e alla mano di Soleil che lo sfiora risponde stringendola nella sua e abbracciando la ragazza teneramente. Quel filo invisibile che la legava a sé si stava materializzando. La guarigione era più vicina, qualcosa ormai di incontrovertibile, contro cui nessuna forza ostile poteva opporsi (“Soleil e io abbiamo bisogno di una nuova vita” (p. 130) confesserà Julian lasciando intendere così di non essere del tutto guarito). Soleil torna a casa e ricordandosi di quanto le aveva detto Julian (“L’arte ti aiuterà a guarire dalle tue paure e dalle tue ansie” p. 113) prende la Leica che la madre le aveva lasciato e comincia a dare corpo alla sua creatività, a dare segni di un nuovo interesse a partecipare fotografando ciò che le sembrava degno di incidere su una lastra. Sembra, come si vede, che tutto si risolva per il meglio. Ma non è così. Improvvisamente si rifà vivo Andrè che vorrebbe il bambino e che tenta di violentare Soleil. Soleil riesce a fuggire con il bambino dirigendosi verso la Rupe dove la trova Julian mentre contempla il mare con l’intenzione di farla finita. Sono attimi di angoscia interminabili a cui pongono fine le lacrime che inondano le guance di Soleil mentre Julian la cinge per le spalle allontanandola dal precipizio. È a questo punto che il legame tra paziente e psicoterapeuta si trasforma in amore annunciato, come spesso accade in Maiorana in altre situazioni da immagini simboliche, in questo caso è il vento il protagonista: “In quel momento il vento di ponente che veniva dal mare soffiò forte e spazzò via le foglie degli alberi” (p. 143). Non a caso Maiorana precisa che si tratta di un vento di ponente. Ponente è la parte dell’orizzonte dove tramonta il sole. Qualcosa dunque sta per finire, per concludersi in maniera definitiva. E questo qualcosa non è altro che la fine dell’amore per Alison avvalorato dal verbo usato – ‘spazzò’ -, un verbo forte, violento, come a dire che non si trattava di amore a senso unico e cioè dal paziente verso il medico che la cura e che quindi è amore come un risarcimento o come riconoscenza. È un amore reciproco perché anche Julian non èdel tutto guarito. È quanto lui stesso confesserà quando annota sul suo diario: “Provo per lei un sentimento di tenerezza. Soleil è una piccola stella che brilla nel cielo della mia anima” (p. 150). Ma del resto, ‘ponente’ risuona ancora simbolicamente qualche rigo oltre e a proposito proprio di Alison. Julian è in partenza per Milano per uno dei pochi incontri con il magistrato inquirente e annota ancora sul diario: “Penso ad Alison quando guardo il cielo stellato dell’isola” (p.  150), e qui sembra che l’immagine di Alison sia incancellabile dall’animo di Julian, ma subito dopo, a fugare ogni dubbio, scrive: “Mi sembra di vedere il suo volto tra le nuvole quando il vento le trascina verso ponente” (Ivi). Il vento dunque, un vento di ponente trascina definitivamente con sé le nuvole e il ricordo di Alison e se anche sognerà ancora di Alison, sarà un incubo, sarà come sognare il nulla come mostra quanto ci apprestiamo a citare dove dietro a ogni parola si celano significati reconditi e simbolici: “(Alison) era nuda in un prato verde. Sembrava un fantasma. Julian la prendeva per mano e cercava di coprirla. Il suo volto era irriconoscibile (…). Julian si era tolto la camicia e aveva coperto il suo corpo quasi trasparente” (p. 157). Ma come si può coprire un fantasma, un corpo che non è più corpo, che è qualcosa di immateriale, che altro non è ormai che un ricordo? Infatti lei improvvisamente si dissolve, “la camicia vuota era caduta come un lenzuolo bianco sui fiori di campo” (Ivi) dove il lenzuolo bianco richiama il sudario, il panno con cui una volta si velava la salma di un defunto, e gli umili fiori di strada riportano agli omaggi che si fanno ai propri cari che non sono più. Il dado è tratto, è il caso di dire. Alison non è ormai che un ricordo sbiadito. Ne è una ulteriore prova il lungo bacio che Soleil e Julian si scambiano pubblicamente al ritorno di quest’ultimo da Milano dopo un ulteriore colloquio con il magistrato inquirente. Ma c’è di più. A suggello di questa intesa, i due fanno l’amore. Fuori, l’azzurro copre mare e cielo che formano  un tutt’uno “come i loro corpi e le loro anime” (p. 160). Julian sognerà ancora una volta Alison, un sogno ricco di significati che tuttavia Julian non ha voglia di interpretare. Il suo pensiero è rivolto allo spettacolo d’arte che tutti coinvolgerà amici visibili e invisibili e tutti immergerà in un bagno di bellezza.   

L’arte come terapia

       Una cifra che distingue il libro e quindi Maiorana è l’incipit di ogni singolo capitoletto che, a seconda di ciò che lo scrittore si appresta a rappresentare si carica di un’atmosfera poetica più o meno intensa e più o meno densa di significati simbolici. È anche il caso del capitoletto nel quale l’arte si fa terapia curando e guarendo ogni malessere psichico. “C’era all’orizzonte un chiarore insolito. La luce era di una polifonia che si rifletteva nell’acqua creando misteriosi riflessi” (p. 175). Già in questi brevi righi si posso cogliere significati nascosti. ‘Chiarore insolito’, scrive Maiorana, dove l’enfasi è posta sull’aggettivo ‘insolito’, perché insolito, eccezionale, straordinario è quanto sta per accadere. La luce che si smembra in più parti ciascuna a sé stante e diventa musica polifonica richiama la danza, la poesia, la musica che di lì a poco saranno le vere protagoniste di qualcosa di indimenticabile. I ‘misteriosi riflessi’ che questa luce scomposta forma nell’acqua richiamano il miracolo che la bellezza di un evento può operare in un’anima più o meno turbata.

      All’evento partecipano tutti i protagonisti del romanzo. Ritornano figure che avevano partecipato al funerale di Alison: Alexandra seduta al pianoforte, Neil Ferri, pronto col violino, e Thomas con la tromba, gli artisti Christian e Claire avevano messo su una scenografia per Soleil, Shana, Lara e Chiara. La neuropsichiatra Jane coordinerà gli interventi di quanti leggeranno poesie mentre una piattaforma sul mare doveva servire da pista da ballo. Come si può vedere musica, danza, poesia si intersecano, si fondono in un tutt’uno di gradevole efficacia tanto da destare la curiosità dei rudi pescatori del villaggio, che, lasciate le reti sulle barche, si accostano ai musicisti toccati dalla dolcezza di quanto vedevano e delle note che udivano. Siamo alla fine. È quasi l’alba. Gli strumenti tacciono. S’ode soltanto il respiro del mare nel quale si riflettono le luci di un cielo stellato mai visto prima. Qualcosa di nuovo è accaduto simboleggiato anche dalla stella ancora luminosa che l’astro che annuncia l’aurora e reca la luce del giorno, cioè il Pianeta Venere, non a  caso la dea dell’amore e della bellezza. Una dea dunque che esorta gli esseri umani ad amarsi e ad amare il bello, l’armonia, quell’armonia che è “l’anima del mondo”(p. 180).

La poetica dello sguardo

      Il libro di Maiorana si caratterizza anche per gli aspetti poetici di cui è pieno. Anima infatti si apre con tre poesie dedicate alla madre, anzi Madre, da non confondere con la madre biologica; la Madre, in questo caso, è “l’Archetipo della Bellezza” – lo capiremo verso la fine del romanzo dove le tre poesie vengono riprese testualmente alle pagine 178-179-. E l’Archetipo della Bellezza altro non è che la specie umana cui affidare senza timore di venire respinti i nostri sogni, le nostre angosce, le nostre paure, il nostro vivere.

            I versi

  I versi si aprono con una invocazione:

  Vieni, dammi la mano

Andiamo ai confini del mondo

Alla ricerca di una stella

Per vivere

     Un atto d’amore e riconoscenza, si direbbe quasi di risarcimento, in quel ‘vieni’ che si ripete nella seconda poesia con delle varianti che ne allargano, ne dilatano l’orizzonte:

  Vieni, andiamo dove le stelle illuminano

Le gocce di rugiada

Di questa notte d’autunno

L’alba brillerà nei nostri occhi pieni di stelle

Guardando l’aurora.

 

       Già si notano in questi primi versi il cromatismo (azzurri abissi, riferiti agli occhi e poi, ricorrendo alla figura retorica della sinestesi dove il suono, l’udito si fonde con la vista, esplosione di colori ancestrali, primordiali, mai visti), il tempo (le mani della Madre che lo carezzano quasi fosse il tempo un essere vivente), lo spazio, il sogno.

        Anche da questo punto di vista, il libro si può considerare come un manuale di psicanalisi almeno per chi si trovi psicologicamente in una situazione di disagio. Allora bisogna ricreare – il termine è del Maiorana – correggere l’inconscio che è in noi fin dalla nascita. Ma sappiamo anche –è ancora Maiorana che scrive – dallo junghiano James Hillman che l’inconscio è un contenitore, un miscuglio di immagini che spesso “ci fanno male, creano in noi dei malesseri, delle patologie (p. 31)”. Da qui, la necessità di “creare dentro di noi altre immagini positive, immagini di bellezza…immagini di parole, di suoni, di musica, di sensazioni, di percezioni” (pp. 30-31). Non a caso viene rivolto da Maiorana l’invito all’ascolto di brani musicali quali Melody of Love di Beethoven o Notturno di Chopin o ancora Claire de Lune di Debussy o infine Ravel, Mozart, tutti brani che Alison amava suonare e dinanzi ai quali Julian provava come un senso di benessere tale da rimanerne ‘estasiato’.

        Accanto alle sensazioni uditive, ecco quelle visive che si imprimono nella nostra anima attraverso gli sguardi, gli occhi. Gli occhi non sono soltanto l’organo della vista, sono le visioni, gli occhi dell’anima attraverso i quali è possibile penetrare e fare nostro l’affascinante mistero della vita. E qui è ancora James Hillman che ci soccorre, e non soltanto perché anche lui ha scritto un libro dal titolo Anima, ma per come ha letto il pittore americano Edward Hopper. Si guardino le sue opere. In diverse tele del pittore americano compare una finestra da cui guardare gli interni di una casa o da cui, se lo sguardo è proiettato all’esterno, fissare ipnoticamente orizzonti immobili, privi di ogni forma di vita che li animi. Le immagini appaiono come inerti, fissate, incollate sulla tela. Ma non è solo questo che conta sottolineare in Hopper. Anche chi guarda ha la sua funzione e chi guarda è in genere una donna vista di profilo o di spalle.

      Anche in Maiorana si può rinvenire una poetica dello sguardo. Non è un caso che la poesia alla madre al terzo verso fa riferimento agli occhi, occhi luminosi, e nell’altra, la  seconda, gli occhi ne sono il titolo: Se non dovessi mai più rivedere i tuoi occhi. Ma ecco la poesia che si trascrive quasi per intero:

            Se non dovessi mai più rivedere i tuoi occhi

            I tuoi occhi mi vedrebbero dal profondo

           della mia anima

           Se non dovessi mai più rivedere il tuo volto

           Sognerei il tuo volto tutte le notti per riportarlo

           alla memoria

           Se non dovessi mai più vedere la tua immagine

           Essa vivrebbe dentro di me nell’intimo

           del mio essere

     Ancora gli occhi ritornano nella terza e ultima poesia dal titolo Non spegnere mai la luce dei tuoi occhi, un vero e proprio inno agli occhi paragonati al ‘mare d’autunno’, ai ‘colori dell’arcobaleno’, a ‘diamanti feriti dalla luce dell’aurora’, alle ‘gemme di primavera’.  Non si finirebbe mai di esaltare la delicatezza e il profondo significato di questa poesia che andrebbe letta e riletta più volte per coglierne a ogni lettura significati nuovi come accade quando la poesia è autentica poesia.

      L’inno agli occhi non si ferma qui. Risuona a più riprese all’interno del romanzo. Qui  gli occhi – il riferimento è ad Ariel, ‘la ragazza più bella dell’isola’ (p. 41) sono verdi e vengono paragonati al ‘colore del mare’ (ivi), ma non di un mare qualsiasi, ma di un mare, precisa l’Autore ‘nelle vicinanze della costa’ e quindi in primo piano, e quindi intensamente verdi che diventa di un verde sempre più sbiadito man mano che ci si allontana e ci si avvicina alla linea dell’orizzonte. Il riferimento agli occhi non è solo quello citato, altri ve ne sono e tutti risplendenti di una luce nuova, vivida, “d’oro, dice il poeta, che illuminava il fondo del mare”.

La prosa poetica notturno n. 9 –

      Complementare al poeta Maiorana è il poeta in prosa, complementare perché egli anche in questo settore innova. Innova nel senso che non si pone sulla scia di Baudelaire e dei suoi Petits poèmes en prose per il quale c’era sempre un intento pedagogico al fondo dei suoi poemetti. Né rimane interessato alle poesie e alle prose poetiche dei vari Giampiero Neri, Tommaso Ottonieri, Eugenio De Signoribus nei quali l’intento etico e sperimentale è prevalente.

      A Maiorana interessano immagini di bellezza filtrate attraverso le ‘parole’ e quindi attraverso una prosa che si fa poesia o una poesia che si fa prosa. Ecco qualche esempio, ma se ne potrebbero portare tanti quanti sono i capitoletti, non numerati peraltro, nei quali si dipana il racconto. Nell incipit di uno dei primi al primo capitoletto fa il suo ingresso la luce, ma non è una luce qualsiasi, è una luce che illumina ‘alberi spogli’ (p.29) lasciando così intuire che si è nella stagione in cui tutto è letargo e silenzio e che si è in una zona dove sembrano scorrere rigagnoli: “La luce del mattino entrò nella sua camera da letto. I tiepidi raggi del sole illuminavano gli alberi spogli e lasciavano nell’acqua luminescenze dorate”. Ecco un altro esempio – siamo nel bel mezzo del romanzo – nel quale è il pittore che annota e qui vale la pena ricordare che Maiorana è anche un pittore. Maiorana osserva e descrive “Era l’alba. Una linea sottile azzurra con sfumature di rosa pallido separava il mare dal cielo. Il cielo e il mare sembravano fossero uniti come i corpi di due amanti in attesa dell’aurora. Il cielo era coperto di piccole nuvole bianche spinte da una leggera brezza…” (p. 85). Ed ecco infine un ulteriore brano coincidente con la ritrovata gioia di vivere di Julian e Soleil. Tutto si fa colore, luce, movimento quasi fermo, immobile, lento ritorno alla vita che riprende discretamente il suo corso: “Era un tiepido mattino di primavera. Il mare era di colore azzurro come il colore del cielo senza nuvole. Il grande disco dorato illuminava la scogliera e il faro. Un vento leggero increspava il mare. Delle piccole vele bianche, verdi e blu si muovevano lentamente verso la costa” (127). Tutto viene visto come in lontananza quasi a non volere  turbare un momento di felicità pura, in una atmosfera di leggerezza, di levità, di inafferrabilità si direbbe quasi, come quando si sfiora con le mani un tessuto di seta e se ne avverte appena il fruscio.

Tra i personaggi invisibili, il sogno

       Accanto ai personaggi per così dire fisici, i protagonisti a vario titolo della vicenda, ve ne è uno che si può etichettare come personaggio invisibile, il Sogno e, meglio, i Sogni di cui il romanzo è peraltro costellato.

       I sogni sono stati sempre oggetto di ricerca e di riflessione degli studiosi della psiche umana. Per Freud, neurologo e fondatore, come è noto, della psicanalisi, i sogni altro non sono che l’emersione, la rappresentazione di desideri inconsci e, come tali, si direbbe quasi inconfessabili; per altri neuroscienziati, Klein, a esempio, è da vedere in essi il mistero della nostra coscienza. Maiorana non si pone il problema di spiegare questo mistero. Lui si limita a descrivere i sogni, a coglierne i contorni, gli aspetti ancestrali. I sogni da lui descritti sono curiosi, nel senso di straordinari, di non comune e lunghi. E così è nel primo sogno da lui descritto alle pagine 25-27: è notte fonda, sferzata da un vento gelido. Julian raggiunge un parco al centro del quale una donna suona un piano, mentre poco distante un uomo suona un violino. L’atmosfera è surreale. La donna indossa un vestito azzurro, laminato, precisa l’Autore, e sul quale, è da presumere, si riflette la luce del globo lunare che illumina anche il biondo dei lunghi capelli ondulati e l’avorio delle mani che si confonde con l’avorio dei tasti. Tutto appare come sospeso, vissuto in un tempo lontano reso ancora più lontano dal brano che la donna suona in perfetta armonia con l’uomo: Ave Verum Corpus, un testo del XIV secolo musicato da numerosi compositori fra i quali Mozart che è quello suonato dalla donna. Questo sogno non finisce qua. Esso continua per un’altra pagina con altre ombre che si stagliano nel parco mentre in lontananza riecheggiano le note del Concerto n, 23 Adagio di Mozart, il brano, come si sa, tra i più carezzevoli se non il più carezzevole dei concerti di Mozart.

     Sogni simili sono descritti alle pagine 45-47 e alle pagine 79-80. Ma sono soltanto dei sogni che si apprezzano anche per la delicatezza con cui vengono raccontati. Sono sogni che ci trasportano al di là del tempo e dello spazio, che annullano il tempo e lo spazio così come la vita quotidiana ce li fa percepire. Un tempo immobile nella sua fluidità, nel suo trascorrere lento. Un tempo senza tempo.

Brevi considerazioni conclusive

       Quali conclusioni trarre da quanto si è detto? Intanto, va affermato con convinzione che il libro di Maiorana andrebbe letto da tutti, perché tutti siamo in misura minore o maggiore presi da turbe psichiche e che quindi non se può trarre che giovamento da quanto Maiorana ci segnala e segnala a se stesso (il protagonista, Julian, lo ricordiamo è il personaggio dietro cui Maiorana si cela, finisce col curare e guarire se stesso riconciliandosi con la vita, superando l’angoscia andando a vivere con Soleil e ritrovando così la sua pace, l’equilibrio e l’armonia interiori). Anima è inoltre un libro godibile sotto tutti i punti di vista. A parte il fatto che si è davanti a un romanzo complesso, come afferma Ubaldo Giacomucci in sede di postfazione, Anima, val bene ricordarlo, ricalca il titolo di un omonimo libro di James Hillman. Ciò non significa che si è davanti a una ripetizione. Anima è un libro unico, irripetibile, inimitabile. Unico anche e forse soprattutto perché Maiorana ha prodotto un giallo a lieto fine non perché come in tutti i gialli il colpevole del delitto viene individuato, ma perché ci affranca da tutto ciò che ha il sapore, rancido, della morte, da annoverare, come si è detto, tra quelli che curano, di Hillmaniana memoria; unico, infine, per la prosa poetica e la poesia che lo pervadono, per la levità di un linguaggio che è tutto da scoprire e da gustare.

      Come non accogliere allora il messaggio di Maiorana? come non fare nostro l’assunto che la bellezza emenderà il mondo, lo purificherà, lo guarirà e lo salverà? Tutta la vicenda narrata da Maiorana mostra che, sì, si può. Si deve, a parte l’augurio che un regista si accorga del libro di Maiorana e ne tragga un film. Il giusto dosaggio tra l’inevitabile lentezza di alcune scene e meglio visioni oniriche e le scene piene di movimento, concitate lo lascerebbero sperare.                                                            

                                                               V. R.




Cenni sulla poesia di Laura Ficco

         Le pochissime liriche, che qui si prendono in esame mediante una lettura attenta e coerente, sono tutte inedite. Per cui si richiamerà l’attenzione del lettore su una manciatina di versi, ripresi solo da due liriche. Troppo poche per scandagliare il complesso e articolato mondo poetico di Laura Ficco. Ma, anche l’attenzione un po’ più approfondita su una sola lirica richiederebbe una trattazione molto più lunga ed esaustiva. Mentre chiedo venia ai lettori per il poco, che riesco a offrire, ringrazio la poetessa per la fiducia accordata alla mia persona per quel poco, che riesco a esprimere. Colgo, quindi, l’occasione sia per complimentarmi con la poetessa per l’originalità e per la profondità dei temi affrontati con particolare sensibilità, sia per il privilegio di avere sotto gli occhi liriche che nessuno fino a questo momento ha avuto occasione di leggere, gustarne la bellezza, arricchirsi del messaggio, che, sempre vivo e attuale, veicola con purezza di immagini e sinteticità sintagmatiche. È, ancora, un’occasione unica sia per il lettore raffinato e intenditore di poesia, sia per quanti si accingono a leggere per la prima volta un aspetto della poliedrica sfaccettatura offerta dalla produzione poetica della poetessa sarda, che riflette nella produzione lirica l’assiduo ripiegamento, a volte doloroso, sulla complessa e travagliata vicenda del vivere.    

         Non è compito facile anche per un critico e un lettore attento tracciare anche per sommi capi le tematiche affrontate dalla poetessa, Laura Ficco. È arduo, se non impossibile, sfiorare i segreti moti dell’anima, che, di volta in volta, si concretizzano in versi scarni, taglienti come rasoi. Ogni verso è una picconata, che lascia tracce profonde anche nel lettore frettoloso e distratto. Penetrare nella genesi e nel travaglio interiore, che costituiscono la base e i moventi invisibili e inavvertibili dell’afflato lirico prima e successivamente scritto; scandagliare i reconditi avvii di un percorso poetico e lirico di rara suggestione, che coinvolgono e, nel medesimo tempo, travolgono il lettore nella meditazione sui temi più suggestivi della Poesia, non è agevole per le diverse implicanze culturali, sociali, filosofiche. 

      Leggere una lirica diversa, che non sgorga da romantiche illusioni o da triti argomenti riciclati o cicalati nei crocicchi, è prima di tutto un piacere spirituale, perché si incontrano spazi puri, cieli incontaminati, sentimenti, che denunciano un animo sensibile agli stimoli della più amara, e vera, riflessione sull’uomo, visto sotto angolature diverse. Nella poesia, essenziale e priva di orpelli retorici, di fronzoli inutili, di lungaggini senza senso, si avverte sincero e commosso l’animo lirico, che vive e crea sprazzi di autentica poesia, racchiusi in pochi versi, destinati a destare vive emozioni nell’animo del lettore e a lasciarvi segni indelebili. 

