Per salvare una pagina di storia e d’arte in Sicilia: la pittura di «regime» di Alfonso Amorelli

A quasi quarant’anni dal lontano novembre del 1969 quando, come egli stesso ebbe a dire nel suo diario Il tempo vola, raggiunse «gli dei, spero quelli veri», sembra che da più parti un rinnovato interesse prema per aggiungere nuovi tasselli al mosaico della biografia artistica di un pittore palermitano forse troppo presto caduto nell’oblio, Alfonso Amorelli (Palermo 1898-1969)1. 

Alla propria pittura, colta ed ingenua al contempo, ma sempre elegante ed armoniosa nel segno, «chiara, gioiosa» nella succosità degli arditi contrasti cromatici, spesso ironica nell’ intenzione, per circa un cinquantennio, dagli anni ’20 allo scorcio degli anni ’70, l’artista chiede di essere «l’unico godimento», il solo spensierato «gioco», capace di aprirgli un varco nel dolore del mondo durante gli anni soffocanti delle due guerre mondiali e dei rispettivi dopoguerra, permettendogli così di continuare a vivere. 

L’iscrizione nel 1913 al Regio Istituto di Belle Arti gli permetterà di fruire dell’insegnamento dei più autorevoli maestri palermitani di inizio secolo, quali Ettore De Maria Bergler ed Ernesto Basile, ma saranno i suoi numerosi viaggi, le otto volte in cui attraversa l’intera Europa in macchina, a consentirgli un’approfondita conoscenza dei movimenti e degli esponenti più significativi dell’arte italiana e mitteleuropea novecentesca, individuabili in filigrana nell’intera sua produzione artistica. 

Dietro i suoi pastiches culturali sono stati rintracciati nomi di noti artisti extraisolani, dai macchiaioli Mancini, Spadini e soprattutto Fattori e Signorini, ai meta fisici De Chirico e Carrà, da Balla a de Pisis, a diversi protagonisti di «Novecento», ma anche di respiro europeo, dai fauves Matisse e Dufy, agli espressionisti Schmidt-Rottluff, Kirchner, Heckel e da Cézanne a Chagall. Ma la grandezza di Amorelli consta nell’operare una distillazione frazionata di queste componenti culturali rielaborandole attraverso l’apparente scioltezza di un tracciato segnico che riesce a sintetizzare mirabilmente l’intimo significato delle cose. 

Quando, intorno alla metà degli anni venti, Amorelli, terminati gli studi all’Accademia, cominciò la sua attività artistica, due erano sostanzialmente le strade che in termini di scelte stilistiche potevano essere intraprese da un giovane smanioso di modernità, l’adesione all’arte futurista o a quella di stampo novecentista. 

Pur partecipando alle mostre organizzate da Pippo Rizzo e dal gruppo dei futuristi siciliani, Amorelli non aderì mai alle formule futuriste accostandosi invece abbastanza precocemente alla sintassi del movimento artistico denominato «Novecento» «con una pittura che, da un lato, sembra voler riprendere nella nettezza geometrica della composizione alcune soluzioni di Casorati e, dall’altro, indulge a una maggiore vivacità cromatica sul modello dell’opera di Carena»2. 

Nel marzo del 1923 veniva, infatti, inaugurata alla «Galleria Pesaro» di Milano una esposizione di sette pittori che, pur provenendo da esperienze artistiche diverse spesso legate alle grandi avanguardie storiche, si ritrovavano nella comune aderenza al generico principio di rappel à l’ordre, attuando cioè in pittura il recupero di temi e modi espressivi della grande tradizione italiana del passato, specie del ‘300 e del primo ‘400. 

Ne nacque un’arte «novecentista», severa e arcaizzante, dalle plastiche forme e 

dai limpidi volumi, dalle luci nette e dai colori compatti, permeata da una sorta di realismo magico, talmente in linea con i dettami della retorica fascista, che, pur proclamando la propria indipendenza, apparve ben presto come arte di regime, arte di Stato. 

L’adesione convinta, anche se a tratti eterodossa, di Amorelli al gruppo, così come quella degli altri novecentisti isolani, durerà pochi anni non superando il limite del decennio, ma negli anni trenta, quando comincerà la sua attività di decoratore parietale per ordine del regime, attingerà motivi e forme proprio dalla poetica di «Novecento». 

Al 1932 risale il primo articolo sulla pittura murale di Mario Sironi, tra i più convinti sostenitori del ritorno alla grande arte italiana e della necessità di creare un’ estetica fascista, cui seguirà nel 1933 la pubblicazione del Manifesto della pittura murale, firmato, oltre che da Sironi, anche da Carlo Carrà e Achille Funi. 