        La poetessa, però, non si ferma qui: la sua attenzione si sosta su più registri e cambia sensibilmente piano di lettura: dalla continua, e necessaria, presenza dell’uomo, passa con deciso movimento dell’animo alla natura, nella quale l’uomo vive e della quale è parte essenziale per il ruolo, che riveste, perché fornito di ragione e, in modo particolare, di libero arbitrio. Immersa nella riflessione sulla complessa, e inspiegabile, realtà dell’Uomo, colto nel suo ambiente naturale e vitale, la poetessa cerca in tutti i modi di scandagliarne con sensibilità prettamente femminile i segreti moti dell’animo. Ma, davanti all’insondabile mistero dell’esistenza, avverte la limitatezza e l’impossibilità di giungere alle cause prime dell’agire, dettate dall’egoismo e dalla cattiveria, e si chiede con lucida consapevolezza il perché di atteggiamenti e azioni non sempre consoni alla legge naturale, che vive nell’animo di ogni uomo: non danneggiare il prossimo, vivere nell’onestà, attribuire a ciascuno il proprio merito. Avverte in tutta la sua potenza la presenza della legge naturale, ma non riesce a trovare la ragione sui motivi, che spingono l’uomo a violare consapevolmente quanto è in lui impresso dalla natura, della quale è parte non secondaria. 

        La poetessa nell’assidua meditazione sull’Uomo, sulle cause prime delle sue azioni, della sua presenza e in modo particolare del ruolo, che ha nella società, non sempre riesce a trovare la spiegazione logica e si angoscia mediante versi molto vicini alla disperazione. Consapevole, a livello personale e universale, del limite imposto a ogni essere dalla natura, esprime questo stato con violenta protesta, per richiamare il proprio simile alla rettitudine, all’ordine stabilito dalla natura, alla presa di coscienza di essere parte della società, alla responsabilità del proprio ruolo: la poetessa, infatti, individua e descrive l’ordine, la regolarità, nonché la tendenza a interpretare i fenomeni più o meno complessi, presenti nell’ambito della vita sociale. 

     A queste osservazioni si aggiunge la vibrante denuncia determinata delle continue violazioni perpetrate a danno della legge positiva sotto varie forme. L’uomo sia per egoismo, sia per ignoranza sovente infrange in maniera eclatante la serie di norme, che la società civile si impone, perché siano rispettati i diritti di ogni essere partecipe d’una  determinata società. La poetessa, che vive e sperimenta tutte le dimensioni e le tensioni della società nella quale vive, non esita a denunciare con chiarezza e con decisione le deviazioni e le contraddizioni. È, questo, il motivo, per il quale lirica, intitolata Forme deformi, nella prima strofa non esita a riflettere e ad invitare a una seria meditazione:

L’essenziale imbrigliato alla ragione,

dalle forme disadorne ed imperfette della mente

cercano l’ordine logico

contrastato dalla ribellione

ad una droga maldestra ed umbratile

che attanaglia membra, cuore, psiche,

per poi lasciarla inerme

su terreno umido e melmoso 

con incubi sanguinolenti.

       L’acuta e, nello stesso tempo, amara considerazione della poetessa sembra che sfoci in un velato e latente pessimismo, che attanaglia l’animo, quando si vede invischiato nella ricerca di cause, che non sempre consentono alla ragione di cogliere l’intrinseca logica delle apparenti discordanze, riscontrate nelle più banali azioni dell’uomo. L’agire del quale, il più delle volte, non è dettato da particolari esigenze, né legato a un ordine logico, che ne determini tanto il motivo, quanto la conseguenzialità. È faticoso e spesso impossibile rintracciare anche pallidamente un nesso logico, che leghi in modo corretto e coerente l’atto della mente con l’azione compiuta sovente in maniera irriflessa. Questo modo di agire, anche se trova una giustificazione nella complessa logica della psiche, sfugge all’analisi razionale e getta nello scompiglio l’ordine e la logica stessa, che la mente razionale si aspetterebbe. Leggendo questo brano molto intenso e pregno di allusioni non troppo velate alle impossibilità e ai limiti della mente umana, sembra scorgere l’accorata, e vera, riflessione, che Dante in Purg. III, 37-39 mette in bocca a Virgilio:

State contenti, umana gente, al quia;

ché, se potuto aveste veder tutto,

mestier non era parturir Maria.

  Esemplare la presa di coscienza della poetessa, la quale, davanti all’impossibilità di cercare la spiegazione logica e razionale degli accadimenti umani, adopera una metafora di rara efficacia evocativa:

per poi lasciarla inerme

su terreno umido e melmoso 

con incubi sanguinolenti.

     Nel prosieguo dell’amara considerazione, si riporta la seconda pericope, che costituisce anche la seconda la seconda parte della lirica. In questa strofa Laura Ficco, a ragione, aggiunge ancora un’amara considerazione, logica conseguenza di quanto in precedenza espresso: 

Confusione d’identità

un velo oscuro mi veste,

è ermetico non riesco ad uscire,

a liberarmi.

Rimpiango le valli coperte di neve 

ed il vento che soffiava libertà sul volto

mentre l’anima volteggiava lucida e sazia di senno.

Mi devo svegliare ed uscire dal tunnel,

la vita mia attende.  

     L’intelletto razionale nella ricerca affannosa di conoscere le cause di ogni azione, nonché gli effetti conseguenti alle scelte effettuate, si trova impaniata in grovigli irrazionali, logici solo in apparenza, perché l’animo nella logica razionalità non sempre ha ben chiari e delineati i presupposti, sui quali riporre le argomentazioni necessarie per trarre logiche e valide conseguenze, applicabili sempre e dovunque. Ma, quando l’animo, cosciente dei propri limiti, si rende pienamente conto che il proprio essere è circoscritto entro confini difficilmente superabili, trova la piena realizzazione nell’integrazione totale nella natura. La poesia, come per incanto, acquista luminosità, sonorità, armonia. La poetessa schiude allo sguardo del lettore un mondo incontaminato, ammantato dal magico candore della neve. La vita riprende il suo ritmo, ravvivato dal leggero soffio del vento, che  suscita nell’animo le sensazioni più vive ed esaltanti. La poetessa con pochi tocchi, mediante un’accurata scelta lessematica e un’idonea disposizione sintagmatica, conduce all’improvviso il lettore nella dimensione panica e lo invita a respirare a pieni polmoni il bello, che la natura circostante gli pone sotto gli occhi. 

     Ma, quando attanagliato dalla logica conseguenzialità dei gesti ritorna alla logica stringente, avverte la limitatezza, si trova ancora su terreno umido e melmoso / con incubi sanguinolenti. Sgorga allora spontaneo e sincero il desiderio di uscire dal tunnel e di vivere la vita che l’attende. È, questo, un possente incitamento a guardare fiduciosi al futuro e vedere, accanto al male, il bene che si profila all’orizzonte. La lirica si chiude con il riscatto e la ferma fiducia a sperare che alla fine del tunnel ci sia sempre la luce, fonte di riscatto e di realizzazione.

       La poesia, che a volte sfiora l’ermetismo, diviene più intensa ed evocativa  quando si abbandona alla fantasia e richiama alla mente immagini e concetti adusi tanto al lettore, quanto al critico, che non deve penetrare nei reconditi penetrali della psiche, delusa e amareggiata, frustrata nei desideri e sopraffatta da incombenti necessità. Anche se qua e là emerge la presenza del dolore, la poesia diviene più limpida, più facilmente fruibile, come la lirica, intitolata Il silenzio dei filari.

        In questa poesia, densa e pregnante, si avverte un certo disagio del vivere a contatto con realtà non sempre piacevoli, che lacerano l’animo e procurano ferite, che non sempre il tempo riesce a rimarginare. La coscienza del dolore e, in modo particolare, l’impossibilità di uscire dal groviglio dei diversi malesseri, che avvincono lo spirito in una spirale senza fine, rendono i versi amari e, nel medesimo tempo, gradito companatico per affrontare i disagi, cui l’uomo durante la vita va necessariamente incontro. La vis vitalis tuttavia, sempre presente, soprattutto nelle occasioni più tetre, rende meno amaro il cammino, meno difficoltosa la via per affrontare il percorso reale tracciato dalla sorte. La poetessa con immagini vive, plastiche, suggestive, suscita nel lettore la coscienza della propria esistenza e lo invita a sollevare la testa, per affrontare quello che Eugenio Montale definiva male di vivere, perché accomuna tutti gli uomini nello stesso destino di sofferenza e di malessere. La poetessa, consapevole che questo destino grava su ogni uomo, è cosciente di non poterlo debellare, ma solo alleggerire mediante il progressivo distacco dalla realtà, sempre, e comunque, fonte di dolore. Come Montale, anche Laura Ficco prende le mosse da immagini quotidiane, dimesse, per porre all’attenzione del lettore il male, cui ogni giorno va necessariamente incontro. È opportuno, a questo punto, soffermare l’attenzione sui versi della prima strofa, per assimilare nella disposizione delle immagini il messaggio veicolato con lessemi oculatamente scelti e disposti in versi:

Filari di linfa

aggrappati a filo spinato

fobie in occhi di cenere,

lacrime arse

annaspano sulla soglia

del dolore.

Un rimpianto,

scava in anni luce

ricordi di delizie.

Smorfia su mute labbra

silenzio assordante

che trapana le meningi,

il tacere chiude la porta

alla vergogna.

Sale la febbre nella

solitudine dell’anima.

    Come già accennato la poetessa si china cosciente sulla vita d’ogni giorno e con parole vibranti di commozione partecipa al percorso che attende ogni uomo, dalla nascita alla morte. Gli uomini nel loro cammino quotidiano, mediante un ardita metafora, sono definiti filari di linfa / aggrappati a filo  spinato. L’immagine desta nella mente del fruitore la visione di una lunga teoria di uomini, che, a somiglianza delle viti, sono attaccati a un filo, perché non striscino per terra. A differenza delle viti, gli uomini fin dalla nascita sono attaccati al filo spinato dell’esistenza. Sono chiamati in causa qualche verso più avanti nel significativo e pregnante sintagma annaspano sulla soglia / del dolore. Nella strofa, divisa in tre periodi di diversa estensione, la poetessa condensa ed esamina con mente lucida e compartecipe gli ingredienti sottesi al male cosparso nella vita di ogni giorno. 

      La lettura di questa manciata di versi sembra collegare inconsciamente il lettore a quanto si legge nel libro della Genesi, dove, dopo il peccato, Dio dice ad Adamo che la terra gli produrrà triboli e spine. Nella lirica, però, emerge anche qualche sprazzo di gioia, che allevia per qualche istante le amarezze della vita. Ma il ricordo rinnova il dolore e lo rende più cocente, penetrante, lancinante se, mediante un efficace ossimoro, il silenzio assordante trapana le meningi. 

    Al ricordo delle gioie passate l’anima precipita nel baratro della disperazione e, per non rendere gli altri consapevoli dei propri travagli interiori, tace e chiude la porta / alla vergogna. 

     Si rileva, in questa strofa, la mancanza della fede, la carenza della speranza, la chiusura alla comunicazione e alla compartecipazione del proprio malessere. Si vive lo stato d’isolamento e l’uomo, chiuso in se stesso, non si rivela più l’essere sociale, che vive e condivide con il prossimo tanto le gioie quanto, e soprattutto, il dolore. Si può dire che Laura Ficco coglie e denuncia la brutta realtà dell’uomo attuale, il quale, nascosto nel suo guscio vive nella solitudine più tetra, perché si chiude sempre più nell’isolamento, dal quale stenta a uscire. Non a caso la poetessa chiude la densa strofa con un marcato segno di pessimismo: sale la febbre nella / solitudine dell’anima, che prosegue anche nella strofa successiva, chiusa dall’amara constatazione dell’abbandono anche da parte del Verbo, cioè da Dio: il Verbo mi ha abbandonato? In questo verso si avverte il grido lacerante e della solitudine e dell’abbandono. La poetessa, chiusa in se stessa a meditare sulle sofferenze della vita, non alza lo sguardo verso la luminosità del cielo e sulla luce, che pura e cristallina un’anima così sensibile potrebbe cogliere in tutto il suo splendore. È assente dalla limitatissima produzione lirica il tema della Provvidenza, la presenza del divino nel mondo, troppo materializzato e pervaso da egoismo e violenza. 

                                                          Orazio Antonio Bologna

da “Spiragli”, Nuova Serie – Anno IV 2023 NN. 1-2, pagg. 18-22




Carlo Bo e Jean Paul Sartre. Il cattolico sofferente e il comunista dissidente

        Ho avuto la grande fortuna di incontrare nella mia vita due grandi scrittori della cultura mondiale: Carlo Bo alla prestigiosa Università di Urbino e Jean Paul Sartre alla grande Università della Sorbona a Parigi.

      Carlo Bo, nato a Sesti Levante/Genova il 25 gennaio 1911, grande ispanista e francesista, critico letterario e politico italiano, è stato considerato uno dei massimi studiosi del Novecento in Italia; fondò la scuola per interpreti e traduttori nel 1951 e la IULM nel 1968,  con  sede principale a Milano, e per oltre cinquant’anni Magnifico Rettore dell’Università di Urbino cui è stata intitolata l’Università. Compì gli studi superiori presso i gesuiti dell’Istituto Arecco di Genova, dove ebbe come professore di greco Camillo Sbarbaro. Si laureò in  Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Firenze e iniziò subito la carriera universitaria, insegnando Letteratura Francese e Spagnola alla Facoltà di Magistero dell’Università di Urbino. Dal 1959 fu cittadino onorario di Urbino, dal 1972 fu Presidente della giuria del premio Letterario Basilicata e nel 1984 fu nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Collaborò per tanti anni al “Corriere della Sera” e al settimanale “Gente”. Fu insignito dell’Ordine della Minerva dall’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio”. Nel 1966 l’Università degli Studi di Verona gli conferì la laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere: Nel 2001 Sestri Levante gli conferì la cittadinanza onoraria, e lo stesso anno, in seguito ad una brutta caduta sulle scale avvenuta nella sua casa di Sestri, venne ricoverato all’ospedale di Genova, dove morì. Fu sepolto nel cimitero di Sestri.                   

        Con Carlo Bo, mio maestro di vita e di formazione, ho sostenuto la tesi di laurea in Lingue e Letterature Straniere proprio all’Università di Urbino su “Jean Paul Saartre et la polémique de l’engagement”. Due grandi scrittori a confronto, Carlo Bo, cattolico sofferente, e Jean Paul Sartre, comunista dissidente; il mio maestro scrisse il monumentale saggio “La letteratura come vita”, pubblicato sulla rivista “Il Frontespizio” nel 1938, ristampato nel volume Otto studi (Vallecchi, Firenze 1939), e il grande filosofo dell’esistenzialismo francese: “Qu’est-ce que la littérature?”, pubblicato in Francia dall’editore Gallimard, tradotto e pubblicato in Italia da Il Saggiatore: Che cos’è la letteratura?Letteratura come vita è di fondamentale importanza per Bo, fa comprendere le motivazioni profonde dell’Ermetismo, contiene i fondamenti teorico-pratico della poesia ermetica, e Bo lo pronunciò come manifesto al Quinto Convegno degli scrittori cattolici di San Miniato.

     Dopo sessant’anni Bo scrisse un grosso articolo sul “Corriere della Sera”: “Il critico deve tenere conto della vita dello scrittore oppure deve limitare la sua indagine soltanto ed esclusivamente all’opera? La questione è antica per il maestro di tutti, Sainte Beuve, la conoscenza della vita era più che utile, insuperabile. Per altri, a cominciare da Croce e da Proust, se ne  poteva fare a meno, anzi era bene stringere lo studio alla valutazione pura dell’opera”.

      Bo rifiuta l’idea di una letteratura vista come pratica abitudinaria o come esercizio professionale nel tempo libero, e la definisce come la strada più completa per la conoscenza di noi stessi e per dare vita alla nostra coscienza. La letteratura si identifica con l’io profondo del soggetto, risalendo alle origini centrali dell’uomo. La letteratura esprime la purezza dell’esistenza e l’indiscutibilità di valori, si propone come scopo esclusivo la ricerca della verità e per questo è una missione e non un mestiere. La letteratura recupera i significati profondi e primitivi della vita dell’uomo e, pertanto, non può che escludere ogni rapporto con la politica e con la storia. La letteratura contribuisce alla scoperta di un’identità che si allontana dalla realtà storica della società umana. La letteratura è ricerca  continua di noi stessi ed impegno quotidiano dell’uomo.

         In una lunga intervista il critico letterario Bo definisce Sartre il profeta della nuova letteratura francese, figura  poliedrica di filosofo e letterato, autore teatrale, romanziere e saggista. Dopo la lettura di un brano dell’autobiografia “Les Mots”, del 1964, Carlo Bo ricorda Sartre nelle vesti di direttore della rivista “Les Temps Modernes”, attorno alla quale si erano raccolti i migliori giovani degli anni Cinquanta, e parla della “moda del sartrismo”, che si diffuse in quello stesso periodo. Secondo Carlo Bo, Sartre è stato il primo a mettere in dubbio la necessità e il valore della letteratura, ponendo in essere provocatoriamente atti clamorosi, come il rifiuto del premio Nobel nel 1964.

        La letteratura è la vita stessa, ossia la parte migliore e vera della vita. Letteratura come vita, uno dei testi fondamentali e decisivi della nuova civiltà, la forza rovente della letteratura si misura per Carlo BO dalla sua potenzialità di accogliere la vita, di intervenire sulla realtà in forma di intervento morale, e da Letteratura come vita si diramano le fertili, sistematiche esplorazioni di Bo degli autori francesi, italiani e spagnoli, introducendo in Italia scrittori di alta tensione etica e poetica, come Kafka, Eliot, Maritain, Claudel, Mallarmé, Unamuno, Garcia Lorca, ossia quella letteratura che non si occupa delle vanità, della sola estetica, ma che tende alla formazione umana e presuppone una fedeltà continua alle proprie idee e ai propri ideali. Bo si chiede: «Che cos’è per noi la lettura se non tenere in mano questa parte viva della verità e consumarsi per non saperla restituire, che cos’è se non durare su questo oggetto chiuso e palpitante dell’animo?». La sua capacità di lettura è attentissima a cogliere in ogni testo la misteriosa presenza della poesia.

       Bo è rimasto fra i pochi a conservare integro il senso carico di assoluto delle domande brucianti, che investono, per voce dei poeti, i fatti fondamentali della nostra vita. Il suo interesse andava verso quella cultura cattolica che in Francia aveva espresso Pascal, prima, Maritain, Claudel e Mauriac, dopo; al contrario, la sua attenzione in Italia andava soprattutto su Leopardi, Serra, Don Mazzolari, Giovanni Testori e tanti altri. Bo, interrogato sulla questione morale e sulle ingiustizie sociali, rispose: «Siamo pronti a combattere contro l’ingiustizia e le questioni morali, tutto comincia da noi, il male che vediamo in spaventose forme esteriori ha un’esatta rispondenza nel nostro cuore».

      Jean Paul Sartre nacque a Parigi il 21 giugno del 1905. A solo quindici anni rimase orfano di padre, frequenta gli studi all’École Normale Supérieure, in  quegli anni conosce la sua compagna di vita, la scrittrice Simone de Beauvoir e insegna filosofia in  diverse scuole parigine fino al 1945. 

       Finita la seconda guerra mondiale, si dedica esclusivamente alle sue opere filosofiche e letterarie, tra cui i romanzi La Nausea (1938), I cammini della libertà (1945-1949). Per il teatro scrisse, tra l’altro: «Le Mosche» (1943), A porte chiuse (1944), Le mani sporche (1948), suscitando grosse polemiche e irritazione da parte del Partito Comunista Francese, per questo l’ho definito “comunista dissidente”.

       Nel 1945 fonda la rivista “Les Temps Modernes”, i cui principi fondamentali sono: la filosofia, la letteratura e la politica. Nel 1968 prende una forte posizione contro la politica francese in Algeria, schierandosi a favore dell’insurrezione studentesca. Nel 1964 rifiuta il Premio Nobel per la letteratura, suscitando tante polemiche e irritazioni intellettuali. Tra le sue fondamentali opere troviamo: L’Essere e il Nulla (1943), La critica della ragione dialettica (1960). Dopo una lunga malattia muore di edema polmonare a Parigi il 15 aprile 1980, ai suoi funerali partecipano oltre cinquantamila persone.

      Jean Paul Sartre, romanziere, drammaturgo, filosofo e critico letterario, è stato tra i pensatori più significativi del Novecento, rappresentante dell’esistenzialismo. Nel 1939 fu chiamato alle armi e fu fatto prigioniero dai tedeschi. Venne liberato nel 1941 e, tornato a Parigi, partecipò  alla Resistenza. Molto critico verso il gaullismo come anche verso lo stalinismo, si avvicinò alle posizioni della sinistra marxista, attirando sia le critiche dei comunisti sia quelle degli anticomunisti, arrivando ad una clamorosa rottura con Albert Camus. Prese posizione in difesa dell’Indocina, fu contro la repressione sovietica in Ungheria, a sostegno della libertà algerina e contro i crimini di guerra statunitensi nel Vietnam insieme a Bertrand Russel, fondando l’organizzazione per i diritti umani denominata “Tribunale Russel-Sartre”, e contro l’invasione della Cecoslovacchia.

     Il manifesto letterario di Sartre lo scopriamo nel 1947 quando pubblicò Qu’est-ce que la littérature, apparso per la prima volta sulla rivista “Les Temps Modernes”. La letteratura è lo spazio in cui scrittore e lettore dialogano, per mostrare quel tipo di letteratura impegnata nel suo tempo e contemporaneamente rispondere ai quesiti che Sartre pone proprio alla prima pagina del testo: «E poiché i critici mi condannano in nome della letteratura senza dire mai che cosa intendano per letteratura. La risposta migliore sarà di esaminare l’arte di scrivere senza pregiudizi. Che cos’è scrivere? Perché si scrive? Per chi scrivere? In realtà sembra che nessuno se lo sia chiesto».

       La prima di queste domande riguarda soprattutto l’atto dello scrivere, ossia quella forma d’arte che si differenzia dalle altre proprio tramite l’uso delle parole. Risulta chiaro il malessere vissuto da Sartre a causa delle critiche ricevute in tutta la sua vita. Ogni scrittore deve fare i conti non solo con i suoi lettori, ma anche con chi ha fatto della critica la sua professione; Sartre è ben consapevole di tutto ciò, non riserva parole generose ai propri avversari: «Mi è parso che i miei avversari mancassero di lena al momento di mettersi all’opera e che con i loro articoli si limitassero a trarre un lungo sospiro scandalizzato, tirato avanti per due o tre colonne. Mi sarebbe piaciuto sapere in nome di che cosa, di quale concetto di letteratura mi si condannava: ma quelli non lo dicevano, non lo sapevano nemmeno». Per la critica avversa a Sartre, tutto ciò che non rientra all’interno di una sfera di valori già costituiti crea in qualche modo scandalo. L’autore autentico e impegnato deve fare scandalo, ossia deve usare parole forti e urgenti. Il compito dello scrittore  è quello di parlare al lettore e scuotere la  sua coscienza.

      La lettura è, dunque, un esercizio di generosità e lo scrittore pretende dal proprio lettore un’applicazione della libertà, ossia pretende il dono di tutto il suo essere, delle sue passioni ed emozioni, dei suoi pregiudizi e della scala di valori. Scrivere e leggere sono due aspetti di uno stesso fatto di Storia, e la libertà alla quale lo scrittore invita il lettore, è una libertà che si conquista all’interno di una situazione storica. In questa attenta analisi compiuta da Sartre sul ruolo della scrittura, dello scrittore e di chi legge, risulta necessario indagare sulla tipologia di rapporto che si instaura tra scrittore e lettore. Tutto ciò appare talmente chiaro dalla lettura di Qu’est ce-que la littérature? Il concetto di littérature engagée si impose così sulla scena sia politica che letteraria, dopo essere stato formulato da Sartre nella presentazione di “Les Temps Modernes” nel 1945.                                        

                                                                                    Giovanni Ferrari

“Spiragli”, Nuova Serie – Anno IV 2023 NN. 1-2, pagg. 45-50.

 




Calogero Messina, storico della Sicilia e dei Siciliani. (Dizionario storico dei comuni della Sicilia, L’Orma, Palermo 2022-2023)

       Calogero Messina, pubblicando il Dizionario storico dei comuni della Sicilia, ha coronato il sogno di tutta una vita. Non era da crederci, e nemmeno lui ci credeva, eppure quel sogno, durato quasi cinquant’anni, è diventato realtà. Edito da L’Orma tra il 2022-2023, è un’opera monumentale (7 grossi volumi) che mancava da secoli, se consideriamo che il Lexicon topographicum Siculum di Vito Maria Amico, in 3 voll., fu pubblicato nel 1757/1760 e soltanto successivamente tradotto in italiano da Gioacchino Di Marzo nel 1855/1859. Tanti, per la verità, hanno nel tempo tentato l’impresa, ma non ci sono riusciti, fermandosi dopo qualche anno agli inizi di un lavoro che risultava abbastanza impegnativo e molto faticoso. Messina vi è riuscito, dando alla collettività un supporto indispensabile per la conoscenza della Sicilia e dei Siciliani con la loro storia (un quadro storico che non ha niente da spartire con le solite storie della Sicilia), gli usi, i costumi e il vario parlare, secondo le aree linguistiche più o meno influenzate dalle tante dominazioni che si sono succedute nell’Isola.
Apre il Dizionario l’ “Introduzione” dell’Autore che, dopo una breve premessa, scrive:

        «Quest’opera non si raccomanda a chi predilige le statistiche, le tabelle, i grafici; essa vuole essere soprattutto una storia e un documento del costume in Sicilia, osservato nella sua diversità nei comuni dell’isola: l’ho ricercato nel contatto diretto con la gente e attraverso la lettura delle consuetudini, degli episodi, dei gesti, dei modi di dire, dei proverbi, delle feste, della poesia popolare. Ho cercato di capire le idee e le attitudini, i comportamenti, gli umori degli uomini di questa Sicilia, così diversa nelle sue parti; di cogliere nella storia di un paese qualcosa di particolare, di proprio della sua vita. Sono stato sempre convinto che per intendere l’anima ed esprimere l’immagine di una società può valere più una nota di costume che un elenco delle successioni dei signori, il semplice gesto di un uomo comune più dell’enfasi di un notabile».       

      L’Autore non si tradisce! Così come in tutte le sue opere storiche o letterarie, il punto di partenza, il fine che si propone è quello di ricercare e conoscere l’uomo, perché lui, con tutto ciò che gli appartiene e lo caratterizza, è il soggetto della storia e la storia nel senso pieno del termine. La critica che rivolge a tanti storici di professione non è campata in aria, e dice bene Calogero Messina quando asserisce che a niente valgono le statistiche o i fatti di guerra, se non si cercano e mettono in evidenza tutti i contesti che ne sono alla base; la storia non risulta tale e non riscuote interesse, come se si fosse fatta da sé, senza alcun supporto da parte dell’uomo che invece ne è l’artefice. Ma il Nostro non asserisce soltanto; ne dà prova anche nella trattazione dell’ultima sua pubblicazione, Sicilia 1492-1799. Un campionario delle crudeltà umane (2022) e in modo specifico affronta l’argomento nel “Discorso sulla storia” che chiude l’opera, in cui ribadisce che lo storico «non deve perdere di vista l’uomo e deve guardare alle cose che lo riguardano nella loro interezza, a quello che c’è dentro, e parlare degli uomini agli uomini» (Sicilia 1492-1799, cit., p. 570).

                                                       ***

      Buona parte dell’“Introduzione” di questo Dizionario costituisce una storia della storia, perché altro non è che un resoconto dei contributi storiografici municipali della Sicilia pubblicati dal ‘500 in poi fino agli inizi del Duemila (Francesco Maurolico, Ferdinando Paternò, Filippo Paruta, Leandro Alberti, Vincenzo Littara, Rocco Pirri ed altri, fino a Virgilio Titone e allo stesso Messina), dando maggiore risalto all’opera di Tommaso Fazello, De rebus Siculis, in cui non soltanto l’autore narra la storia degli antichi abitatori della Sicilia, non trascurando anche i miti, ma descrive i paesi e ne dà notizie. Ancora prima – è importante per entrare nell’ottica di Calogero Messina – egli si sofferma a delineare il carattere dei Siciliani, suscettibile di variazioni da un paese all’altro e influenzato da quello degli antichi dominatori. Riporta, a proposito, il giudizio espresso diverse volte nelle sue orazioni da Cicerone che, essendo stato in Sicilia, anche da questore, conosceva bene l’animo dei Siciliani, intelligenti, acuti, spiritosi, come scrive nelle Tusculane o nell’orazione per M. Emilio Scauro, sospettosi, prudenti, scaltri, eruditi. Ne risulta che essi non sono un blocco monolitico, facile da potere gestire, ma nella loro apparente tranquillità imprevedibili. E Cicerone li conobbe e comprese bene, perché – come scrive lo storico – i Siciliani non erano della stessa indole dei Romani, «non furono interessati dalla loro passione militare né si entusiasmarono per i successi della politica imperiale; sperimentarono i rigori del loro dominio e non diedero che scarsi contributi alla loro cultura».
    Non così fu per altri popoli dominatori, come per gli Arabi e gli Spagnoli, di cui avevano in comune l’attaccamento alla terra o la compatibilità di carattere, mentre «odiarono invece i piemontesi e gli austriaci, soprattutto per il loro aspetto – l’aspetto influisce molto, ma spesso non se ne parla nelle storie -, la loro severità e il loro fiscalismo; li considerarono degli estranei a tutti gli effetti, per mentalità, tradizioni, per la lingua, ecc.».
      Riprendendo il discorso della storia municipale che introduce l’opera, il Messina esamina i contributi di tanti studiosi che, seppure con qualche manchevolezza, diedero inizio ad una “storia” (quella dei vari comuni), da cui veramente viene fuori il volto della Sicilia che tutti accomuna. Nonostante siano da evidenziare alcuni difetti, spesso dovuti a mero campanilismo, lo storico non critica negativamente, rifacendo l’errore ad altri rinfacciato («Più che i pregi gli storici hanno voluto mostrare i difetti e i limiti della nostra storiografia municipale»); riconosce che, come in ogni impresa, non avendo le idee ben chiare, agli inizi ci sono sempre delle incertezze e chiunque può sbagliare. L’importante è correggere il tiro e migliorare, cosa che è stata fatta negli studi successivi, ma a rilento, se nel xvii e xviii secolo si continuava a fare storia municipale come in passato. A proposito, sono menzionati alcuni autori (Vincenzo Auria, Agostino Inveges, Francesco Baronio Manfredi ed altri), ma a distinguersi tra tutti è Vito Maria Amico e Statella con la sua Catana illustrata, perché – scrive il Messina – «era uno che sapeva cosa significa fare le storie municipali».
       È l’autore del Lexicon topographicum Siculum sopra ricordato, in tre volumi, quanti i Valli in cui era divisa la Sicilia, pubblicati il i a Palermo nel 1757 e il ii e il iii a Catania nel 1759 e il 1760; è stato l’unico tra tanti che portò a termine un’impresa così impegnativa e tuttora molto utile. Il Messina, al pari di Biagio Pace, gli riconosce il merito di non essersi limitato alla singola topografia, ma ha raccolto notizie, testimonianze e documenti vari che danno un quadro della Sicilia e degli abitatori del suo tempo, aprendo così la strada ad altri ulteriori studi.
        Lo storico si sofferma più a lungo su Rosario Gregorio e le sue opere, di fondamentale importanza: Introduzione allo studio del dritto pubblico siciliano (1794) e Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti, in 6 voll. (1805-1816), in parte postuma, essendo l’autore morto nel 1809. Le pagine che il Messina gli dedica mettono in risalto l’apporto fattivo del Gregorio alle storie municipali, ritenute più costruttive e importanti rispetto alle storie generali, e il valore che hanno in sé le leggi per la conoscenza degli uomini e delle loro consuetudini. Leggiamo:

«Regola fondamentale per l’interpretazione delle consuetudini il Gregorio saggiamente riteneva che si tenesse presente che non tutte le costumanze sussistevano insieme e che erano state introdotte in diverse epoche: ce n’erano anteriori ai tempi normanni, altre in vigore in quel periodo e non più in quello aragonese, altre ch’erano state introdotte sotto i re aragonesi. Andavano dunque studiate con l’ausilio delle storie dei tempi, dei diplomi e degli altri documenti».

       Sulla scia delle Considerazioni di Rosario Gregorio, Messina rifà in sintesi la storia municipale dal Cinquecento al Novecento, dando risalto a quanti si cimentarono a scrivere sui loro paesi e città che intanto erano cresciuti di numero, specie tra il xvii e il xviii secolo. Insieme ad altri è ricordato Gioacchino Di Marzo con la sua traduzione del Lexicon di Amico; il Messina rileva l’apporto positivo, nonostante le manchevolezze («Ma tutto fa pensare a una fretta, propria degli anni giovanili, della quale per altro era cosciente lo stesso autore. Manca la storia civile»), ed è ricordato anche l’attrito fra Gaetano Di Giovanni e Luigi Tirrito su alcuni aspetti della storia municipale. Ne risulta che, mentre Di Giovanni cade in eccessi descrittivi, il Tirrito, attento ricercatore e vero storico, coglie nel vivo la realtà e la riporta in lavori che sono esemplari, come nei fascicoli di Sulla Città e Comarca di Castronovo di Sicilia (1873-1885), raccolti in volume e ristampati dallo stesso autore nel 1983, con un saggio introduttivo del Messina, che gli riconosce la capacità di osservare e riportare tutto ciò che fa parte della vita dell’uomo. E, insieme a questi studiosi, non tralascia i tanti ricercatori (N. Colajanni, V. La Mantia, S. Salomone, G. Di Vita, F. Nicotra, E. Castellana, I. Scaturro ed altri) che tra l’Ottocento e il Novecento diedero impulso alla storia municipale, recuperando quanto era stato trascurato nel passato, convinti che non si poteva fare storia nazionale, se non c’era e non si teneva conto di una storia locale. A proposito di Scaturro, Messina scrive:

«Lo Scaturro non fu né un puro impiegato né un semplice erudito. E perché non semplicemente erudita, la sua storia riesce di piacevole lettura; il suo primo pregio è la chiarezza e chiunque può ad essa accostarsi: l’autore fu del parere che le storie municipali dovessero essere conosciute a tutti i livelli, e da questa consapevolezza dovette essere certamente sollecitata la sua volontà di dare un’informazione essenziale sugli avvenimenti generali della Sicilia e anche dei più lontani eventi ai quali essi sono legati. Denunciò l’indifferenza dei suoi conterranei, l’ignoranza degli amministratori, l’insensibilità di certi preti nei confronti delle opere d’arte».

        Ignazio Scaturro aveva pubblicato in 2 voll. Storia della Città di Sciacca (Napoli 1924-1926), opera ben riuscita e apprezzata, nella cui Prefazione aveva rinfacciato agli storici municipali un diffuso campanilismo che non permetteva loro di vedere oltre e scrivere la realtà nella sua molteplicità. Come fa lui che, per avere un quadro completo, pubblicherà in seguito una poderosa Storia di Sicilia in 2 volumi (Roma 1950).
      Calogero Messina menziona altri studi in cui si cominciava a dare spazio a campi inesplorati, che erano un buon segno per l’avanzamento degli studi. Ricorda i Capibrevi di Gian Luca Barbieri, pubblicazione ultimata da Giuseppe La Mantia, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia di San Martino De Spucches ed altre opere ed autori che contribuirono notevolmente a fare conoscere aspetti poco noti o, addirittura, sconosciuti. Il Nostro non può non apprezzare questi contributi. «Da solo – scrive per il De Spucches – e in tempi in cui non c’erano gli strumenti che tanto agevolano la copiatura, trascrizione e riproduzione dei documenti, poté portare a termine il San Martino il suo lavoro: un esempio da imitare. L’opera ha i suoi difetti, ma più gravi ne avrebbe se fosse stata compilata da diversi autori».
      Lo storico, a questo punto, non può non ricordare Virgilio Titone di Riveli e platee del regno di Sicilia (1961), un’opera fondamentale per lo studio e la conoscenza della storia della Sicilia. Scrive il Messina che fino a quell’anno non s’era data importanza e addirittura erano in pochi a conoscere i riveli (F. Ferrara, F. Maggiore-Perni), ma nessuno s’era data la briga di mettere mano a tutta una marea di documenti vecchi di secoli. A spingere gli storici è stato proprio Titone, sicuro che soltanto tramite quella consultazione si poteva fare una vera storia della Sicilia, visto che nei riveli c’è di tutto (popolazione, commerci, averi e beni mobili ed immobili, usi e costumi, religiosità). Certo, allora come ora, non tutto ciò dichiarato rispondeva a verità, eppure i riveli sono utili per le varie indicazioni che da essi arrivano fino a noi. A commento Messina scrive:

«Resta la grande utilità dei riveli per le preziose notizie che se ne possono ricavare: sull’analfabetismo, sulla durata media della vita umana, sulla composizione dei gruppi familiari, sui quartieri e sulle chiese dei nostri comuni, sulle attività economiche, sul tipo delle abitazioni, delle colture, del bestiame e della pesca, delle botteghe, sugli utensili e oggetti vari, sui prezzi dei prodotti e degli animali, delle case. delle terre e degli alberi. Titone stimolava ad andare al di là degli schemi tradizionali, a esprimere il libero pensiero, a far parlare i documenti, anche i nudi numeri».

       Convinzione di Virgilio Titone, fatta propria dal Messina, è che dallo studio dei riveli municipali risulta chiara e vera la storia della Sicilia, non ad altro riconducibile, avendo i Siciliani, almeno fino a quegli anni, interessi e rapporti più nell’ambito del proprio comune che dell’isola. Non un popolo nel senso vero del termine, ma diversificato per usi, costumi e per aria linguistica di appartenenza.
          Nel 1972 veniva pubblicato il libro di Messina S. Stefano Quisquina, Studio storico critico e, a proposito, l’autore ricorda l’incontro e la conoscenza con Titone che non soltanto apprezzò il lavoro, ma lo volle con sé nella cattedra di Storia Moderna. Lo studio riscosse da subito il consenso di critici e cattedratici, a cominciare da Nicola Giordano che nello stesso 1972 gli dedicò una recensione nell’«Archivio Storico Siciliano», seguito da Francesco Brancato ed altri ancora.
      S. Stefano Quisquina è per gli storici municipali tuttora un lavoro da emulare per la serietà della ricerca e la minuzia dei particolari, sia storici che di costume, dalle origini al Novecento, successivamente ripresi e pubblicati, come «Lu recitu» di S. Stefano Quisquina (1973) e La Quisquina, dello stesso anno; scritti che rivelano, da una parte, l’attaccamento al paese natio del loro autore e, dall’altra, l’amore con cui dà voce a personaggi o eventi che altrimenti sarebbero rimasti nell’oblio e sconosciuti. C’è da dire che Messina riesce bene a calarsi nell’ambiente del suo paese e nei personaggi che lì vissero e fecero storia (Lorenzo Panepinto, Giordano Ansalone e altri anonimi che lottarono all’insegna dei Fasci siciliani), perché è uno scrittore, oltre che storico e poeta, che conosce bene quelle realtà e le descrive con tanta passione.
        Ritornando agli studi storici municipali degli anni ’70, oltre i lavori di F. Brancato, Messina ricorda quelli di Carmelo Trasselli e di Ignazio Gattuso che tanto fecero per la valorizzazione delle storie locali. Di Gattuso, che aveva conosciuto nell’Archivio di Stato di Palermo e di cui riporta gli scritti (quindici e tutti dedicati al suo paese, Mezzojuso), scrive:

«In questi quindici libri, come quindici capitoli di uno stesso libro, il Gattuso trattò delle origini di Mezzojuso, dei suoi signori, dei fatti risorgimentali, degli aspetti socio-economici, della demografia – utilizzò i riveli – , delle istituzioni civili e religiose – dei contrasti anche fra le due comunità etniche dei greci e dei latini -, della cultura, delle consuetudini, delle tradizioni popolari. Riuscì a fare di Mezzojuso uno dei paesi più conosciuti della Sicilia; la sua opera va annoverata fra i classici della storiografia municipale».

        A quegli anni risale anche l’apporto degli storici di «Annales» che fanno il punto sulla ricerca storiografica municipale, autonoma, qualitativa, ma aperta – secondo Paul Leuilliot -, con un vasto raggio d’azione e senza alcun condizionamento da parte della ricerca universitaria che avrebbe voluto «proporre, se non imporre, i suoi metodi». Messina legge e condivide il saggio Défence et illustration de l’Histoire locale del Leuilliot, dando risalto ai punti su cui gli storici locali dovrebbero basare le loro ricerche.
       Senza perdere di vista la ricerca degli storici siciliani, l’autore individua al tempo stesso un avanzamento degli studi con i lavori pubblicati nel 1979 da Giuseppe Gangemi e Rosalia La Franca (Centri storici di Sicilia. […], e nello stesso anno con quello di Maria Giuffrè (Città nuove di Sicilia xv-xix secolo […]), mentre il secondo volume, Per una storia dell’architettura […], fu pubblicato nel 1981 sempre dalla Giuffrè e da Giovanni Cardamone. Per chiudere ricorda Henri Bresc con il suo Un monde méditerranéen. Économie et societé en Sicile 1300-1450 del 1986, in due poderosi volumi, contenenti «un Index rerum, un Index nominum e un Index locorum» che «ne consentono un’agevole consultazione» e altri (A. Casamento, D. De Gregorio, E. Guccione) che con le loro opere «utili ed esemplari» hanno consolidato e aperto a nuovi traguardi la storia municipale della Sicilia. Del Can. Domenico De Gregorio sono da ricordare Cammarata. Notizie sul territorio e la sua storia (1986) e S. Giovanni Gemini. Notizie storico-religiose (1993), storie molto ricche di notizie, così come Cammarata. Cronache dei secoli xix e xx, ritenute frammentarie, con lacune incolmate e incolmabili dall’autore, ma importanti, perché – come scrive Messina in Il mio dialogo con il Can. De Gregorio (2014), p. 120 – «aveva la consapevolezza del significato e dell’utilità del suo lavoro […]. Le lacune incolmate e incolmabili non rappresentano un difetto del ricercatore, ma possono al contrario rivelare il suo scrupolo e la sua saggezza, come nel nostro caso».
      Scrivevamo all’inizio che, più che essere un’introduzione al Dizionario, questa di Messina è una storia della storiografia municipale. Essa, dando un quadro d’insieme della ricerca degli studiosi siciliani, ha aperto, nel silenzio e con i contributi di tutti, la strada alla storia della Sicilia e dei Siciliani i quali soltanto nella diversità costituiscono un unicum intraprendente e vero.

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       Esposta nelle linee di massima, ma in modo esauriente, la storia della storiografia municipale di Sicilia, Calogero Messina presenta il suo Dizionario nelle sei sezioni contemplate per ciascun comune, grande o piccolo che sia, con la relativa bibliografia, di cui si è servito per la stesura. Un lavoro certosino, di appassionato che niente tralascia, per dare veste unitaria al suo lavoro.
La prima sezione presenta ogni comune, con il nome in italiano e siciliano, nella sua collocazione e descrizione geografiche, riportando la distanza dal capoluogo, i comuni confinanti e le frazioni o contrade di appartenenza. Il nostro autore si è servito delle pubblicazioni dell’Istituto Nazionale di Statistica, del Touring Club Italiano e di quelle della regione Sicilia. Sono dati, questi, di cui non si può fare a meno e non resta che riportarli nella loro interezza e fedelmente.
La storia è oggetto della seconda sezione, dove viene affermato quanto già esposto, che, cioè, va intesa come esposizione della vita del popolo nel suo insieme, con gli usi, i costumi, le consuetudini che gli sono proprie. Scrive Messina:

«Quello che a me interessa cogliere, in Sicilia come in qualsiasi parte del mondo, nei piccoli come nei grandi centri, è, ed è stato sempre, il costume. Per questo una particolare attenzione è rivolta alle consuetudini e ho voluto riportare tutte quelle che sono riuscito a trovare […]. Le consuetudini, gli statuti delle maestranze debbono essere fra le cose da prendere in considerazione negli studi locali, ci riportano alla vita, ai rapporti sociali degli abitanti dei nostri comuni; svelano il costume, la mentalità di quegli uomini; ci ragguagliano delle attività, delle produzioni, delle necessità delle città; sono anche documenti del linguaggio, dello stile».

        In effetti, prendendo come esempio un comune qualsiasi, notiamo l’attenzione che presta ai particolari. Non è certo la prosopopea degli uomini che detenevano il potere, ma la vita che nel suo insieme svolgevano i paesani o i cittadini che da veri protagonisti agivano e operavano. Eppure non mancheranno tra i signori quanti si distinsero per opere di beneficenza ed altro, come l’assestamento e bonifica del territorio, le opere di beneficenza, d’arte e di difesa. Un esempio lo offre Carlo Tagliavia Aragona, principe di Castelvetrano, che diede un aspetto accattivante al paese, visitato anche da viaggiatori stranieri, tra cui Goethe, che «ammirò la ridente vegetazione della campagna; dormì in una misera osteria, nel cui tetto c’era una fessura, attraverso la quale gli apparve una stella» (p. 551).
        A leggere le varie voci del Dizionario viene da ricordare quanto scrive il Messina, dove afferma che la storia della Sicilia si conosce e si ritiene veramente tale attraverso quella dei suoi comuni, perché proprio questa ci fa entrare nel vivo, facendo conoscere particolari che altrimenti sarebbe impossibile conoscere. Riferisce dei signori, non tenendo conto delle loro gesta, ma quando le loro opere sono rivolte al bene comune. Sempre Carlo Tagliavia Aragona, oltre che principe di Castelvetrano, titolare di tante altre investiture, fece costruire la piazza Bologni di Palermo e il porto, così come migliorò quello di Marsala. Questo Don Carlo e così altri non sono nemmeno menzionati in tante storie della Sicilia, mentre qui e in quelle municipali acquistano un loro spazio ed emergono con la loro personalità e le loro opere. E insieme ad essi acquistano spazio gli uomini che, come le formiche, cooperano e costituiscono un aggregato che li distingue dagli altri e gode di una vita propria, differenziandosi anche nella lingua.