Il regime, rispolverando non a caso una tecnica tradizionale quale 1’affresco, attribuiva alla pittura murale un valore morale e una funzione di propaganda sociale ed educativa, in grado, attraverso figure monumentali e architetture romaneggianti, di condurre le masse al consenso. 

Dopo la decorazione della sede della Triennale di Milano nel 1933, anche in Sicilia si susseguirono esperimenti in tal senso e in quegli anni Amorelli, come Duilio Cambellotti, Arduino Angelucci e altri, fu chiamato ad affrescare spazi pubblici, in particolare 1’Aula Magna del Rettorato (ora Facoltà di Giurisprudenza) e il vestibolo d’ingresso alla palermitana Galleria delle Vittorie dal lato di via Maqueda. 

Mentre l’affresco della sala del Rettorato raffigura un tema della storia passata, l’epopea di Garibaldi a cavallo tra i Mille, i cui gesti enfatizzati come in un melodramma teatrale sono asserviti all’esaltazione delle aspirazioni patriottiche risorgimentali, le pareti della Galleria delle Vittorie celebrano un evento di storia contemporanea, la nascita dell’impero coloniale fascista in Etiopia. 

Lo stesso giorno in cui venne inaugurata la Galleria, il 2 ottobre 1935, Mussolini dichiarava guerra all’Etiopia dal balcone di Palazzo Venezia, auspicando così un novello impero sullo stile di quello dell’antica Roma. TI trionfo venne ufficialmente comunicato dal Duce al popolo italiano la sera del 5 maggio 1936, seguito dalla proclamazione dell’ impero d’Etiopia, esattamente il 9 maggio 1936, probabile termine post quem per la datazione degli affreschi di Alfonso Amorelli alla Galleria delle Vittorie. 

Le immagini raffigurate, allo stato attuale talmente in degrado da risultare . pressoché illeggibili, possono essere ricostruite solo con l’ausilio di alcune foto d’epoca, datate appunto 1936 e appartenenti all’archivio storico fotografico di Dante Cappellani, oggi assemblate negli studi di «Stanze di luce», società addetta alla catalogazione, conservazione e restauro di beni fotografici. II collage fotografico fa scorrere come in una sequenza cinematografica tutti i valori e i miti della retorica fascista, l’esaltazione della patria, della famiglia, del lavoro, la celebrazione della guerra e la «riapparizione dell ‘Impero sui colli fatali di Roma». 

Nell’affresco sulla parete sinistra dell’andito troviamo uomini nudi su magnifici destrieri dalla code e criniere fluenti, che ricordano i cavalli di De Chirico, soldati in trionfo con le insegne imperiali, una Vittoria alata con in mano una serto di alloro pronta ad incoronare il vincitore, e, sullo sfondo, monumenti di Roma, dal Vittoriano, divenuto dopo la prima guerra mondiale tomba del Milite Ignoto e, come tale, Altare della Patria, ad una colonna onoraria, ai resti del colonnato di un antico tempio. Seguono operai a torso nudo dalla muscolatura tesa nello sforzo di spingere un carro armato e ancora il paesaggio roccioso e arido dell’ Abissinia con un etiope che ha ai polsi catene spezzate, nell’intento di far risaltare l’occupazione dell’Etiopia come guerra di liberazione. Sul margine sinistro la scritta Vittorio Veneto funge da ideale collegamento tra la famosa battaglia combattuta tra il 24 ottobre ed il 3 novembre del 1918, che segnò la fine della prima guerra mondiale sul fronte italiano con la disfatta dell’esercito austro-ungarico, e la vittoriosa impresa coloniale operata dal fascismo. 

Sull’affresco di destra momenti di lavoro umano nelle officine, nei campi e nei cantieri navali enfatizzano la fatica degli uomini e degli animali nel supremo sforzo della conquista della natura, del progresso e della civiltà, alternandosi a figure femminili portatrici di ceste, immagini di maternità. La donna dal seno scoperto che tiene in grembo due bambini sembra una riproposizione della Madre Terra, la Saturnia Tellus, uno tra i rilievi più belli dell’Ara Pacis Augustae, eretta in Campo Marzio tra il 13° e il 9° secolo a. C. per celebrare le vittorie di Augusto e la pace portata nell’Impero, e che proprio in quegli anni veniva ristabilita dal governo fascista. 

Il linguaggio di «Novecento» si palesa nel «realismo neomichelangiolesco» dei corpi dei lavoratori, arsi dal sole e quasi imprigionati nelle forme titaniche dell’eroe greco «di un realismo nitido e limpido, esaltato da un tessuto cromatico in cui primeggiano ocre e terre di Siena»3, nella sublimazione del quotidiano. Un muralismo dai toni retorici, celebrativo della mitologia nazionalista e di una romanità di cartapesta, in linea con i valori epico-popolari cari alla mitopoiesi fascista, cui Amorelli, pur mostrando una tecnica consumata, non sembra aderire sentimentalmente. 