«La storia particolare dei comuni è vera storia: dove c’è l’uomo c’è storia. Le astrazioni, le generalizzazioni non aiutano a cogliere la verità delle cose, non spiegano i fatti, i gesti dell’individuo. La storia di un comune è vera storia, perché ogni comune è diverso dagli altri e in esso, per quanto piccolo e ignorato, c’è l’uomo che opera, l’uomo intero, e agisce in un determinato modo, in rapporto ad una società concreta, non astratta: ciò che per l’appunto è storia».

       Lo storico non tralascia niente. A proposito della lingua, dove può e ritiene necessario riporta documenti nelle lingue classiche e in siciliano. Nella voce Agrigento, per es., troviamo, datato 1304 e in latino, un documento di conferma delle consuetudini cittadine da parte di Federico iii e relative alle successioni in caso di morte; subito dopo inserisce alcuni capitoli in siciliano (28 maggio 1423), relativi al commercio della città, allora fiorente, presentati dagli Agrigentini al viceré Nicola Speciale. A seguire, datati 6 giugno 1426 e approvati dallo stesso viceré, altri capitoli relativi al costume (Supra li portamenti di li donni, Di la osservancia di li festi, Di li obsequii di li defunti, ecc.), dove, a parte la regolamentazione, si apprezza il siciliano del tempo, lo scritto che poi era la parlata di tutti i giorni con qualche aggiustamento dovuto allo scrivano, considerato in quel tempo persona colta e si apprezza anche la volontà del sovrano di imporre il siciliano come lingua scritta.
       Non mancano i riferimenti ai viaggiatori stranieri e, quindi, ai loro diari di viaggio, che non solo riportano e riferiscono dell’arte e delle bellezze di natura della nostra terra, ma sono anche veicolo di conoscenza degli usi e costumi dei nostri antenati. Goethe mangiò e poté gustare ad Agrigento i maccheroni, pasta che gli «è sembrata, per candore e delicatezza gusto, senza rivali». Usanze che si sono perse, di cui veniamo a conoscenza, grazie a questi documenti che sono preziosi per chi deve fare storia degli usi e costumi del passato. A buona ragione il Messina ritorna nei suoi scritti – ricordiamo Sicilia 1492-1798, oltre l’”Introduzione”, su cui ci siamo soffermati – al concetto di storia e insiste nell’affermare che non sono le date o le imprese a farla, ma la vita dell’uomo nel suo insieme.
      Questo Dizionario – come tutti gli altri libri di Messina – è costituito da un grande lavoro di ricerca, non soltanto fatto negli archivi comunali, ma tra libri e giornali che riferiscono e dedicano spazio a momenti di vita ormai lontani, e riportano a nostra conoscenza eventi, usi e costumi che fanno storia. L’autore, ricordando il “Fascio dei Lavoratori” del 1892, accenna al Pirandello de I vecchi e i giovani e, sempre a proposito di Agrigento, riporta un articolo di Gustavo Chiesi, dove il giornalista scrive delle condizioni della città e delle impressioni avute, quando nel 1890 la visitò. Così annota:

«La posizione, piuttosto incomoda della città sulla vetta d’un monte, a quasi 350 metri dal livello del mare, appartata, si può dire, per molti dal rimanente della Sicilia, a cui non l’univano che poche malagevoli strade mulattiere ed una mal sicura via postale, od il mare; considerata dai governi del passato nell’Isola, ed un po’ anche del presente, con occhi di noverca; limitata nell’espansione della sua attività[…], questo stato di cose dovrebbe esser sprone, in chi può e deve, ad incoraggiare, ad aiutare moralmente e materialmente, la nobile, se non la magnifica – come la dissero gli antichi – città, sulla via di quella graduale trasformazione, di quel progresso morale e spirituale, sulla quale, certa ormai due suoi destini e della fibra forte, laboriosa del suo popolo, si è messa, nella fede di non più arretrare» (ib. pp. 263-264).

      Se queste sono le considerazioni, non manca di apprezzare la vivacità degli abitanti e il vario cangiare del panorama «sempre nuovo e vario che la città presenta», da dove ammira non solo le bellezze e le antichità, ma si sofferma ad annotare particolari che fa piacere conoscere.
      Tutto torna utile alla conoscenza dell’uomo e di ciò che gli appartiene, ed è quanto a Calogero Messina interessa. Nella voce Santo Stefano Quisquina, suo paese natio, riporta un dialogo molto divertente e significativo dal giornale di Lorenzo Panepinto “La Plebe” del 20 aprile 1903, quando andavano forti le ideologie e aspri erano gli attriti fra le parti avverse. In contrasto con il contadino Peppi Romanu, socialista, è un predicatore, padre Emanuele Lauricella, che insiste nella condanna al socialismo, mentre l’interlocutore lo difende a spada tratta ed auspica tempi migliori per fare piena luce alla verità e alla giustizia. A più di un secolo di distanza ci tornano vivi questi personaggi con le loro idee e le loro speranze di un tempo migliore, sicuramente non quello di oggi, e chissà quando verrà!
       Sempre dalla stessa voce riprendiamo alcuni versi di Lamentu pi la morti di Lorenzu Panepintu di Giuseppe Albano (pp. 694-695), componimento oralmente tramandato e fatto proprio dagli Stefanesi che ricordano il loro concittadino che tanto si era battuto per la sua gente contro le ingiustizie sociali e ogni forma di sopruso.

       Lu sidici di maju a prima sira
lu tempu scuru e luna nun cci nn’era
l’empii scilirati e traditura
nun vosiru addumari li lampera.
      E complici cci su l’affittaiola,
magari genti di cancillaria,
lu diligatu cu lu brigateri
prestu ‘dda sira si jeru a curcari.
      Lu portafogliu cci scrusciva beni
ca foru abbivirati di dinari.
Pi ‘st’omu dottu leggi nnun cci nn’era
e mancu pi la pupulazioni […]
      Panipintu era un prufissuri
ca nni lu munnu nun c’era l’uguali;
di lu munnu miritava tantu onuri
c’a li populi vuliva cunsulari (ib., pp. 694-695).

       Il poeta popolare denuncia gli uccisori e le coperture per cui poterono agire e compiere il misfatto; ma denuncia anche le tristi condizioni della povera gente, abbandonata a se stessa e sfruttata dai forti, indifesa da chi avrebbe dovuto garantire la legalità e fare giustizia. Al tempo stesso ricorda l’opera del Panepinto e i benefici apportati, in termini di lavoro e di resa, tra i contadini di Santo Stefano e dei paesi vicini. Illuminanti, a questo punto, sono i lavori che il Messina ha dedicato all’illustre concittadino (Il caso Panepinto, Palermo 1977; In giro per la Sicilia con «La Plebe» (1902-1905). Un giornale dell’Agrigentino introvabile, Palermo 1985; Lorenzo Panepinto e il Fascio dei Lavoratori di S. Stefano Quisquina, in «Nuove prospettive meridionali», gennaio-dicembre 1993; I vendicatori, Rimini 1995; Il socialista scomunicato dai socialisti ufficiali, in Discorsi e scritti editi e inediti, Palermo 2023), di cui fino al 1977 gli stessi storici conoscevano poco e niente o appena il nome. Con questi suoi scritti il Nostro ha messo in chiaro la vita e l’opera di Panepinto, ormai conosciuto ovunque, ed ha fatto storia con la sua ricerca in archivi e biblioteche varie, calandosi nel personaggio con la disinvoltura propria dello storico. Così ha messo in evidenza l’uomo, il suo modo di essere, la cultura, e con questo, come sottofondo, il modo di vivere degli Stefanesi tra Otto e Novecento, con gli usi, i costumi e la loro parlata che sapeva, e sa ancora, di ancestrale.
        Dalle voci menzionate (Castelvetrano, Agrigento, Santo Stefano Quisquina), così come da tutte le altre che compongono il Dizionario, emerge chiaro che tutto concorre a fare storia. Ciò che il poeta popolare denuncia, potrebbe non rispondere in parte a verità, ma ciò non significa non tenerlo in considerazione. Scrive Messina:

      «Anche le cose false hanno la loro parte nella storia di un popolo e vanno ricordate accanto a quelle che comunemente si considerano vere; se un fatto si ritiene accaduto, va tenuto presente, anche se non è veramente accaduto […]. C’è di più: a volte la tradizione orale, popolare, e anche le opere della letteratura, le poesie e i romanzi compresi, possono essere più veritiere dei documenti degli archivi».

       Ciò si può costatare leggendo anche i versi sopra riportati. Giustizia per Lorenzo Panepinto non fu fatta; i colpevoli se la cavarono per i tanti cavilli giudiziari, quando in
13 paese tutti conoscevano gli esecutori e i mandanti, come il poeta che chiaramente li addita e condanna. Se ne ricava che effettivamente tutto ciò che riguarda la vita di un paese è storia e va preso in considerazione. La Sicilia stava vivendo un momento di grande tensione. Le idee di libertà e giustizia sotto l’egida del “Fascio dei Lavoratori” (1893) vi avevano trovato terreno fertile e grandi erano le aspettative della popolazione che rivendicava migliorie economiche e sociali.
       La terza sezione di ogni singola voce del Dizionario è dedicata alle chiese, ai luoghi di culto e alle opere caritatevoli. Anch’essa è molto interessante, fa conoscere non soltanto i luoghi di culto, ma anche la religiosità che caratterizzava quel dato comune, con i santi patroni e le festività ad essi collegate. Sicché l’opera è ben documentata e ricca di particolari, utile persino al cittadino o paesano che spesso non è a conoscenza dei beni culturali di cui dispone il suo paese o la città.
      Oltre ai monumenti, particolare cura rivolge alle chiese, con le notizie sulla loro fondazione e le eventuali ricostruzioni, ricordando anche i benefattori e i signori che nel tempo si interessarono a mantenerle fruibili, perché attorno ad essi effettivamente si svolgeva la vita di tutto l’abitato, ed erano centri di istruzione, non esistendo una scuola o, se c’era, era frequentata da pochi privilegiati.

       «Molte volte la storia di un paese s’identificò con quella della sua chiesa: dentro e intorno ad essa si svolgeva la vita dei suoi abitanti; era essa il punto di riferimento, la casa di tutti, dei signori e dei loro sudditi, dei ricchi e dei poveri. E osservando i quadri e le statue dei Santi cominciano da piccoli, di qualsiasi condizione, a prendere dimestichezza con l’arte».

Il Dizionario, così com’è strutturato, è interessante anche ai fini turistici. Il visitatore che vuole conoscere l’arte e i monumenti del paese o della città da visitare trova nella voce di quel comune ciò che gli torna utile, e non ha bisogno di guide, perché spesso non sono così ben preparate da soddisfarne l’interesse e la curiosità.
       La quarta sezione riporta i censimenti (dal Cinquecento in poi) e le attività economico-sociali. Per quanto riguarda i censimenti – avverte lo storico – non c’è di fare affidamento, perché non rispondono a verità e sono soltanto indicativi. Eppure – afferma – hanno la loro importanza, perché su di essi «si costruisce una verità e anch’essi hanno una loro storia».
       I numeri che vengono fuori sono puramente indicativi, mentre interessante è conoscere l’attività economica e imprenditoriale che vi si svolge. Ne viene fuori un quadro molto dettagliato e ricco di notizie che non fa che esaltare la produttività e la fertilità della Sicilia, anche se è triste costatare l’abbandono di tante terre, a causa di una politica agricola che non incentiva per niente il lavoro dei campi e le attività collegate. Eppure da quello che viene fuori dall’opera del Messina è che la Sicilia non è seconda a nessun’altra terra, capace di produrre di tutto (anche riso, come avviene a Piazza Armerina (En), o cotone, come nel passato), se fosse messa nelle adeguate condizioni di agevolare i contadini e di valorizzare le varie produzioni. Anche perché – asserisce lo storico -, ma ciò vale per la gran parte della Sicilia, «le risorse principali continuano a venire dall’agricoltura». A Castelvetrano (Tp), per es., si producono cereali, agrumi, vino ed altro, ma particolare incidenza ha la “nocellara del Belice”, nota ovunque per l’olio pregiato e le olive in salamoia; a Vittoria (Sr) la viticoltura e, come in altre parti, la serricoltura; a Pachino (Rg) il ciliegino, apprezzato ovunque.
        La quinta sezione ricorda gli uomini illustri che fanno onore alla terra di provenienza. A questo punto lo storico non manca di dare una tiratina d’orecchi a quanti nelle loro storie hanno elogiato uomini a loro vicini o, addirittura se stessi, senza alcun merito. Ma la Sicilia di uomini grandi ne ha sempre avuti, alcuni operanti nei luoghi natii, tanti altri in Italia o all’estero per necessità, e questo dall’antichità ad oggi. Basti sfogliare il Dizionario e il lettore se ne renderà conto, anche se sono menzionati soltanto coloro che hanno lasciato un’impronta che il tempo non potrà mai cancellare. Per avvalorare ciò, riportando da Agostino Gallo un giudizio discordante su Vincenzo Cutelli, che era stato vescovo di Catania, Messina scrive che i casi così equivoci sono innumerevoli, e perciò ha inserito e «menzionato sobriamente uomini che espressero qualcosa di significativo, che lasciarono un messaggio particolare, opere concrete dettate dall’intelligenza, dal genio, dalla fede».
        Facciamo alcuni esempi, ma a sfogliare una voce qualsiasi dei comuni siciliani il lettore può ben rendersene conto. Nella voce Palma di Montechiaro, oltre il pittore Domenico Provenzani e l’archeologo Giacomo Caputo, è anche menzionato Francesco Emanuele Cangiamila, palermitano, arciprete di Palma, che tanto s’adoperò per il bene spirituale e materiale dei cittadini, istituì opere di beneficenza e fece di tutto per dare assistenza medica gratuita ai bisognosi. «A Palma – annota lo storico – il Cangiamila fece praticare il primo taglio cesareo su una donna morta, salvando il neonato. Ma non fu appagato del suo impegno nel paese e nel 1742 rinunciò all’arcipretura” (., p. 469). A distanza di tempo Palma, riconoscente, gli dedicò una strada e una scuola.
      Palermo e Catania hanno una miriade di personalità illustri, molti dei quali sepolti nel Pantheon siciliano (Chiesa di San Domenico) o nella Cattedrale di Catania. Sono personalità di ogni ordine e grado (letterati, uomini politici, medici, re, come Federico iii, scienziati), che tanto fecero e spesero le loro energie per il bene di tutti.
     Modica, città natale di Salvatore Quasimodo, tra i suoi uomini illustri ebbe nel ‘700 Tommaso Campailla, poeta, filosofo, medico, autore di molti scritti, oltre di un poema, assiduo ricercatore e inventore della cosiddette “botti” (stufe di legno, vere e proprie botti di due metri circa, entro cui si facevano sedere i pazienti e da dove venivano fatti esalare fumi di mercorella), utilizzate per la cura della sifilide, della dismenorrea, delle artriti e delle infiammazioni in genere, che lo resero famoso in tutta Europa, tanto che ricevette la visita di George Berkeley, trovandosi in giro per la Sicilia sul finire del 1717 e fu in rapporto epistolare amichevole con Ludovico A. Muratori che gli offrì una cattedra all’Università di Padova che rifiutò.
     Calogero Messina menziona personaggi, di cui spesso non si conosceva nemmeno il nome, che diedero un grande contributo al miglioramento in senso lato della società siciliana e non soltanto. Basti pensare allo stefanese Lorenzo Panepinto, che tanto fece per strappare dalle grinfie padronali i contadini, ai tanti storici e filosofi che sulla scia del Rousseau affrontarono il problema dell’uguaglianza e della libertà, e ai tanti altri che fecero scuola nel campo delle arti e della scienza.
        La sesta sezione è dedicata alle tradizioni popolari. È l’ultima sezione, perché a chiusura segue la bibliografia (ricca e molto utile per chi vuole cimentarsi in lavori di ricerca).
       Città e comuni in questo Dizionario sembra che facciano bella mostra (e la fanno!) di ciò che hanno o producono, invitano a visitare e conoscere direttamente il loro patrimonio artistico-culturale e prender parte alle feste e alle fiere che ogni anno si ripetono, come da tradizione, molto belle e partecipate. Spesso il visitatore si trova senza saperlo coinvolto in una di queste feste e la gusta, preso dalla novità e dalla tradizione, come capitò a Gustavo Chiesi, già ricordato, che nel suo giornale riporta:

      «La vita e il commercio della città – di circa ventiduemila abitanti – si concentrano in questa via [via Atenea], che nei giorni festivi, quando accorrono per le provviste dalle cittaduzze e dalle borgate circostanti i contadini, coi loro vestiti caratteristici di sargia nera e di velluto, attillati, colle loro mantelline e i loro cappucci, prende un’animazione curiosa, singolare. Se poi, come a chi scrive, accade di capitare a Girgenti nel giorno di qualche speciale festività paesana […], allora vedi la via Atenea pavesata a bandiere marittime di tutti i colori e di tutte le nazioni possibili ed immaginabili e di tutte le segnalazioni portate dal codice telegrafico semaforico internazionale: con festoni di verdura tirati ad arco fra una casa e ed orifiamme d un’altra; cornicellesorreggenti una miriade di lampadine e lampioncini di carta per la luminaria alla veneziana; banderuole e stendardi ed orifiamme di carta da incendiarsi, da strapparsi dalla folla dei monelli , grandi e piccini, dopo il passaggio della processione, per finire degnamente il festino – che così in Sicilia son chiamate codeste cerimonie pseudo-religiose» (ib., p. 264).

        Si nota subito l’attenzione che il giornalista presta a usi e costumi della nostra gente ed è un piacere rivivere quell’atmosfera festosa, sapere che bastava poco per avere svago e vivere momenti di allegra compagnia, senza il frastuono assordante di macchine e motori dei nostri giorni. C’erano privazioni, ma c’era la vita che pullulava e si manifestava in modo genuino e bello. Altra storia, vita paesana, ma storia vera, a differenza di quella che è fatta da uomini spinti per interessi propri e di pochi altri.
       Ma Chiesi dovette assistere alla festa di San Calò, mentre l’altra, importante per i risvolti internazionali che ha, è la “Sagra del mandorlo in fiore”, che cadeva dentro la prima metà di febbraio. A farcela rivivere è lo stesso Calogero Messina scrittore, di cui riportiamo la parte finale, dove esalta l’uomo e, con esso, la storia. Ecco:

   «Il momento più atteso è ancora l’apparizione delle majorettes color fiore di mandorlo; sono del nord, ma stanno benissimo davanti al millenario tempio del sud, nuovi boccioli della bellezza e dell’amore, nella natura che si rinnova. Trionfano sempre ad Agrigento, anche se altri avranno il tempio d’oro. È la giovinezza di fronte all’antico, ma si fondono e parlano insieme; per questo i vecchi vogliono partecipare alla sagra e rievocano i loro anni lontani. Chi non pensa al passare del tempo? È inesorabile, tutto doma. Ma è un conforto per l’uomo sapere che dopo di lui torneranno ancora le primavere, i campi a fiorire, altre creature a vivere col calore del sole, ad amare, a sognare e a fare sognare.
       Anche la sagra finisce, si dirada la folla, partono pure le majorettes e lasciano i templi soli; dalla strada che sale da Porto Empedocle, si rivedono in alto, allineati e illuminati più del solito. Fortunati noi che possiamo vederli, immagini del tempo, dell’uomo, dell’arte, della speranza, della vita» (ib., pp. 277-278).

       Ma tante sono le feste, a cui i Siciliani sono stati sempre legati, e spesso dedicate ai santi patroni, protettori di paesi e città: Santa Rosalia a Palermo, Santa Lucia a Catania, la Processione dei Misteri a Trapani, molto noti, e così via; festini tutti con un’ultrasecolare tradizione, come quello che si celebra l’8 settembre a Palma di Montechiaro (Ag), dedicato a Maria SS. del Rosario, che ha la sua cappelletta nel locale castello chiaramontano, ricca di storia e di leggende, di cui si tramandano tante storielle, come quella di Dragut che nel 1553 non riuscì a portare via la statuetta. Ma la festa non finisce l’8 settembre, perché è ripresa quaranta giorni dopo Pasqua. La Madonna dal castello viene portata in processione al paese, «dove viene incoronata, e ripercorre le sue strade, acclamata dal grido “Viva la bedda Matri d’ ’u casteddu!” Le fanno la scorta i muli sfarzosamente bardati – la retina -. Una settimana prima dell’ascensione viene riportata, sempre in processione solenne, al castello» (ib., pp. 481 – 482).
       Una festa, questa, come le altre di tutti i comuni della Sicilia, dove si rispolverano usi e costumi della tradizione che, nonostante il lavaggio continuo di modernità a cui siamo sottoposti, entusiasmano tuttora e fanno rivivere momenti di vita che, se ormai lontani, non sono da dimenticare.

***

      All’inizio, scrivendo di questo Dizionario storico dei comuni di Sicilia, abbiamo detto che siamo dinanzi ad un’opera monumentale, e tale è per i 7 volumi che lo compongono e, soprattutto, per la ricchezza di contenuti e di particolari che vi sono immagazzinati. Per questo il suo autore ribadisce che le storie municipali non possono essere compilate da sprovveduti, ma da studiosi dotati di un solido bagaglio culturale, tenendo sempre presente l’uomo e il suo operato, qualsiasi sia il ceto di appartenenza, perché è lui – ripetiamo – che fa storia ed è storia.
      Calogero Messina, studioso di letterature classiche e moderne, storico e docente di storia all’università di Palermo, scrittore autentico e raffinato, poeta, ha consultato archivi italiani e stranieri, ha utilizzato documenti, capitoli scritti in latino e in siciliano antico; ha menzionato autori classici e moderni, ha dato se stesso per offrire e mettere a disposizione di tutti un valido e utile strumento di conoscenza e, al tempo stesso, un esempio di come si fa storia municipale, lui che – va ricordato – ne ha dato un saggio negli anni giovanili, quando – ricordiamo ancora – nel 1972 pubblicò S. Stefano Quisquina. Studio storico-critico, seguito da Lu recitu del 1973 (raccolta di canti campestri recuperati che tuttora vengono recitati dagli Stefanesi nella processione in onore di Santa Rosalia), ed ha continuato nel corso degli anni a darci tangibile prova del suo talento che onora la cultura e la terra delle origini, amata e ricordata in tante sue opere, come nella raccolta Sodalitas (1999), in cui, tra l’altro, c’è il componimento Lu me’ paisi, scritto nel 1978 e riportato nella voce Santo Stefano Quisquina (pp. 707-709), dove in uno dei suoi ritorni, così lo descrive ad un interlocutore immaginario:

Autu lu viri
appiccicatu a la muntagna
cu acchiana di Vivona.
Di supra Muntivernu
‘nfaccia a San Caloriu
ti spunta addummisciutu
‘nti ‘na vaddi Santu Stefanu.
E subbitu a lu Carvariu ti trovi
unni cci su’ du’ strati
e lu pinseri torna a lu passatu.

        Se in un primo momento al poeta sembra già pregustare la gioia di rivedere i luoghi dell’infanzia, dopo un po’ è portato a ricredersi, come se avesse avuto una repulsa, perché del paese di una volta non ha trovato nulla; tutto è cambiato, modificato, passato di bene in peggio, tanto da non riconoscerlo e non ritrovarsi a proprio agio. La modernità ha sicuramente portato dei benefici, ma ha peggiorato i rapporti umani, ha modificato in negativo e l’uomo tiene ad apparire piuttosto che ad essere. Questo produce al poeta tanto sconforto e con amarezza, rivolgendosi al paese che ha conosciuto, chiede:

Paisi miu,
terra di San Giurdanu e di Fra’ Vicenzu,
vallati e munti e cozzi
pridiletti di li Nurmanni
e rifugiu di li Santi,
unni su’ li travagliatura di un tempu
boni e rispittati,
ddi carusi beddi
chi aiutavanu a li patri
[…]
Nun cc’è cchiù ‘na fimmina chi famìa
o chi sapi dari un puntu
né cu la sira cunta un cuntu;
[…]
Scumpareru li gaddetti e l’oglialora,
li turduli, li frecci e li girialora.

       Calogero Messina, da storico e poeta, in Lu me’ paisi dà al lettore un compendio di passato e presente, riporta usi e costumi di una volta, e offre a quanti si accingono a scrivere del loro paese un valido esempio di come si fa con competenza e onestà intellettuale storia municipale.
                                                                             Salvatore Vecchio




Un viaggio particolare

     Non è di tutti i giorni trovarsi fra le mani un romanzo insolito, come La casa dell’Ammiraglio di Tommaso Romano, romanzo fuori dei consueti generi, una forma di scrittura utilizzata da pochissimi, molto originale, intima, capace di scandagliare uomini e cose.
    Fresco di stampa, edito da Culturelit nel maggio del 2020, La casa dell’Ammiraglio1 riprende, nell’interrogare e nell’interrogarsi dei protagonisti o del protagonista, Tempo dorato. Raccontare è raccontarsi2 (2014) e Oltre il sopravvivere3 (2019).
     Questi romanzi costituiscono una trilogia e sono attuali, se consideriamo il particolare momento del coronavirus che ha allarmato e allarma tante popolazioni; essi toccano il passato e lo strascico che si porta dietro, il tema della morte e il bello che resiste e sconfigge la morte stessa.
     Tommaso Romano che, oltre ad essere un poeta e scrittore, uno storico e ricercatore instancabile (si veda il ricco catalogo delle opere che spaziano da un sapere ad un altro), è un filosofo molto vicino a quanti si rifanno al nuovo umanesimo, Heidegger compreso, anche se un’ombra molto pessimistica, data da un modernismo spesso deleterio, offusca i buoni propositi e la vita autentica, intendendo con questo termine non tanto la negatività che può sottintendere, bensì quanto di buono c’è nell’uomo, non necessariamente dal punto di vista religioso.
      I romanzi sopraccitati hanno un filo di fondo comune, che si riallaccia all’uomo pensante, capace di gestirsi e, di conseguenza, agire, e lo mette nelle condizioni, sempre che lo voglia, di uscire dal “labirinto” e dal “deserto”, in cui si trova, argomento ripreso anche in un suo poemetto (Nel labirinto, nel deserto) edito nel 2019.
    Questi romanzi – ripetiamo – rispecchiano l’attualità. La quarantena, a cui si è stati forzatamente sottoposti e che è ancora in atto, se da un lato ha chiuso alle relazioni sociali, ha fatto ritrovare la nostra intimità o, perlomeno, ha permesso di riscoprirci e di leggere il nostro tempo, quello interiore che più interessa. Ebbene, se in Tempo dorato. Raccontare è raccontarsi l’io narrante, come in una retrospettiva, rivive il passato con un pizzico di nostalgia (la modernità ha agito su persone e cose, spesso, e il più delle volte, in senso negativo) e in Oltre il sopravvivere il protagonista, che è Marco Colonna, arriva alla conclusione che si può vivere, morendo, basta che si creino e lascino i presupposti (anche il laico Foscolo pervenne a questa conclusione), ne La casa dell’Ammiraglio, a dare una ri- sposta è il bello fine a se stesso, senza altri scopi, se non quello di dar vita e di gustare disinteressatamente cose e oggetti che ad occhi estranei non dicono niente, mentre a chi li possiede e custodisce, agli amatori, e nel nostro caso all’Ammiraglio, che è l’alter ego di Tommaso Romano, rivelano un mondo sconosciuto, aperto, visibile, comunicatore di verità e di conoscenze non facilmente acquisibili da tutti.
    Come si può notare, questo romanzo nasce da un’esperienza di viaggio particolare, limitato a luoghi familiari noti, carichi di ricordi e di oggetti, e ricco di elementi conoscitivi che danno vero senso alla vita. Da questo punto di vista, il suo personaggio si eleva e acquista una luce propria che lo mette in sintonia con sé e con gli altri.
      L’Ammiraglio, così è chiamato il personaggio, anche se in pensione, passa il suo tempo ora in famiglia, ma spesso e volentieri in una sua casa museo, nella “casanima” – come la chiama – addobbata di cimeli, quadri e oggetti acquistati nei viaggi e nei mercatini rionali di mezzo mondo. Per questo, aveva perfezionato lo studio della psicometria, «disciplina che indaga circa la capacità di captare vibrazioni inconsuete attraverso il contatto con gli enti materiali4».
    Egli si compiace del suo “tesoro”, lo ammira, standosene seduto, ora in una, ora in un’altra stanza, lo apprezza, e spesso si rivolge ai singoli oggetti, come se fossero viventi e li tiene in considerazione, meglio di stare con i suoi simili. Lo fa, tra gli altri, con Cometa, «la bella fanciulla di marmo, osservandola china a studiare con una matita in mano. Un marmo finemente scolpito da oltre un secolo, un marmo, non altro… 5 ».
     Di rado, negli ultimi tempi, il protagonista va anche in una sua vecchia tenuta di famiglia, dove, oltre a rispolverare tanti vecchi ricordi di persone care trapassate e oggetti che molto gli dicono, era convinto di ritrovare calma e riposo, come l’Autore scrive: «L’Ammiraglio decise allora, senza tanto riflettere, di recarsi in campagna, alla Colonia agricola. L’unico luogo in cui avrebbe respirato il silenzio e risenti- to il profumo del padre amatissimo, riascoltando nell’aria tersa il suo sconfinato amore per la terra e per Dio. Avrebbe così ripercorso ancora la fanciullezza, l’adolescenza, gli affetti familiari, i giochi innocenti, l’assenza di inutili sprechi, l’importanza della semplicità6».
    I ricordi gli affiorano come acqua di sorgiva. Il momento particolare che l’Ammiraglio stava vivendo nella “casanima”, il sentire gli oggetti e rivolgere ad essi la parola, qui tutto ha una continuazione ed egli trova gli appigli per andare alla soluzione. Ma è stupito, quasi non riesce a credere e vuole andare sino in fondo e conoscere. Di che si tratta? Nella casa di campagna avviene la stessa cosa che in quella di città. Oggetti e immagini gli si rivelano e parlano, gli confermano che anch’essi «sono come se cercassero la Verità», e che ogni cosa che vi si trova «è stata ricomposta, restaurata, riportata a dignità di vita estetica e spirituale».
    A parlargli nella Cappella della Colonia è prima una Madonna che, dopo averlo sollevato dalle perplessità («Gli oggetti che tu hai custodito qui e ti appartengono, sono come se cercassero la Verità, cose che possono parlare con te, perché tu credi nello Spirito, nelle potenze celesti, in Noi e nell’Eterno Padre7», lo esorta a continuare per la strada intrapresa. Poi è la volta di un pescatore di Capodimonte che ricorda con riconoscenza le cure e l’attaccamento dei precedenti possessori, nonché familiari dell’Ammiraglio, e si augura che, come «è stata ricomposta, restaurata, riportata a dignità di vita estetica e spirituale», possa ancora «continuare a vivere nel soffio dell’anima cosmica8».
   L’Ammiraglio, che nella “casanima” pensava fosse caduto in uno stato di allucinazione, qui acquista la piena consapevolezza di trovarsi dinanzi ad una realtà a cui non è facile approdare, e se prima rimaneva ad ascoltare, ora, da consapevole, si getta nella mischia, dialoga con gli oggetti, vuole saperne di più e andare sino in fondo. Perciò reagisce, e a Don Alessandro che lo mette con le spalle al muro con un aut aut, così risponde: «È questa la mia condanna: la ricerca della perfezione che mi manca e che ho tanto chiesto nell’illusione del primo bagliore alla luce della coscienza, disperdendomi in quella gnosi che non vive nel sottosuolo e che mi sono illuso di conoscere… ed io faccio i conti con tutto questo9».
    Se questa è la sua reazione-confessione, da ammiraglio qual è, il nostro non rinuncia, continua la ricerca con l’ardore di chi vuole «seguir virtute e canoscenza». Come un Ulisse moderno, non desiste, continua per la sua strada che non ha niente di materiale e di effimero, non riguarda l’estetica kirkegaardiana e neppure la scelta, perché ha già scelto. Egli è risoluto a ricercare il bello che è nelle cose e nella vita, incurante degli altri che, per lo più, si attaccano all’esteriorità e al caduco. Eppure s’interroga e interroga, e non è una malattia la sua. Glielo confermano Bellanti e Nuaranti, due amici esperti che lo rassicurano e gli consigliano di continuare a fare e ad agire come ha sempre fatto, senza venir meno al suo stile di vita. La sua non è una malattia, come gli aveva diagnosticato «l’esimio erudito professore De Tullio10», ma «un peculiare dono dall’Alto11», che va custodito e fatto proprio. Cosa che farà l’Ammiraglio, quando, dopo il colloquio con l’Angelo, in una «visione lucente, eppure reale», in un «tempo senza tempo». dice: «Ho compreso che lo Spirito soffia dove vuole, ho visto lo straordinario, ho sentito le voci dell’anima che in voi hanno avuto l’Eco della comprensione e della compassione anche per me, in queste stanze che tanto ho amato e amo. Ho compreso. […] So che resterò con voi, angeli e cose, dato che nel Cosmo è iscritta la mia anima, libera, ora, da ogni pesante contingenza e necessità12».

    La casa dell’Ammiraglio è un libro avvincente, ricco di pathos, che scopre verità elementari, ma per questo trascurate o non prese in considerazione dalla stragrande maggioranza degli uomini. Il pro- tagonista, pur mantenendo relazioni con gli altri, ha una propria visione del mondo che soddisfa l’anima e il corpo; non toglie niente, non va oltre l’umano, anzi lo realizza, non perdendosi nella materialità, dando un senso estetico e spirituale alla vita che è ciò che conta. È un romanzo rivelatore della condizione umana che fa i conti con la realtà odierna e l’Ammiraglio non l’accetta per il negativo che vi predomina; non dà consigli, non si erge a maestro, ma dà un esempio di vita con il suo operato e lo realizza come un sogno fatto di credo e di perseveranza. Non è un sentirsi altro il suo, un superumanismo di dannunziana memoria, ma una rinuncia all’omologazione che mortifica e rende insignificanti. Egli aspira a  vivere in armonia con i propri ideali che alla fine riesce a realizzare.
     Il romanzo si snoda come una radiografia del vissuto dell’Ammiraglio in una forma lineare intrisa di spunti psicologici, filosofici, letterari, artistici, con immagini visive e con introspezioni che lo rendono movimentato e ricco di approcci. Ci sono richiami che si rifanno alla filosofia antica e moderna, a scrittori italiani e stranieri dell’Otto e Novecento, oltre che ad artisti e uomini di assodata cultura. C’è, insomma, tutta la conoscenza artistica e culturale di Tommaso Romano, quasi, possiamo dire, filtrata, per non appesantire la struttura dell’opera, molto originale, unica nel suo genere.
    Anche altri autori italiani e stranieri hanno scritto opere ambientate in un luogo circoscritto con descrizioni e riferimenti personali. A proposito, ricordiamo Xavier de Maistre con il suo Voyage autour de ma chambre13, molto originale, scritto perché impedito nella libertà personale. De Maistre descrive, dialoga, immagina, ma rimane nell’ambito dei ricordi. Persino quando riferisce il battibecco tra corpo e anima è il corpo ad avere la meglio. Quello di Tommaso Romano è un viaggio particolare, tutto interiore. Anche se qua e là ci sono dei contatti con altre persone e fuori del suo mondo (la “casanima”, l’abitazione di famiglia, la casa di campagna, l’albergo), il punto focale è sempre lo stesso: la «ricerca della bellezza quale sostanza dell’infinito, della grazia e dell’armonia, un segno di fede e verità14».

    La casa dell’Ammiraglio, da questo punto di vista, è una novità letteraria, un viaggio che non cede alla materialità. Ripetiamo questo concetto, perché lo sguardo del suo autore è rivolto al bello che, se è tale, rimane sempre bello, e verso l’Alto, che nobilita e dà adito all’immortalità. In sostanza, così pensando e facendo, si è librati in uno spazio senza tempo, dove tutto è armonia e vita interiore. Questo non significa esularsi dalla realtà, ma non accettarla per com’è, volerla, attraverso l’arte e un ritorno alla spiritualità, più vivibile, renderla meno degradata, umana, nel senso pieno del termine. Presi, come sono, da un modernismo aberrante e da una grave crisi di valori, gli uomini spesso non si rendono conto del male che procurano a sé stessi e all’ambiente in cui vivono. L’Autore, in linea con altri pensatori, sostiene un ritorno all’umano, ma, a differenza di tanti, è fiducioso e spera, come il protagonista, in un cambiamento di rotta per un mondo migliore.
    Questo nuovo romanzo di Tommaso Romano è un’ondata di frescura che dà sollievo al corpo e all’anima. È un romanzo da leggere, non solo per i molti interessi che suscita, ma perché infonde fiducia nelle potenzialità dell’uomo che, se vuole, può cambiare il mondo e stare bene con sé e con gli altri; inoltre, apre a prospettive inconsuete nel panorama letterario del nostro tempo.

Note
1 T. Romano, La casa dell’Ammiraglio, Palermo 2020.
2 Id., Tempo dorato. Raccontare è raccontarsi, Palermo 2014.
3 Id., Oltre il sopravvivere. La storia singolare di Marco e Maria Selene (Con una nota di F. Lo Piparo), Palermo 2019.
4 Id., La casa dell’Ammiraglio, cit. p. 15.
5 Ivi, p. 49.
6 Ivi, p. 90.
7 Ivi, pp. 97-98.
8 Ivi, pp. 102, 104.
9 Ivi. p. 122.
10 Ivi, p. 87.
11 Ivi, p. 159.
12 Ivi, pp. 170-171.
13 Xavier de Maistre, Voyage autour de ma chambre, 1794 (Trad. di G. Montani, 1823).
14 T. Romano, La casa dell’Ammiraglio, cit. p. 19.
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, Nuova serie, anno I, n. 2, 2020, pagg. 6-9




Storia e poesia nelle opere di Calogero Messina. A proposito di «Sicilia 1492-1799»

     A distanza di trent’anni da un mio scritto su Calogero Messina (Calogero Messina, scrittore delle attitudini umane, «Spiragli», A. I, n. 3, 1989), torno ad occuparmi di lui per esprimergli l’apprezzamento per il volume Sicilia 1492-1799. Un campionario delle crudeltà umane. Con un discorso sulla storia. Una nota di Cristina Barozzi, edito da L’Orma, Palermo 2022.
     Calogero Messina, lontano – come sempre è stato – dai fracassi del nostro tempo, è uno scrittore che preferisce interrogare i tempi passati per scoprirsi e riscoprirsi ancor più autore moderno, molto attento e scrupoloso. E andando, appunto, a quel mio scritto, confermo ancor più quanto scrivevo, definendolo scrittore delle attitudini umane.
     In quel saggio (si può anche leggere nel sito www.rivistaspiragli.it) fui tra i primi a presentare l’uomo e lo scrittore ad un pubblico più vasto, cogliendo già nel Messina la caratteristica di fondo della sua ricerca tesa ad evidenziare l’uomo o, meglio, ad estrapolare dai fatti l’uomo e il mondo entro cui tuttora vive ed opera; sicché, a differenza di tanti storici che si fermano a riportare la facciata, cioè, fatti e dati che nel tempo si susseguono, egli dà risalto ai fattori che con i loro pregi e difetti li caratterizzano. Ed è ciò che maggiormente conta, se si vuole conoscere la realtà in cui da sempre l’uomo si è mosso e si muove.
     Questo approccio che caratterizza la ricerca di Messina si nota già negli scritti di carattere municipale e rivolti verso le piccole comunità, e fin dall’inizio della sua carriera di ricercatore si è distinto per i contributi dati in questo campo. Ricordiamo: S. Stefano Quisquina. Studio storico-critico (Palermo 1972); Il contributo di Ignazio Scaturro alla storiografia municipale: oltre l’erudizione, pubblicato in «Archivio Storico Siciliano», 1982; la riedizione di Sulla Città e Comarca di Castronuovo di Sicilia di Luigi Tirrito, a cura e con un saggio introduttivo e aggiornamento di C. Messina (Palermo 1983).
Ma non si è fermato qui, perché, oltre ad altri scritti, sulla scia di Vito Amico, a lui si deve una monumentale opera (sono in fase di pubblicazione i volumi quinto, sesto e il settimo ed ultimo volume), dove mette in risalto in maniera più capillare e metodica quanto scritto sopra; si tratta del Dizionario storico dei comuni di Sicilia, nella cui introduzione il Nostro, a proposito delle dominazioni straniere in Sicilia, scrive:

     «[…] quello che interessava ai siciliani non era da dove venissero i dominatori; li giudicavano dalla misura in cui rispettavano o contrastavano il loro modo di vivere, le loro abitudini, i loro personali interessi, quello che più loro importava; per salvaguardare i loro interessi, non esitarono ad invocare il cambiamento, a sollecitare nuove conquiste» (Il mio dialogo con il can. De Gregorio, Palermo- Paris 2014, p. 139).

***

    Nato a S. Stefano Quisquina, dopo la scuola media, la sua famiglia si trasferì a Palermo, perché Calogero potesse continuare gli studi verso cui era portato. Ricorderà questo particolare, insieme con altri dei suoi primi anni con tanta nostalgia (l’amore per i suoi e, in particolare, la dedizione per il padre), nelle pagine di prosa e poesia tra le più belle e riuscite di tutta la sua produzione letteraria e poetica, ricche di pathos e di dedizione al luogo natio e ai suoi, del libro Emigrati a Palermo del 2009. Qui, insieme con i ricordi, scrive dei suoi interessi culturali, della sua attività e degli incontri con gente comune, umile, che tanto gli dava in fatto di conoscenza e svolgimenti di fatti esituazioni del suo paese, ma anche con personalità del mondo letterario isolano e con religiosi, come quello particolare con il Canonico Mons. Domenico De Gregorio, con il Card. De Giorgi in occasione di un suo discorso o quello con l’arciprete Mons. Antonino Massaro, ricordato poi in Il mio amico l’Arciprete (Palermo 2017).
     Dopo avere frequentato il liceo e conseguita la maturità, Calogero s’iscrisse alla facoltà di lettere classiche di quella Università, allievo di Giusto Monaco e del grecista Bruno Lavagnini che lo volle premiare con un viaggio in Grecia. Conseguì la laurea con una tesi su Calpurnio Siculo, studio pubblicato e molto apprezzato da filologi di fama internazionale, come Pierre Grimal, Raul Verdière e altri. Ma già, da studente, insieme con Calogero Cangelosi, aveva pubblicato il suo primo libro, l’antologia Motivi del nostro tempo (1968), mentre un’altra, Voci di Sicilia, la pubblicò nel 1973. Ma, a questo punto, cedo la parola all’editore di altri tempi, nonché scrittore, poeta e abile traduttore dal portoghese, il compianto Renzo Mazzone, che in una Nota, pubblicata come postfazione nella silloge Una luce nella notte. Con musiche di Filippo Messina (2010), ricorda quell’incontro.

     «… Messina, promettente studente universitario, mi portò le sue poesie per l’antologia Motivi del nostro tempo (1968), il suo primo libro. Erano gli anni della contestazione, li ha ricordati l’amico Salvatore Vecchio, rievocando in particolare il suo antico rapporto con il nostro autore: “Sono ormai lontani gli anni caldi del ’68, quando negli androni della sede centrale dell’Ateneo palermitano parlavamo di poesia e di poeti, di progetti e di iniziative che ci avrebbero visti costantemente impegnati”. E mentre, continua Vecchio, “amici e colleghi, come un gregge di sbandati (nel frattempo la Facoltà di Lettere era stata trasferita nell’attuale cittadella universitaria), vivevano quei giorni del ’68 palermitano girovagando e discutendo per i corridoi”, un gruppo di giovani che avevano qualcosa in comune – il nostro Messina, Calogero Cangelosi, lo stesso Vecchio e altri “studiava la possibilità di pubblicare un libro, Motivi del nostro tempo»(Calogero Messina scrittore delle attitudini umane, in “Spiragli”, luglio- settembre 1989).

     Il Nostro insegnò per qualche anno latino e greco al liceo, ma Virgilio Titone, che molto aveva apprezzato lo studio S. Stefano Quisquina (1972), lo volle con sé nell’Istituto di Storia Moderna. Il Messina da quel momento divenne l’amico e il prediletto del Maestro che lo avviò ancor più sulla strada della storia, senza peraltro distoglierlo dalla sua passione per la letteratura e la poesia. Ed è quello che lui ha fatto e continua a fare, rivelandosi ora filologo, etnologo, agiografo, ora viaggiatore instancabile e diarista alla pari dei viaggiatori moderni, ma in queste sue sfaccettature affiora sempre lo storico e il ricercatore attento che dà risalto all’umano che è in noi, a quello di ieri come di oggi, facendo emergere sempre lo scrittore e il poeta, perché nelle opere del Nostro lo scrittore e il poeta vanno di pari passo e di ciò che ostico riesce nella narrazione, se ne fa carico la poesia, più adatta, perché (avremo modo di specificarlo ancora) sa meglio esprimere l’universale.
     Delle raccolte di poesia ricordiamo: Iuveniliter e Noviter, entrambe pubblicate ad Amsterdam nel 2003; Sodalitas (Palermo 1999); Au revoir Paris, con traduzione francese di Evelyne Hubert (Paris 2007); Una luce nella notte (2010). Ma il lettore del nostro poeta troverà poesie nelle altre sue opere, siano esse di storia o di racconti. Si legga, ad es., il già menzionato Emigrati a Palermo (Palermo 2009), dove alle esperienze di vita e al ricordo del padre dedica versi di forte pregnanza affettiva e di dedizione che parlano al cuore e si fissano nella mente, come “luce” che continua ad illuminare la “notte” dell’esistenza, volendo parafrasare Una luce nella notte, cit. Perché tutta la poesia di Calogero Messina è una poesia parlata: tu senti la cadenza, e ti tocca e ti lascia un segno profondo e duraturo. Non c’è in questo libro, come potrebbe sembrare a primo acchito, alcuna variazione di tema, è tutt’un poema rivolto al padre morto, a cui era molto legato e con cui continua a colloquiare, nonostante il decesso e il tempo che scorre, entrambi inesorabili; e i componimenti che danno vita a questo poema sono di una liricità che scuote il lettore e lo fa rientrare in sé e riflettere. Si legga, ad es., Il mio lamento, che è un poemetto, dove il poeta, ricordando nella prima parte i sofferenti e quanti sono impediti a vivere nella normalità («Ma ditelo a chi da troppo tempo / è buttato nel fondo di un letto / e non riesce più a staccarsi da esso / e sa che non potrà mai guarire. / Ditelo ad una povera vedova / abbandonata dai propri figli / quando più aveva bisogno di loro; / in loro aveva tutto riposto / e ora non trova il senso del suo vivere, / le sarebbe bastato vederli»), sconfessa chi afferma che la vita è bella, mentre nella seconda parte in modo più specifico rivolge il pensiero al padre ed è immerso nei ricordi che glielo portano davanti nei luoghi spesso frequentati.

Con lui al mio fianco
mi piaceva tornare ai nostri monti
e sostare a cogliere le verdure
a ricercare gli asparagi scontrosi;
non riesco ora a riguardare i luoghi
rimasti nella mia mente impressi
mi dicono molto di lui.
Lo vedo dovunque io sono
e la sua voce ritrovo se parlo
le tracce del suo volto nel mio,
[…]
Comporta la morte la vita
è sempre l’attesa del suo finire
e chi può essere felice
 sapendo che finirà?
 e nulla resterà nelle sue mani
 e tutto ricoprà l’oblio
per sempre.   

     Grande è lo sconforto del poeta che sulla scia dei classici dà una lezione di vita veritiera e umana, tanto umana da scuoterci e farci pensare, perché tutto cambia. Cambiano persino i colori del mandorlo in fiore che per il poeta ormai non sono più quelli di una volta («A me ora tessono un velo nero / quei fiori bianchi e rosati / e di esso si ricopre tutta la valle») e cambia la vita dell’uomo, specie quando viene a mancare per sempre un proprio caro.
    I ricordi che ci portiamo dietro sono una caratteristica della poesia del Messina, così come della sua prosa. Si leggano, ad es., i racconti di Il mandorlo in fiore (1993), che riporta anche alcuni resoconti di viaggi, o di La casa di mio nonno Calogero (2016), che prende titolo dal racconto omonimo e preannuncia il contenuto degli altri, dove emergono uomini di altro tempo dediti al lavoro, alla famiglia, al rispetto reciproco. Il libro è tutt’un pullulare di ricordi, un’immagine della Sicilia e di figure ormai scomparse ma che continuano a vivere grazie alla penna dell’autore. Il vecchietto che ammira il lavoro delle formiche, e lo paragona a quello degli uomini con tanto di differenza, o la figura del Panepinto, rimangono impresse nel cuore e nella mente dei lettori. Il tutto a conferma di quanto scrive sulla poesia: «Se volete conoscere l’animo di un uomo, non cercatela nei suoi gesti, nelle sue azioni, ma nelle sue espressioni sincere, nella sua poesia» (Sodalitas, cit., p. 111), che è la ripresa di un discorso aperto nel 1973, quando pubblicò Poesia e critica, a cui rimandiamo.
     Per conoscere ancora meglio l’uomo e lo scrittore Messina, è interessante il saggio di Vittorio Riera, Calogero Messina e il Can. Domenico De Gregorio. Progetto uomo (Palermo 2017). Ma chi volesse conoscere altre notizie, critiche o eventi in cui il Nostro fu protagonista, rimandiamo al volume Calogero Messina e le sue opere. Notizie, opinioni, immagini 1968-2018, a cura di M. Madeleine e C. Barozzi (Paris 2018).

***

     Il periodo storico preso in considerazione in Sicilia 1492-1799 è stato altre volte oggetto di ricerche e di studio di Calogero Messina. A testimoniarlo sono tanti altri suoi scritti storico-letterari, perché – come è stato altre volte scritto – il nostro autore è uno scrittore e poeta che ha un particolare interesse per la storia, tema principe fra i tanti trattati. Al 1986 risale il già ricordato Sicilia e Spagna nel Settecento, con prefazione di M. Ganci, ma ancora prima, nel 1980, aveva pubblicato il saggio Settecento italiano classicista e illuminista, sconfessando tanti studiosi che si erano interessati dell’argomento e che continuavano ad inquadrare e separare i classicisti dagli illuministi, dimostrando il Messina che si poteva essere classicisti e illuministi nello stesso tempo, come si evince dagli autori che studia e riporta. A questi va aggiunto il saggio I viceconsoli di Francia in Sicilia del 2001 più sotto menzionato.
     Messina ha dietro di sé una vita di ricerche in biblioteche e archivi di mezza Europa, visitata in lungo e in largo, e se dice o afferma qualcosa, lo fa con competenza e cognizione di causa, perché – come scriviamo in quel saggio del 1989 – nei suoi viaggi «ricerca soprattutto la società, l’uomo: non dimentica mai la sua Sicilia, che non ritrova solo negli archivi ma soprattutto nella nostalgia, dal confronto con altre terre». Il nostro storico, forte di tutto questo lavoro di ricerca, a ragion veduta, può, in Sicilia 1492-1799, parlare di campionario delle crudeltà umane, screditando tanti storici. Interessante e ben costruito è il Discorso sulla storia, riportato alla fine dell’opera. Egli tiene a sottolineare che non si può fare storia senza tenere conto dell’uomo, che ne è l’artefice e il protagonista. Coloro che ne fanno a meno, più che storici, sono compilatori di dati e fatti che dicono poco o niente.
     Quest’asserzione del Messina non è nuova, perché costituisce la base non solo del suo fare storia ma dell’essere uomo e poeta qual è. La si ritrova in un suo scritto, L’Orma, di inizio carriera che, più che un manifesto, è un programma di vita allora intrapreso e da cui non si è mai allontanato. Proprio ne L’Orma. Manifesto letterario, pubblicato nel 1976 da Thule dello scrittore e poeta Tommaso Romano, scrive: «L’uomo vivente appartiene al passato tanto quanto al presente e al futuro. Ogni uomo che ragiona non si pente del suo passato e lo trova utile allo stesso suo essere, alla sua rigenerazione, e si commuove al ricordo. Ogni uomo deve anche guardare al passato dei suoi padri e non nascondere, come oggi si usa, la commozione che ancora desta una pagina della loro vita di uomini, che è poi la vita degli uomini di sempre».
     Nel Discorso sulla storia lo storico ribadisce tutto ciò, scrive che la storia sarebbe priva di vitalità, se non si avessero di mira l’uomo e le sue attività, e biasima quanti ritengono di farla ricorrendo ai numeri riportati dai censimenti che risultano falsi per difetto o per eccesso, e lo storico ricorda, ad es., le attuali dichiarazioni dei redditi. Sicché, come in tutti i settori, anche negli studi storici non mancano gli arrivisti e i profittatori che, pur di farsi strada, riportano lucciole per lanterne, disorientando i lettori. A conferma di quanto asserisce, il Nostro chiama in causa i maestri Virgilio Titone e Helmut Koenigsberger che tanto scrissero e si adoperarono per dare senso e valorizzare la storia come storia dell’uomo, delle sue attività e degli interessi, pratici o culturali che siano. Altro che date e fatti!
     Non si ferma a ricordare soltanto i colloqui con Titone e Koenigsberger.  Messina, forte della sua formazione classica, interroga anche scrittori antichi e moderni. Egli va a ripescare scritti di Aristotele, di Cicerone, ma anche di Voltaire, Braudel e tanti altri autorevoli storici che considerano storia ogni prodotto umano. Ed è qui che dà spazio a Voltaire (ricordiamo, a proposito, il saggio Voltaire e il mondo classico, Palermo  1976), quando enumera le quattro età felici (quella di Filippo e Alessandro, di Cesare e Augusto, dei Medici, di Luigi XIV). «Ma a quella felicità delle età – scrive il Nostro – non corrispondeva la felicità degli uomini, ben lo sapeva Voltaire […] che tutti i secoli, anche le età felici, hanno in comune una cosa, la cattiveria degli uomini, e per essa sono simili» (ib., p. 590). 

       Il Discorso sulla storia è la parte più interessante dell’opera. L’autore lo colloca alla fine, dopo la narrazione, perché lo ritiene – a nostro parere – consequenziale ad essa, ma di per sé è la concezione della storia che ha maturato nel corso di tanti decenni e che ha ritenuto di pubblicare per contrastare gli abusi e gli errori che spesso si fanno, scrivendo di storia. Anche perché per fare storia occorre essere padroni dei ferri del mestiere. Non si può riesumare il passato o anche riprendere la realtà di ogni giorno senza sapere scrivere. L’affermazione è sua, e ne prendiamo atto. Non può essere diversamente. La narrazione ha bisogno, oltre della conoscenza di ciò che si vuole narrare, di chi sappia scriverla con i crismi propri della scrittura. Contro chi semplicemente esuma i fatti e i dati statistici, senza raccontare ciò che effettivamente è avvenuto e quale la vita degli uomini di quel dato momento, Messina scrive:

     «Per potere scrivere la storia degli uomini, si deve avere innanzi tutto sensibilità, molta sensibilità umana, e pure lo storico dev’essere uno scrittore. Dopo gli esperimenti degli storici scientifici e tante altre stravaganze e illusioni e delusioni storiografiche, universalmente si è avvertita, sempre più, l’esigenza di un ritorno al racconto. Per raccontare si deve sapere scrivere e chi sa scrivere si chiama scrittore; lui sa entrare nella vita degli uomini, anche di epoche lontane, rappresentarla con le giuste parole, con le sfumature che sono essenziali, e può raccontare dunque anche la storia, sa come va narrata, come confezionare il racconto e adattarlo al soggetto, su misura, volta per volta, conosce i segreti dell’arte» (Sicilia 1492-1799, pp. 572-573).

     Calogero Messina scrive e afferma con i fatti il suo pensiero, perché, oltre ad essere uno storico nel senso vero del termine, è – ribadiamo – uno scrittore e poeta. Egli nel silenzio del suo studio parla e scrive con gli uomini di ogni tempo e li risuscita, mostrandone gli interessi e l’umanità che li fece agire ed operare nella consapevolezza e nella libertà dell’essere uomini, che è una caratteristica a cui ognuno dovrebbe mirare. Tutte le sue opere sono narrazioni e racconti, ma in particolare ricordiamo Volevano l’Inquisizione (1992) e I vendicatori (1995), che sono romanzi molto allusivi e accattivanti. Prendendo spunto, nel primo, dell’Inquisizione in Sicilia, lo scrittore mette a fuoco la Sicilia di fine Settecento, quando i Siciliani trovavano gusto e divertimento negli autos de fe e volevano che si continuasse a tenere in piedi quell’istituto che tanto danno agli uomini e alla cultura aveva arrecato in Sicilia e altrove; nel secondo, I vendicatori (vedi «Spiragli», n.s. A. I, 2020, n. 1, pp. 55-56), l’autore sintetizza con molta bravura la realtà storica di un periodo molto travagliato della Sicilia, a cavallo del XIX e degli inizi del XX secolo, in cui la classe dominante padronale, che aveva dalla sua parte il potere costituito, imponeva la sua legge sfruttatrice, pronta a farsi valere con la forza delle armi e della messa a tacere per sempre. Entrambi i romanzi nascono da studi e ricerche fatte nel corso degli anni. Ne I vendicatori riprende l’ultimo periodo di vita e poi l’uccisione di Lorenzo Panepinto, su cui Messina ha scritto tanto (In giro per la Sicilia con «La Plebe» (1902- 1905); Il caso Panepinto), e sono scritti relativi al periodo tra Otto e primo Novecento in Sicilia, a S. Stefano Quisquina, paese dell’agrigentino, dove forte e sentito era il riscatto sociale della povera gente, dei contadini sottomessi ai grandi proprietari terrieri e agli intermediari che erano delle vere e proprie sanguisughe. L’autore sembra essere in mezzo alla sua gente e ci pare sentire ogni battuta e il tono della voce, la parlata dell’area agrigentina, che poi è quella del Nostro, perché caratteristica della sua scrittura – ripetiamo – è il tono della voce, la cadenza che sa imprimere e fa sentire nei suoi scritti.
     I registri utilizzati – come si può notare – sono mutevoli, cambiano alla bisogna; vanno dalla narrazione vera e propria, sempre partecipata, al racconto, popolato da personaggi che fanno la storia e la vivono, e alla poesia, perché all’occorrenza se ne serve per dare voce e canto a uomini antichi o del più recente passato, e nelle sillogi l’umanità del Messina si manifesta in una luce più chiara. Leggiamo in Sodalitas (Palermo,1999), ad es., la poesia “A Lorenzo Panepinto” (ripubblicata in «Spiragli», A. XXIII, 2011, n. 1-4, p. 44), nella quale il poeta rivive, rappresentandoselo, quel brutto momento dell’uccisione di Panepinto («Un pane sotto il braccio, / tornavi ai tuoi figli e cadevi / come un tronco possente / dalla perfidia vile / spezzato / davanti alla sposa»), mentre i poveri suoi compaesani piangono, senza darsi pace, il loro maestro e la guida. Il poeta parla con l’estinto e riferisce, mentre è silenzio intorno:

Ove i vicoli odorano di fieno
la povera gente che amasti
ritrovo la sera.
Ti ricordano e conversano teco
i vecchietti seduti alla soglia,
le parole confuse al calpestio
dei muli, al belar delle capre.
[…]
Il lamento degli umili
riascolti la sera
e torni a parlare con loro
e li sproni a sperare.

     Poesia e storia sono in simbiosi e il poeta trova il modo e il tono giusto per calarsi nella realtà ed evidenziare pregi e difetti dell’uomo di ogni tempo. Si legga anche “A Publio Ovidio Nasone” («Spiragli», n.s. A. I, 2020, n. 2), scritta a proposito di un viaggio nei luoghi in cui nell’8 d.C. Ovidio fu esiliato. Il Messina si compenetrò nella solitudine e nella sofferenza che Ovidio dovette patire lontano dalla sposa e dalla sua Roma, e ne condivide il dolore in versi molto toccanti («Su questi lidi / in orrida solitudine / piangevi la tua sorte / tra nemiche genti. / Maledivi i tuoi versi / ai quali dovevi la tua condanna, / ma erano i versi / che alleviavano ora le tue pene, / nell’esilio la Musa ti rimaneva fedele compagna / e ti dava speranza di fama / dopo la morte. / Ma tu ripensavi a Roma lontana […] / Tua colpa fu l’aver visto / cose che non dovevi vedere, / l’avere avuto gli occhi / fu il tuo peccato, o Nasone. / E ti mandarono in questa rimota / terra: qui finiva l’imperio di Roma / e il mondo») e non può non immedesimarsi e fare suo quel dolore dovuto a privazione di cose e di affetti. Leggiamo:

In questa spiaggia deserta ti ritrovo,
compagno della mia solitudine;
io vengo dalla lontana isola del sole
che pure vedesti con i tuoi occhi
in compagnia di Pompeo Macro poeta
tuo parente e amico:
mirasti il cielo splendente
delle fiamme dell’Etna,
sentisti il forte odore di zolfo,
cantasti l’eterna primavera siciliana.
E qui sospiravi i lidi dell’isola mia
diversi da quelli dei Geti.
Sento impetuoso il vento
anche in questo luglio,
s’inseguono le onde del mare
si adagiano alla riva,
ti cercano ancora,
chiedono a me qualcosa di te:
io canto soltanto i tuoi versi
e mi lascio bagnare le mani
dal mare che parlava con te…

     Calogero Messina anche nella poesia è – come può notarsi – uno storico attento,  rispettoso dell’uomo che, spesso coinvolto in situazioni fattuali più grandi di lui, resiste, reagisce oppure subisce, come Ovidio, pur tenendo alto il suo essere e la sua libertà interiore. Sicché il merito del Nostro è quello di mantenersi in linea non solo con pensatori e storici famosi – come si è visto – ma con i principi espressi da Aristotele nella Poetica, specie quando afferma che la poesia tende a rappresentare l’universale, a differenza della storia che ha per oggetto il particolare (1451 a 35 b 11) e quando asserisce che il poeta deve immaginarsi e porsi «dinanzi agli occhi» la persona o le cose di cui si sta interessando (1455 a 22-26). È quello che notiamo negli esempi riportati. Ne deriva che compito dello storico, e quindi della storia, è disvelare il vero essere dell’uomo, mentre secondari o per certi aspetti di aiuto a questo disvelamento sono i fatti, le date, le narrazioni di eventi vari. *** Sicilia 1492-1799. Un campionario delle crudeltà umane è la narrazione di tre secoli di storia siciliana da cui prende corpo la poderosa opera di Calogero Messina. Egli mette in evidenza – come recita il titolo – l’agire dell’uomo che, dimentico del bene comune, si abbandona ad ogni sorta di crudeltà, vero lupo dell’altro uomo spesso indifeso e abbandonato anche da chi dovrebbe tutelarlo e difenderlo, responsabile della legalità o ministro della religione che sia. L’anno 1492 si rifà, più che alla scoperta dell’America, alla conquista e all’annessione di Granada alla Spagna di Ferdinando II, mentre il 1799, regnante Ferdinando III di Sicilia, chiude con una grave carestia e rivolte un po’ in tutta l’Isola, che stava rivivendo uno dei tanti periodi più bui della sua storia. Nei 6 capitoli, suddivisi in paragrafi intitolati, di cui si compone l’opera, la Sicilia è presentata nelle luci e nelle ombre che da sempre la caratterizzano; una Sicilia, questa del Messina, che, insieme con il contributo di storici italiani e stranieri (Titone, Koenigsberger, Braudel ed altri), perde il suo alone oleografico e si manifesta così come è sempre stata ed è, perché alla realtà storica, facendo propria l’asserzione di Virgilio Titone, ritiene e abbina una realtà biologica trasmissibile nel tempo. Il primo capitolo dà spazio alla cacciata degli Ebrei, suggerita dall’Inquisitore generale e voluta dal re in Spagna e nei suoi domini. L’Autore, pur ricordando che gli Ebrei non erano mai stati benvoluti un po’ dovunque, non soltanto mette in risalto la reazione dei Siciliani alla promulgazione dell’editto, ma la pressione che fanno, perché il re lo annulli, considerato il grande contributo che gli Ebrei davano all’economia e alla crescita socio-culturale della Sicilia. Non otterranno niente e non passerà molto che, messa in atto l’espulsione (12 genna i o 1793) , essi stessi li perseguiteranno e si faranno complici e «familiari» dei persecutori, partecipando festosi ai roghi, anche se molti lamentarono l’abuso e il ricorso agli autos de fe, coinvolgendo il Parlamento, ma non ottennero niente. Una lezione che si evince è quella che occorre conoscere il passato per potere leggere e vivere il presente; siamo ai corsi e ricorsi della storia di vichiana memoria. Un ricorso, di cui tanto si parla e si abusa, ce lo offre la pandemia, che fece fermare le attività produttive, con il rincaro dei prezzi delle materie prime, dei beni di prima necessità e la chiusura di tanti esercizi che non possono andare dietro alle sempre maggiorate tasse e al rincaro delle bollette. Ne consegue che l’Italia, da potenza industriale qual era, è stata ridotta allo stremo. Tutto questo per l’ingordigia di pochi che profittano della povera gente e dei lavoratori per arricchirsi e fare da padroni. 
      Se prima si nascondeva il frumento per  venderlo maggiorato, ora si ricorre a tutt’altro per spremere di più e dominare. Qui, ciò che Messina mette a fuoco è l’aberrazione dei pochi che in quella occasione coinvolsero i molti e tutti concorsero all’immiserimento della Sicilia. Venne meno il commercio e per forza maggiore tante attività dovettero chiudere, non ci fu circolazione di moneta e quel che aggravava ancor più la situazione fu la richiesta di denaro, ora per un motivo ora per un altro, da parte dei re. Nel paragrafo «E li chiamavano donativi» scrive:

     «Nei secoli passati c’erano state le collette, imposizioni straordinarie, una tantum, sui beni allodiali; erano state previste soltanto nei seguenti casi: guerra o veicoli d’invasione o necessità di apprestamenti difensivi o calamità naturali; incoronazione del re; matrimonio e dotazione di una figlia odi una sorella del re; cerimonia per armare cavaliere un figlio un fratello del re; riscatto del re o di un suo intimo congiunto dai nemici. […] Regnando Ferdinando il Cattolico, dal 1502, il Parlamento in Sicilia si cominciò a celebrare ogni tre anni e ogni volta si concedette, autonomamente, un donativo di trecento mila fiorini; in tal modo si assicurò all’erario la rendita annuale di centomila fiorini, alla quale spesso si aggiungevano le somme di altri donativi detti straordinari, che potevano essere concessi in altri parlamenti anch’essi straordinari, convocati nel corso dei tre anni» (ib., pp. 26-27).

     Come potevano i Siciliani godere dei beni di loro acquisto e di quelli della loro terra generosa, ricca di frumento e di altri prodotti di prima necessità, se l’erario e gabelle varie non davano loro un minimo di tranquillità e di pace, per cui spesso erano costretti a ribellarsi e a rivendicare il loro esserci? Lo storico mette a nudo questa realtà che gli fa toccare con mano un campionario di crudeltà mai da altri storici evidenziato. 
     Quest’aspetto si fa più chiaro nel secondo capitolo che è tutto un susseguirsi di rivolte, di cacciata di viceré, di lotte tra baroni e conti (si legga il caso di Sciacca), di congiure, di invasioni dei corsari, e ancora catastrofi naturali e la necessità di fortificare città e territori di facile bersaglio dei Turchi. La narrazione è sempre di facile lettura, scorrevole, invitante; Messina sembra quasi prendere per mano il lettore e coinvolgerlo in fatti e situazioni che altrimenti non avrebbe potuto conoscere proprio per l’astrusità di certi testi che, invece di avvicinare, allontanano. E questo, a Messina scrittore di storia, si deve riconoscere, soprattutto perché, nutrito di classici antichi e moderni, spesso chiamati in causa, espone con lucidità e chiarezza, dando risalto alla componente umana. Non potrebbe essere diversamente, dato che la storia è un prodotto umano.
    Sempre in questo secondo capitolo Messina, in linea con gli studi di Titone e di Koenigsberger, fa il punto sull’istituto spagnolo del viceré, da cui la Sicilia fu governata. Scrive:

     «Il viceré giurava di mantenere i privilegi, le costituzioni e i capitoli del regno di Sicilia, che si considerava una nazione, indipendente, aveva un suo antico parlamento, col quale il viceré doveva venire a compromesso, ma non era difficile; durante il viceregno spagnolo il tanto celebrato Parlamento siciliano non ebbe le funzioni che generalmente si attribuiscono a tale istituto…» (ib., p. 41).

     Fu proprio questo il motivo per cui le cose non andavano bene in Sicilia! Scontenta rimaneva la parte baronale contraria che non vedeva tutelato il suo interesse e tanto più la popol a z ione che mol t o spe s s o e r a abbandonata a se stessa. L’analisi di Messina è convincente e a dimostrarla sono gli attriti tra i vari istituti o i ceti sociali sempre in agitazione e pronti a scendere per le strade e protestare in modo brutale. Un aspetto, di cui tiene debito conto l’Autore, è quello socio-culturale. Lo storico sembra entrare nelle case, parlare con i popolani dei vari rioni, per rendersi conto da vicino della misera realtà in cui erano costretti a vivere, e ci pare rivedere le stesse condizioni di vita di tempi non troppo lontani SAGGI  da noi. Questo perché Messina, come Titone dei Riveli e platee del regno di Sicilia (1961) che tiene sempre presente, non ha fiducia nei censimenti che nel tempo si facevano e ancora si fanno; preferisce leggere oltre lo scritto i documenti, le opere di vario genere e soltanto così ottiene i risultati che mette a disposizione di tutti. Egli sa che questa è storia, con personaggi importanti o di minor conto eppure di rilievo, così come gli scrittori e gli uomini di scienza che tanto lustro danno tuttora alla Sicilia.
     Il terzo capitolo, che tratta della storia siciliana del secondo Cinquecento, presenta una Sicilia volta a venire incontro alle richieste di vario genere dei sovrani spagnoli (Carlo V, poi il successore suo figlio Filippo II), impegnati, da una parte, nella guerra contro la Francia, dall’altra, nella lotta contro i corsari che infestavano il Mediterraneo, motivi per cui chiedevano donativi e, insieme con altre uscite, immiserivano la Sicilia, di per sé ricca, come appariva ai tanti visitatori e stranieri che non mancavano di apprezzarne la fertilità e la bontà dei suoi prodotti, la produzione e l’eccellente qualità del suo frumento.      
     Il nostro autore si avvale, come fa sempre, dell’apporto di autorevoli colleghi che lo hanno preceduto e, ricordando il suo maestro Virgilio Titone, scrive che «il donativo, per il modo in cui era distribuito, poteva costituire un peso grave per i più poveri e che non pochi morivano di fame quando andava male il raccolto» e che «più positivo che negativo si doveva considerare il bilancio economico della dominazione spagnola, nonostante la diffusa, indigena corruzione dell’isola». In effetti, ad aggravare la situazione furono i traffici illegali, il dissidio tra gli appartenenti dei vari istituti (parlamentari e inquisitori), l’accaparramento delle derrate alimentari per venderle a prezzo maggiorato, la complicità degli uomini di legge a camuffare e tutelare i malavitosi, liberi di offendere o uccidere, rimanendo impuniti. Si consolida così come organizzazione criminosa la mafia. Ne aveva scritto Titone, e dalla narrazione del Messina emerge chiara la matrice mafiosa che lega uomini di ogni ceto sociale, pronti a spargere sangue innocente, pur di raggiungere i loro obiettivi. Complicità, abusi, delitti impuniti e ingiustizie erano all’ordine del giorno. L’autore ricorda la libertà concessa al Conte di Asaro, colpevole di «un altro fatto della più efferata crudeltà », scarcerato per l’intercessione di Don Cesare Lanza, a sua volta, uccisore della figlia, la baronessa di Carini, di cui soltanto il poeta popolare tramandò la storia e che Messina riporta.
     L’immagine che della Sicilia viene fuori da questa lettura è quella di una terra ricca e generosa presa di mira e sfruttata da uomini che agivano per tornaconto, per i quali ogni occasione era buona per arricchirsi alle spalle di chi lavorava per sé e per gli altri e persino di chi soffriva, come quando ci fu la peste, tra il 1575-’76. Riportiamo:

     «Ad aggravare le cose in Sicilia arrivò anche la peste […], e portò la morte anche a Palermo, dove i suggerimenti del famoso medico Gian Filippo Ingrassia ne limitarono le conseguenze, ma si ripeterono gli episodi della più atroce crudeltà: propagavano il contagio le robe infette rubate e rivendute, e il Presidente de Regno diede gli ordini più rigorosi, che servissero di monito, e si videro degli individui che riconosciuti rei di quel traffico, furono trascinati alla coda dei cavalli e strozzati, o impalati e lacerati nelle carni e buttati dallo Steri (ib., p. 133).

     Sfruttata e offesa era la Sicilia in questo lasso di tempo narrato ed esaminato dal nostro autore e sarà ancora così, fin quando l’uomo non comprenderà che occorre essere consapevole di sé, in quanto tale, e da consapevole trattare gli altri da uomini. Soltanto allora subentrerà il rispetto per i simili e per la terra ospitale. Ma penso alla  considerazione di Don Fabrizio, a fine colloquio con Chevalley, e rattrista e lascia senza parola quell’«irredimibile». Anche perché, andando avanti nella narrazione (siamo al quarto capitolo, Un secolo di lusso, di miseria e di congiure), ci rendiamo conto che i problemi della Sicilia non hanno mai avuto e non hanno tuttora un’adeguata soluzione, anzi si complicano di più. Ed è ciò che avvenne nel XVII secolo, ricco di accademie di ogni tipo e allo stesso modo di misfatti e crudeltà inaudite, di carestie, una dietro l’altra, e di rivolte per la mancanza di frumento e per il malgoverno, tranne poche eccezioni, come quello del viceré Ossuna (1611-1616), severo contro il male imperante e volto a instaurare il bene comune , nel rispetto della legge , applicandola anche nei confronti di nobili e di amministratori, senza alcuna particolarità; o quello del Duca d’Albuquerque e di qualche altro, ma erano malvisti dai titolati e dai nobili, perché non avevano alcun riguardo per loro, abituati, com’erano ad essere i privilegiati anche nell’impunità.

     «Il Duca d’Albuquerque – scrive Messina, ma va riferito anche ad altri pochi viceré – diede prove della sua imparzialità; non ebbe riguardo per la discendenza di Fabrizio Riggio, che nel 1669 rubò con un complice gli argenti della chiesa palermitana di S. Domenico: fece condannare entrambi alla galea per quindici anni e volle che fossero condotti per la città con le mani legate dietro la schiena, e per impedire che, come accadeva, i parenti lo strappassero alla giustizia, ordinò che li portassero al remo il capitano della città e i suoi giudici, scortati dalle loro guardie e da una compagnia di soldati spagnoli e da un’altra di borgognoni» (ib., p. 261).

     La Spagna, presa com’era dalle guerre e dai molti problemi che travagliavano le terre di suo dominio, si fidava dei suoi viceré e dei delegati, ma spesso si veniva a creare una loro connivenza con i poteri forti locali che agivano ed operavano per il loro esclusivo tornaconto, trascurando le popolazioni che, per questo, erano sempre sul piede di guerra.
     Il Seicento fu particolarmente un secolo di contrasti. Da ciò che si evince dalla lettura del volume, non avvengono soltanto tra governanti e popolazioni, ma tra città e città. Il municipalismo era molto sentito e ognuna di esse tutelava i suoi privilegi e voleva superare o essere alla pari con l’antagonista, come avviene tra Palermo e Messina, sempre in attrito, questa, per volere battere moneta o per avere in sede il viceré e pronta, tradendo, a passare dalla parte nemica. Ma fu un secolo anche di carestie e di occultamento di grano, per venderlo a prezzo maggiorato. Di qui le sommosse e le rivolte (vedi quella di Giuseppe d’Alesi, volta a sovvertire l’ordine costituito), che tanto danno arrecarono alle popolazioni le quali, patendo miseria e fame, subirono morti e continuo ripetersi delle pesti che decimarono tanta gente e videro anche casi di sciacallaggio e di libidine contro donne ammalate o morte.
     L’opera del Messina si rivela un vero e proprio «campionario delle crudeltà umane». Se consideriamo gli eventi, l’agire dell’uomo, le avversità dovute a fenomeni naturali, la persistente pirateria che costò molto in uomini e cose, con le conseguenti continue allerte e richieste di donativi straordinari da parte dei governanti e il fiato sospeso delle popolazioni, ci rendiamo conto che la Sicilia, da terra ricca e privilegiata qual era, soffrì fame e miseria, e a piangerne le conseguenze fu sempre la povera gente, costretta a subire le angherie dei potenti e dei banditi che, al pari dei pirati, saccheggiavano e uccidevano nelle campagne e nelle città. Sicché lo storico presenta la Sicilia così com’era. Ci sono i fatti, le date, i personaggi, ma – è il caso di ripeterlo – sono in funzione di un unico contesto, dove tutti operano e agiscono,  mettendo a nudo un’umanità sofferente per colpa di chi vuole prevalere sugli altri con la forza del denaro, con le uccisioni e gli abusi di ogni sorta.
     Emerge da tutta la narrazione che il potere viceregio e le autorità dei diversi istituti si davano da fare per eliminare quei mali sociali che erano di ostacolo e pericolo per tutti, anche se c’erano coloro che, traendone vantaggi, ostacolavano e nascondevano i malvagi, di cui spesso si servivano per raggiungere i loro scopi. Il Messina riporta, tra gli altri, l’operato del viceré Duca d’Ossuna, quando, costatando le complicità, «voleva che per nessuno si facessero eccezioni nell’amministrazione della giustizia, che non si chiudessero gli occhi neppure per i nobili» e, quando ci fu un furto nella Tavola di Palermo, minaccerà e incarcererà pretore e senatori, e li avrebbe anche esiliati, se non avessero consegnato il cassiere responsabile del furto. Ed essi «che avevano le loro responsabilità nella faccenda, trovarono il cassiere e lo consegnarono; allora furono scarcerati» (ib., p. 186).
     I viceré, a seconda dei casi, sapevano bene usare il bastone o la carota. Il Duca d’Ossuna ed altri, ad es., erano molto criticati dai nobili, ostacolati com’erano nei loro illeciti, ma essi, incuranti delle dicerie, usavano il bastone. All’occorrenza, però, concedevano il contentino, la carota, sempre bene accolta e capace di far dimenticare i problemi della miseria e della fame che rendevano quasi impossibile la vita. Un paragrafo del quarto capitolo ha come titolo: «La festa dissolveva la miseria» e, in effetti, da tutto il contesto della narrazione emerge che ogni occasione era buona per fare festa. Feste ad alto livello, con tanto sfarzo, si facevano sia nel palazzo vicereale in occasione di eventi di grande rilievo (matrimoni reali o successioni, riconferme di viceré o vittorie), ma anche nelle piazze e per le strade e il popolo vi partecipava, dimentico di tutto.
     Erano motivo di festa persino le condanne a morte o l’auspicio di un matrimonio. A proposito, leggiamo: 

     «Nel marzo del 1689 si seppe a Palermo della prematura morte della moglie di Carlo II, Maria Luisa di Borbone; si celebrarono i funerali. Non era nato ancora l’erede: si tornava a sperare per il nuovo matrimonio del Re Cattolico, e per esso si cantò il Te Deum il 21 settembre, e il viceré tenne una festa nel Palazzo Reale e lì si gioco e si ballò; altre feste si fecero nel 1690 per iniziativa del senato palermitano: giostre di cavalieri, cavalcate, giuochi di fuoco» (ib., p. 289).

     Lo storico dedica spazio, oltre alle pesti che decimavano le popolazioni, anche al terremoto del 1693, portatore di distruzione e di morte, che desolò soprattutto Catania e la Sicilia orientale, ma anche nell’interno, e a Palermo fece sentire i suoi effetti catastrofici, e tutti si rivolgevano ai santi Patroni, a santa Rosalia, e facevano voti per scongiurare il peggio. Anche in questo triste evento non mancò lo sciacallaggio, e il Messina riporta una pagina nera di Agostino Gallo, dove con vile crudeltà i ladri inveivano contro morti e feriti per impossessarsi dell’oro che avevano addosso; ma trascrive anche alcuni versi di un canto popolare che al Nostro ricordava un suo informatore: «Morsiru barunati e cu marchisi / li picciliddi cu l’occhiuzzi chiusi, / Maria si li pigliò quannu li ‘ntisi. / Vo’ sapiri cu su’ l’addilurusi? / L’afflitti, scunsulati Catanisi; / Catania nni faciva principi e conti / cchiù ricchi di Palermu sì cotanti. /…». Scrivevamo più sopra, a proposito della poesia, di disvelamento. Qui il poeta popolare mette a nudo la realtà, ce la presenta proprio come appariva agli occhi del poeta, quasi a farcela vedere («… cci su li mura ddà, ‘un cc’è cchiù nuddu. / Cadì lu campanaru e la campana / e ’nautru jornu lu tettu e li mura; …»). Lo storico e il poeta vanno di pari passo e fanno riemergere il passato con tutto ciò che si porta dietro; viene  fuori che, subito dopo il terremoto, ci fu la ripresa e la ricostruzione e si tornò alla vita di sempre, cosa che non capita ai nostri giorni. Scrive:

     «C’è molto da apprendere da questa storia. Ridotti allo stremo, i siciliani di allora mostrarono subito di volere la ricostruzione e non l’aspettarono dalle istituzioni; furono pronti a impegnarsi per primi per raggiungere quel traguardo; l’operosa gente di Catania, di Noto e di altri centri sbalordì per la capacità di ripresa e la sollecitudine con cui la realizzarono, e le città risorsero più splendide di prima, […]. Se guardiamo a quello che è accaduto nel nostro tempo in zone della Sicilia distrutte da altri terremoti, non troviamo la serietà di quei cittadini, il loro senso di responsabilità e di concretezza, la loro capacità di realizzazione, ma tutt’altro» (ib., p. 297).

     La tempistica è di richiamo, anzi suona come un severo rimprovero a governanti e uomini del nostro tempo. Come non concordare con Messina che tiene presente e tramanda con orgoglio la lezione del maestro, l’integerrimo Virgilio Titone?
     Nel capitolo quinto (Spagnoli, Piemontesi, Austriaci) leggiamo di una Sicilia che cambia governanti per accordi presi dalle grandi potenze, ma non risente di alcun miglioramento, considerati i problemi insoluti e quelli nuovi, compreso un risentimento antispagnolo che contribuiva ad alimentare malessere tra la popolazione e, soprattutto, tra i Messinesi che avevano concittadini o anche parenti in esilio e i loro beni confiscati. La situazione rientrò nella norma, quando Filippo v ordinò il loro ritorno in patria e la restituzione dei beni confiscati, ma non fu sradicato l’antispagnolismo, a causa anche delle voci di riassestamento territoriale che, anche se con ritardo, giungevano in Sicilia; ma c’era pure il banditismo, che dava filo da torcere nelle città come nelle campagne, e un commercio ridotto al minimo per la carenza di frumento. Problemi vecchi e nuovi che mettevano in difficoltà il viceré, costretto a chiedere rinforzi a Madrid per i tumulti, la sicurezza interna e il timore di un attacco austriaco. Lo storico così scrive:

    «In realtà né Luigi XIV né Filippo V ritenevano la Sicilia in pericolo imminente e non corrispondevano alle pressanti richieste di aiuti, anche perché vedevano che altrove ce ne fosse più bisogno; davano soltanto le loro assicurazioni che l’avrebbero soccorsa, qualora fosse stato necessario. Si arrivò anzi a chiedere degli uomini alla stessa Sicilia, come fece il viceré di Napoli, il Villena, col nuovo viceré dell’isola, lo Spinola, ma non ne ottenne uno solo» (ib., p. 297).

     Eppure sotto il governo spagnolo in quei tredici anni di primo Settecento ci furono tanti tumulti e uccisioni di innocenti, accusati di avere soltanto nominato Carlo VI o ritenuti traditori oppure per avere inneggiato alla repubblica. Si lottò anche contro la criminalità organizzata, ma si ottenne poco, perché protetta da alti dignitari e da nobili. «Appariva evidente la corruzione, a tutti i livelli – scrive Messina -; si sapeva delle complicità e solo una minima parte erano i delitti che si scoprivano, e anche se si scoprivano, restavano spesso impuniti». Documenti d’archivi di mezza Europa letti (Spagna, Francia, Austria, Inghilterra, tramite anche l’apporto dello storico H. Koenigsberger) e la consultazione di scritti di autori coevi e contemporanei, hanno permesso all’autore di fare un racconto abbastanza ricco e dettagliato. Come in un documentario, in cui le riprese sono tutte ben collegate tra esse, il lettore ne è coinvolto e diviene partecipe lui stesso di ciò che stava avvenendo in quel dato periodo.
     In Sicilia, anche con Vittorio Amedeo II re (1713-1718), non ci furono miglioramenti. Se in un primo tempo i Siciliani furono contenti per avere finalmente un re proprio, subito se ne pentirono, ritrovandosi dopo appena un anno governati dal viceré Maffei. Sicché «si smorzarono gli entusiasmi e non piacevano gli uomini del Duca, apparivano freddi,  sempre più apatici, troppo diversi dai siciliani e dagli spagnoli». Dalla lettura, per questo ed altri motivi, fra l’altro sanciti dal trattato di Utrecht, la Spagna sperava di riprendersi la Sicilia e vi tentò nel 1718 con l’aiuto del Cardinale Alberoni. A Palermo fu festa grande, ma non cessarono i tafferugli, i tumulti e tanti morti. Messina, a proposito, scrive:

     «Il ritorno degli spagnoli non contribuiva alla soluzione dei gravi problemi che affliggevano la Sicilia; si respirava ancora aria di anarchia e si scatenavano i diversi e contrastanti interessi, gli egoismi individuali più ottusi e le particolarità municipalistiche. Grave era la confusione e infiniti disordini si ripetevano dovunque a tutti i livelli, senza un re sicuro e in diverse parti senza nemmeno l’autorità religiosa, pareva che i siciliani volessero fare di testa propria» (ib., p. 349).

     Il capitolo è ricco di riferimenti e di particolari che ci fanno rendere conto di come le cose andavano in Sicilia nella prima metà del Settecento, nonostante i grandi uomini di cultura e di scienza (come negli altri capitoli, anche qui sono ricordati alcuni, tra cui G.B. Caruso, molto stimato dal Muratori, e il medico poeta e filosofo T. Campailla), che gli altri Paesi le invidiavano.
     Dalla lettura si evince che la Spagna avrebbe voluto migliorare le condizioni della Sicilia, ma era coinvolta nella guerra della Quadruplice Alleanza, per cui dovette affrontare i nemici fuori e dentro la Sicilia, divisa, contrastata e maggiormente tassata per quella guerra che il Messina riporta nelle varie fasi e negli accordi finali tra il generale tedesco Mercy e il Marchese di Lede conclusisi con il trattato dell’Aja (1720) che assegnò la Sicilia all’Austria di Carlo VI, che divenne III di Sicilia.
     Accattivante – come leggiamo – fu all’inizio l’impatto del re con i Siciliani, ma non mancò molto, «si vide che gli austriaci non riuscivano a familiarizzare con i siciliani, sia per il loro carattere, sia per la loro lingua, che sembrava barbara dai suoni, sia per la fama che avevano di eretici e di essere dediti a usi sciocchi e triviali» (ib. p. 360). Ci fu incomprensione e si capì, da parte del nuovo governo, tanto che si cercò di lasciare invariate le usanze per non indisporre i più suscettibili e mettersi contro la popolazione.
     Uscita dalla guerra, la Sicilia fu chiamata a fare donativi per motivi vari, come sempre, ma niente o poco veniva fatto per migliorare le condizioni di vita delle città e dei paesi, e ci fu uno scontento diffuso, anche in ambito ecclesiastico. Il governo si rese conto che bisognava ripristinare la Santa Inquisizione e, al tempo stesso, ricorrere anche alle feste per distrarre dalla triste quotidianità. Tra le tante feste il Messina riporta la partecipazione di popolo all’autos de fe di Suor Geltruda e Fra’ Romualdo, e scrive:

     «Il Kamen e altri storici hanno mostrato la popolarità degli autos de fe che si celebravano nella Spagna; ciò che avveniva in Spagna, si vedeva anche in Sicilia, e la mancanza dei roghi per un lungo tempo contribuì a rendere la partecipazione allo spettacolo e al rogo del 1724 ancor più massiccia, appassionata, frenetica» (ib., p. 371).

     Con gli Austriaci non fu risolto il problema del brigantaggio, la corruzione era abbastanza diffusa e tante terre abbandonate. «Tragico fu l’esito della politica austriaca; sconcertante la pressione fiscale – scrive Messina -. Le mie ricerche non hanno potuto che riconfermare il quadro che altri hanno disegnato della Sicilia austriaca e che qualcuno vorrebbe diverso, una Sicilia spremuta senza pietà, oppressa continuamente» (ib., p. 386). Lo storico, a proposito, in un paragrafo di Sicilia e Spagna nel Settecento (Palermo 1986), definisce la Sicilia «irriducibile» e ciò significa che essa ce l’ha nel suo DNA l’apatia e l’indifferenza al nuovo e al cambiamento, se consideriamo quanto scrisse il Tomasi e quello che tuttora, a distanza di quattro secoli, costatiamo.
      Il sesto ed ultimo capitolo (Un re per Napoli e la Sicilia) copre l’arco di tempo che va dal ritorno degli Spagnoli, con Carlo III re, alla venuta in Sicilia di Ferdinando IV di Napoli, III di Sicilia (1734-1799). Di questo periodo emerge un quadro non tanto bello, come in precedenza. Non ci sono particolari cambiamenti, se non quello del distacco del Regno delle Due Sicilie dalla Spagna, anche se re Ferdinando regnerà sotto la regia paterna (Messina riporta come es. di rilievo l’espulsione dei Gesuiti del 1767) almeno fino al 1776, quando allontanò il Tanucci, sostituendolo con il Marchese della Sambuca. Si cercò di eliminare gli abusi di ogni genere (irregolarità dei matrimoni, sperperi eccessivi per i funerali, il problema dei proietti), di fortificare città e paesi e di fare delle migliorie (sanificazione del territorio, attrezzandolo di strade meglio percorribili per le persone e le cose, dato che si voleva incentivare il commercio, valorizzando i prodotti siciliani). I re seguivano da vicino ciò che occorreva e si faceva per la Sicilia e i Siciliani, di cui erano riconoscenti per la loro fedeltà e l’attaccamento alla Spagna. Scrive, a proposito, lo storico:

     «L’attenzione e le preoccupazioni del re di Spagna erano rivolte alla Sicilia non meno che a Napoli; seguiva le vicende e le controversie dell’isola, sulle qualei dettagliate notizie gli forniva il Tanucci, e ne prendeva atto, approvava o disapprovava le iniziative e le intenzioni, dava consigli, esortazioni, ordini» (ib., p. 436).

     Spesso però la buona volontà veniva vanificata dal sopraggiungere di calamità naturali (peste, carestie), che causavano morti e danni con conseguenti mancanze di grano, di riversamento nelle città di affamati provenienti dall’entroterra e dalle campagne, di disordini e tumulti, il più delle volte terminati con dure condanne ed esecuzioni. Non manca il Messina di sottolineare che tutto il più delle volte era dovuto al malgoverno di chi era preposto a fare osservare le leggi e a tutelare la gente. Molti amministratori facevano loschi affari con i furbi e con i delinquenti che, nascondendo il grano e i generi di prima necessità, speculavano, vendendolo a caro prezzo, come nel passato. Sicché le cose in Sicilia cambiavano per restare sempre invariate; concetto ripetuto, ma non si può fare a meno di ricordare. Come potevano i popolani esasperati non darsi ai furti e alle malefatte di ogni genere? E per queste ci furono condanne e decapitazioni che rendevano alla gente un lugubre spettacolo, a cui ormai era da tempo abituata.
     La cacciata di Fogliani, un viceré molto amato e poi deriso e maltrattato, costretto a lasciare Palermo per Messina, fu dovuta ad un malessere così esasperato che mise tanto subbuglio a Palermo e in tutta la Sicilia. Causa iniziale della protesta fu la gabella sulla luce, applicata su porte e finestre delle abitazioni. Ci fu una vera e propria guerriglia, alimentata anche dalla mancanza di grano e dalla morte del Principe del Cassero che molto fece per approvvigionare Palermo. Ma queste sommosse, di Palermo, Monreale e altri centri, finirono con tanto spargimento di sangue, con impiccagioni e galera di persone innocenti spesso sobillate dai capipopolo e poi da essi stessi accusati per avere salva la vita e continuare ad agire impuniti. Lo storico riporta uno stralcio del Villabianca, in cui asserisce che già allora era difficile scrivere e tramandare fatti criminosi, meglio tacere per dimenticarli. Siamo nel Settecento, ma la storia si ripete e lo stesso avviene tuttora. Commentando quella pagina, Messina così annota: 

      «Quante cose nella nostra storia non potranno mai essere chiare per questo, per la volontà di nasconderne gli aspetti non piacevoli e distruggerne anche il ricordo! e quante volte io stesso sono stato dissuaso dall’occuparmi di certi argomenti e personaggi, non solo dagli amministratori, dagl’intellettuali, ma da semplici e ignoranti individui e da persone che pure mi ripetevano che mi volevano bene! Io ho reagito sempre in un modo, intensificando le mie ricerche» (ib., p. 477).  

     Dalle pagine di questo volume emerge una Sicilia poco nota ai più. Bello decantarla con i colori della natura e delle opere d’ingegno collezionate nel corso dei secoli. Ma è triste, inumano costatare che nel secolo dei Lumi si consumavano delitti e misfatti atroci e crudeli. Si legga, ad es, il paragrafo dedicato al problema dei proietti, dei bambini neonati abbandonati ovunque, addirittura gettati in mare o uccisi. L’ignoranza e soprattutto la miseria la facevano da padrone. I governanti emanarono leggi per la regolarizzazione dei matrimoni, come era stato fatto nel passato anche più recente, e in diversi modi cercarono di risolvere il problema, ma erano ostacolati dagli amministratori di città e paesi che dicevano di non avere le risorse per mantenere i bambini, e molto spesso risultava vano ogni tentativo di soluzione.
     Ciascuno cercava di curare il proprio orto e nessuno voleva cedere per migliorare e collaborare. Lo si nota anche a proposito dell’Inquisizione, quando il re avanzò ai suoi ministri la proposta di eliminarla. I Siciliani, senza esclusione di ceto, fecero di tutto per mantenerla e soltanto nel 1782 in Sicilia fu abolita. La motivazione era che tanti temevano di perdere il posto di lavoro, così anche l’esercito dei familiari, i moltissimi informatori disseminati dovunque, di cui fu garantita la segretazione dei nomi. Il nostro storico, a cui ogni occasione è buona per fare storia, narrando in prosa e in versi, trasferì questo dibattito nel già menzionato romanzo Volevano l’Inquisizione (1992), dove, a mo’ di dialogo, i personaggi rifanno la storia compresa in questo capitolo, fino al 1782, quando i popolani non riuscivano a capacitarsi come un istituto così importante, la Santa Inquisizione, potesse essere eliminato. Le voci di abolizione, giunte anche nei piccoli centri, facevano animatamente discorrere, come spesso avveniva, nelle botteghe e per le strade.
     È interessante sapere che in questo periodo i Francesi erano attratti dalla Sicilia e avrebbero voluto allargare i loro commerci nei vari settori, ma erano ostacolati dai detentori del potere e si lamentavano che non erano trattati alla stregua degli altri stranieri nell’Isola. Per i loro rapporti con la Sicilia, rimando al libro, sempre di Messina, I viceconsoli di Francia in Sicilia (Paris 2001), da dove, a parte la successione dei vari viceconsoli e il loro operato, viene fuori un’immagine della Sicilia potenzialmente prospera, ricca di ogni bene di natura, ma ridotta alla fame per l’incuria e il malgoverno.
      Lo storico, a leggere negli archivi di Parigi le tante relazioni periodiche dei viceconsoli al loro sovrano, prova un senso di sconforto e tanta amarezza dovuti ancora una volta alla staticità, a cui tuttora l’Isola sembra condannata ad essere. Eppure tra quei volumi trovò qualcosa di interessante, che a cercarla non l’avrebbe trovata, così come era capitato a tanti che l’avevano cercata. E ne gioì, perché fino ad allora di Cagliostro si conoscevano l’uomo e l’operato, ma incerta rimaneva la sua nazionalità, e per puro caso venne a conoscerla il nostro autore. Il Messina si trovò tra le mani la relazione con l’albero genealogico di Giuseppe Balsamo Cagliostro che l’avvocato della Francia in Sicilia, Antonio Bivona, aveva scritto e mandato il 12 marzo 1787. Una bella scoperta che mise fine ai dubbi su quel palermitano che tanto di sé faceva parlare in Francia e altrove. A questo punto il Nostro, da storico-narratore, si fa poeta e narra in versi le ultime ore di Cagliostro nella casa di rue Saint-Claude e l’arresto che nottetempo ne seguì. Questo racconto in versi, È ancora Cagliostro!, riportato anche in Di Gente in gente a Paris (2015), è una rievocazione («Cosa non facevano i parigini per lui! / Vedo nella via la loro fila / per essere ricevuti da lui / in barba ai philosophes / per toccarlo / per assistere alle sue magie / per chiedere i rimedi per le malattie / e di evocare pure le ombre / anche i diavoli / e lui tutti accontentava»), come se il dicitore si trovasse lì, in mezzo a tanto popolo che gridava e chiedeva la sua liberazione.
     In questo lasso di tempo (1786) era viceré di Sicilia Caracciolo, molto vicino ai Francesi, per essere stato a lungo in Francia e per le nuove idee che vi circolavano, di cui si faceva portatore. Fu malvisto dai Siciliani, nonostante volesse apportare migliorie e modernità in fatto di costume; ma risulta evidente che poco o niente cambiava in Sicilia. C’erano uccisioni, e roghi, banditi e latrocini dovunque, miseria, e terremoti che aggravavano ancor più la situazione e quel che era peggio la carestia, che sofferenze e morti causò dovunque, come avvenne a Catania nel 1797/1798, oggetto de La carestia di Domenico Tempio, a cui Messina dedica tanto spazio, parafrasandola.
     La venuta di re Ferdinando (25 dicembre 1798) in Sicilia chiude il capitolo e il volume. Vi trovò i tanti problemi irrisolti, congiure, liti e contrasti con gli stranieri, uccisioni di ogni sorta. Lo storico scrive:

     «A questo punto non continueremo a narrare quello che avvenne nel 1799; ci fermiamo concludendo col ricordo di quegli accidenti che ancora ben rivelavano e rivelano il carattere persistente dei siciliani, il loro modo di reagire nei rapporti con gli esteri, con i turchi nel caso specifico, e di fronte a quello che proprio non potevano tollerare, come se nulla fosse cambiato in Sicilia» (ib. p. 553).

     Così, con molta attitudine, Calogero Messina consegna a noi e a quelli che verranno un’immagine della Sicilia autentica e vera, quella che ancora meglio resiste nei paesi e nei piccoli centri, nonostante il modernismo dilagante e i continui bombardamenti dei media. Avrebbe potuto essere abbastanza più duro nei confronti di chi travisa la storia, ma non è nel suo stile; ha preferito aprirci ad una Sicilia dall’aspetto umano e al pullulare di interessi che danno vita alla storia.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, Nuova serie, anno III, nn. 1-2, 2023, pagg. 9-24.

 

 




I PESI CHE TI PORTI APPRESSO

Con questi pesi che ti porti appresso
giri per la città, tutto da solo,
la cattiva coscienza t’importuna:
un vino inacidito dentro l’anima.

C’è un bar all’angolo dove ti faranno
la carità di un dito di J&B
e una voce sospira Summer time
portandoti veleni d’oltre Oceano.

Le colombe s’inventano Venezia
e tu rianneghi nella tua laguna, 
senza violino.

La cassiera sorride a una battuta
arguta sul suo seno che è in rigoglio,
ti tratta già da vecchia conoscenza
e niente sa di te, dei tuoi fantasmi.
Carmelo Pirrera

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 29.




UN RITRATTO DELLA MADRE

C’era pure un ritratto della madre 
                      – di lei nessuno sa niente,
s’affaccia a guardare con aria stranita,
rispunta tra le carte di una lite
che il tempo non può più sedare.

Che suonava l’armonium nella chiesa
lo ricorda qualcuno,
e che cantava 
inni sacri alla gloria del Signore;
e si nutriva di letture bibliche,
conversava con Sara e con Isacco,
con Esaù che volle le lenticchie.
E lottava con angeli, a sua volta.

Ai ragazzi insegnava l’alfabeto
e a far di conto.
Le diedero persino una medaglia
con l’effigie del re: c’era una volta…

Carmelo Pirrera

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 29.




Jane Austen: The Economic Vulnerability of Women

Jane Austen’s works can be easily read as novels which simply provide lively entertainment in their vivid description of the manners of her times, but in doing so a very important concern of the author would be missed. A more careful study of Austen’s novels clearly points to her awareness of the economic vulnerability of women in the 1800s, a vulnerability which quite often leads to the lack of provision for their needs and those of their children.

To better understand Jane Austen’s preoccupation with the economic status of women and its importance in her works, it would be helpful to briefly mention her social position in life. Jane Austen was the unmarried daughter of a country clergyman. She was fully aware of the difference between her own station and that of the landed classes.

Her position was one of insecurity and it is never forgotten in her novels. She fully comprehends the hardship and restrictions caused by the lack of income1. In Austen’s Emma, a perfect example of this is Mr Knightley’s reaction to Emma’s harsh treatment of Miss Bates:

How could you be so unfeeling to Miss Bates?
How could you be so insolent in your 
wit to a woman of her character, age and 
situation? Emma, I had not thought it possible…
Were she a women of fortune, I would
leave every harmless absurdity to take its
chance, I would not quarrel with you for any
liberties of manner. Were she your equal in
situation – but Emma, consider how far this
is from being the case. She is poor; she has
sunk from the comforts she was born to;
and if she live to an old age, must probably
sink more. Her situation should secure your
compassion. It was badly done, indeed!2.

The words spoken by Mr Knightley are written by Jane Austen to stress the fact that a woman’s economic status is precarious, especially that of a single woman, such as Miss Bates who is forced to care for herself and her mother.

Austen knows that income is necessary to maintain life and that the loss of income brings financial difficulty which can easily lead to material hardship. The Dashwoods, the Bennets, Miss Bates and her mother are the characters brought to life by Jane Austen, not only to amuse her readers but to underline the harshness of the economic reality the women of her period faced. The period’s single most important source of capital was the possession of land. As Tony Tanner so rightfully points out, the society of which Jane Austen was a part and of which she wrote was based on landed interests, the sacredness of property.

Tanner reminds us that since John Locke affirmed in The Second Treatise of Government, written in 1690, that the end of government was the preservation of property, the rights of property were continually stressed. Through the 1800s society’s order and stability were tied to the rights of property until they became considered as identical 3.

The theme of the vulnerability of women regarding the right to inherit property is a dominant one in Austen’s works. In Pride and Prejudice, Austen informs her readers that:

Mr Bennet’s property consisted almost entirely
in an estate of two thousand a year,
which, unfortunately for his daughters was
entailed in default of heirs male, on a distant
relation; and their mother’s fortune, though
ample for her situation in life, could but ill
supply the deficiency of his. Her father had
been an attorney in Meryton, and had left
her four thousand pounds4.

With no inheritance rights to their land, consequently, the Bennet women in Pride and Prejudice are destined at the death of Mr Bennet to lose the Longbourn estate to Mr Collins, the nearest male heir, and become dependent on the meagre income to be derived from the interest on the 4000 pounds from their mother’s marriage articles. The Dashwood women in Sense and Sensibility upon the death of Mr Dashwood are forced to leave their home, the estate of Norland which is bequeathed to Mr Dashwood’s son, John, from his first marriage.

Jane Austen was very interested in the condition of women who are subjected to the loss of home. As a clergyman’s daughter, she knew that her home depended only on her father’s life, once he died, the Rectory would go to another incumbent, and, as his income was the chief financial resource, she and her mother and sister would be dependent on the generosity of her brothers. Jane Austen was fully aware of the dangers and difficulties inherent in relying upon the kindness of male relatives. John Dashwood’s idea of “generosity” towards his sisters and their mother speaks loudly enough:

It will be better that there should be no annuity 
in the case; whatever I may give them
occasionally will be of far greater assistance
than a yearly allowance, because they would
only enlarge their style of living if they felt
sure of a larger income, and would not be
sixpence the richer for it at the end of the
year. It will certainly be much the best way.
A present of fifty pounds, now and then, will
prevent their ever being distressed for money,
and will, I think, be amply discharging
my promise to my father5.

Even women who did possess fortunes did not have direct control of the money they owned in Jane Austen’s times. Male trustees would have the custody of their fortunes. If the trustees were honest and careful to make safe investments, women could then rely on a fixed, regular income. If the trustees were, on the other hand, dishonest or made bad investments, then a woman could be left with nothing6. However the case, women had no power of decision. In Jane Austen’s Persuasion, Anne Elliot’s friend Mrs Smith falls victim to the indolence of Mr Elliot, the executor of her late husband’s will, who refuses to pursue her rights to an income from her West Indian property: 

Mr Smith had appointed him the executor of
his will; but Mr Elliot would not act, and the 
difficulties and distresses which this refusal 
had heaped on her, in addition to the inevita-
ble sufferings of her situation, had been such 
as could not be related without anguish of 
spirit, or listened to without corresponding 
indignation. 
Anne was shewn some letters of his on the
occasion, answers to urgent applications
from Mrs Smith, which all breathed the
same stern resolution of not engaging in a
fruitless trouble, and under a cold civility,
the same hard-hearted indifference to any
of the evils it might bring on her. It was a
dreadful picture of ingratitude and inhumanity;
and Anne felt at some moments, that no
flagrant open crime could have been worse7.

It can safely be assumed that Anne’s feelings are those of Jane Austen’s, that is, that a woman’s economic position was always at risk because it was always in the hands of others. 

In the 1800s, women in England, whether they belonged to the gentry, the urban middle class, or the rural poor, all saw matrimony as a safeguard which provided them with the economic support they needed. Women who were members of the gentry or the aristocracy were given capital sums but they were largely small sums.

As a consequence, women, for accommodation and for the expenses of running a household, depended on men: initially their fathers and subsequently, it was hoped, their husbands8.

In Austen’s Pride and Prejudice, Charlotte Lucas, the daughter of Sir William and Lady Lucas, accepts the courtship. of Mr Collins despite his evident stupidity.

Austen admits that Collins was “neither sensible nor agreeable, his society was irksome……But still he would be her husband.” Charlotte Lucas, as many women of Austen’s times, saw marriage as her main object. Sir William could give her little fortune and so matrimony was “the only honourable provision for welleducated young women of small fortune and …..must be their pleasantest preservative from want”9.

Those women who could not turn to male relations for economic support had few alternative choices. Jane Fairfax’s economic situation when we first meet with her in Austen’s Emma does not include the financial support of a father, a brother, or a husband. She, in fact, is an orphan, the only child of the youngest daughter of Mrs Bates. Her father’s close friend, Colonel Campbell, decides to take her in and therefore Jane goes to live with the Campbell family. Colonel Campbell, however, not being able to provide for her decides “that she should be brought up for educating others; the very few hundred pounds which she inherited from her father making independence impossible”10. Jane Fairfax’s destiny, it seems, is to become a governess, the only choice of paid employment for middle-class women of that period. Governesses during this time typically worked long days teaching their charges for annual wages of about fifteen to twenty-five pounds. Jane Fairfax sees her future life as a governess as bleak and lonely, a life filled with hardship and sacrifice. Austen knows that her only other choice is matrimony and so in the end her secret engagement to Frank Churchill becomes known and the position found for her by Mrs Elton is quickly forgotten. Women during Jane Austen’s times did not have many rewarding job opportunities. Austen knows only too well that material comfort was provided by marriage.

In examining the constant presence of economic concern in Jane Austen’s works, the influence that Adam Smith had in those times should not be overlooked. It is very well known that his great work, The Wealth of Nations, published in 1776, signalized the end of feudal Europe and the beginning of the industrial age. It provided a ratio nale for the revolution in the economic order. His definition of “necessaries” was widely accepted by his contemporaries: 

By necessaries I understand, not only the 
commodities which are indispensably ne-
cessary for the support of life, but whatever 
the custom of the country renders it indecent 
for creditable people, even of the lowest or-
der, to be without11.

The pages of Jane Austen’s novels are filled with exact calculations of the sum of money needed by her female characters to supply those “necessaries” so clearly defined by Adam Smith. That sum more commonly called “competence”, as is explained by Edward Copeland, establishes exactly how much money was needed to live a life of gentility. Jane Austen teaches us that the competence could easily increase or decrease depending on the pretensions of the person to rank and status. A conversation which takes place between the two Dashwood sisters, Marianne and Elinor, in Sense and Sensibility, demonstrates this point, when they share their estimates of just what each one thinks an adequate competence might be. Marianne names “about eighteen hundred or two thousand a year, not more than that” as her ideal. Elinor quickly responds, “Two thousand a year! One is my wealth!”12.

Marianne’s competence is an income which is appropriate for the minor gentry; Elinor instead sets her income at an amount which represents that of a prosperous Anglican clergyman. At the end of the novel, Austen sees to it that each woman reaches her desired competence, through marriage of course!

Copeland’s study shows that the yearly income is a recurrent theme in women’s fiction at the turn of the century. Women novelists of all ranks and political opinions calculate the specific spending power of different annual incomes13. Among the annual incomes described throughout Austen’s novels, it might be of interest to dwell upon that of five hundred pounds a year. Fanny Dashwood in Sense and Sensibility enumerates the luxuries her four female in-laws will enjoy on this yearly income:

And what on earth can four women want
for more than that? – They will live so cheap!
Their housekeeping will be nothing at
all. They will have no carriage, no horses,
and hardly any servants; they will keep no
company, and can have no expenses of any
kind! Only conceive how comfortable they
will be!14.

Perhaps the harshness of Fanny Dashwood’s words take on an even stronger meaning when it is realized that Jane Austen’s competence was a little less than five hundred pounds a year!

After having examined Jane Austen’s works and their preoccupation with the economic status of women, the words of Watts and Smith in their study Economics in Literature and Drama ring especially true. Watts and Smith claim that even though literature and drama are considered as institutions that function separately from economic forces and conditions, they, nevertheless, influence and shape public opinion in many economic issues. Therefore, literature and drama should not be neglected because they are important sources for economic instruction15. In reading the novels of Jane Austen, it can be truly believed that her works have, in their own way, contributed to the realization of the econo mic freedom that women enjoy today. Let us not forget that :

“The prophet and the poet may regenerate. 
the world without the economist, but
the economist cannot regenerate it without
them.” Philip Wicksteed16.

Mary Scorsone

Note

1 Mary Evans, Jane Austen and the State (1987), pp. 10-12. London: Tavistock Publications. 
2 Jane Austen, Emma (1816) 1996, p. 346. New York: Barnes and Nobel Books.
3 Tony Tanner, Jane Austen (1986), p.16. London: Macmillan.
4 Jane Austen, Pride and Prejudice (1813) 1996, p.29. London: Penguin Books.
5 Jane Austen, Sense and Sensibility (1811) 1990, p. 9. New York: Oxford University Press.
6 Edward Copeland, Women writing about money: women’s fiction in England, 1790-1820 (1995), p. 17-
20. Cambridge: Cambridge University Press.
7 Jane Austen, Persuasion (1818) 1985, p. 215. London: Penguin Books. 
8 Mary Evans, Jane Austen and the State, p. 18, op.cit. 
9 Jane Austen, Pride and Prejudice, p. 120, op. cit.
10 Jane Austen, Emma, p. 149, op. cit.
11 Adam Smith quoted in Edward Copeland, Women writing about money: women’s fiction in England, 1790-1820, p. 8, op. cit. 
12 Jane Austen, Sense and Sensibility, p. 9, op. cit.
13 Edward Copeland, Women writing about money: women’s fiction in England, 1790-1820, pp. 20-
24, op. cit.
14 Jane Austen, Sense and Sensibility, p. 9, op. cit.
15 Michael Watts and Robert F Smith, Economics in Literature and Drama in The Journal of Economic Education, Vol. 20 N° 3 (Summer 1989), p. 293. New York: Heldref Publications.
16 Philip Wicksteed quoted in Michael Watts and Robert F Smith, Economics in Literature and Drama, p. 291, op. cit.

 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 25-29.