Agli inizi degli anni Quaranta Alfonso Amorelli riceve un’altra importante commissione da parte del governo fasci sta, il compito cioè di affrescare gli edifici pubblici e di culto di alcuni borghi rurali costruiti in varie zone dell’isola nell’ambito della vasta attività di colonizzazione, il cosiddetto «assalto al latifondo», operata dal regime per il ripopolamento delle campagne siciliane. 

La politica economica della dittatura, volta a far raggiungere al Paese l’indipendenza dalle importazioni straniere e a ridurre i costi, spingeva i costruttori ad avvalersi di materiali e tecniche costruttive locali abolendo il superfluo specie nelle decorazioni. 

Nel 1940, nasce nel Comune di Trapani il borgo «Amerigo Fazio», su progetto dell’architetto Luigi Epifania, con una chiesetta all’interno dedicata, come già prima la Galleria delle Vittorie, alla «Beata Maria Vergine della Vittoria»4. Nel suo studio sulla colonizzazione del latifondo siciliano Maria Accascina, riguardo all’opera decorati va di Amorelli, cita solo gli affreschi dell’edificio di culto proprio di Borgo Fazio fornendoci una preziosa testimonianza del soggetto raffigurato: «Nella chiesa il candore delle pareti è appena variato dai tagli delle arcate e delle linee delle paraste che ascendono agli oculi e ne ricadono come parati. Solo nell’abside, seguendo la tradizione meridionale, interviene, con la sua nota vivida di colore, un affresco del pittore Amorelli rievocante la Vergine col Bimbo che accetta l’offerta del borgo»5. Purtroppo dell’affresco, distrutto dall’incuria degli uomini, così come l’intero borgo, rimane oggi appena visibile un piccolo brano, raffigurante un uomo affiancato da un cane con esili alberelli stilizzati sullo sfondo, e in alto il piede di un angelo inginocchiato e i terminali delle due ali. 

Nello stesso torno di anni vennero edificati altri piccoli centri, tra cui Borgo Rizza, progettato da Pietro Gramignani nel comune di Siracusa, e Borgo 

Bonsignore, su disegno di Donato Mendalia ad Agrigento, arricchiti dagli affreschi di Amorelli, come ricorda la nipote del pittore Maria Teresa Amorelli: «Appena arrivata a Palermo trovai Fofò impegnato nella preparazione degli affreschi per alcuni borghi rurali, progettati dall’ archi tetto Luigi Epifania, nell’agrigentino, nel trapanese e nel siracusano (Borgo Bonsignore, Borgo Fazio e Borgo Rizzo) e fui molto felice di posare per qualche bozzetto. Il suo tratto era immediato e la mia posa era di breve durata»6. 

A Borgo Bonsignore le pitture che decoravano la casa del Fascio sono del tutto scomparse, rimane invece l’affresco absidale della chiesa, incautamente restaurato nel 1977 da un certo Alfonso Marino, che rappresenta, come già nel centro rurale trapanese, l’omaggio del Borgo alla Vergine. Nel registro inferiore sono, infatti, uomini in atto di riverenza e donne con ceste di frutti sulle spalle o sul capo che richiamano la portatrice dal seno scoperto della Galleria delle Vittorie, mentre in alto la Vergine con il Bambino sono affiancati da due angeli inginocchiati verosimilmente nella posizione dell’angelo di Borgo Fazio di cui rimane solo un frammento. 

A proposito dell’impegno decorativo di quel periodo, lo stesso Amorelli, parecchi decenni dopo, nel suo diario Il tempo vola scrive: «In Sicilia nascevano i borghi rurali. Ricevetti l’incarico di decorarne alcuni. Chiese, case del fascio. Mancava acqua, strade e la luce; ma non gli affreschi ed il fondatore dell’impero a cavallo», accompagnando il suo pensiero con un interessante disegno stilizzato raffigurante in basso un uomo a cavallo con la spada sguainata e in alto una Madonna col Bambino tra due angeli, ovvero la medesima iconografia utilizzata per affrescare le absidi delle chiese dei borghi Fazio e Bonsignore7. 

Nulla, invece, perdura dell’attività decorativa del pittore a Borgo Rizza, vicino Carlentini, ormai abbandonato e distrutto. Fortunatamente parecchi anni fa un hobbista del luogo, appassionato di fotografia, ha voluto immortalare i pochi resti degli affreschi allora visibili. L’immagine mostra una sorta di collage di iconografie amorelliane, in primo piano un uomo all’aratro con due buoi aggiogati, del tutto identico all’analogo soggetto della Galleria delle Vittorie, una madre col figlio e un altro uomo piegato, forse intento a togliere dei massi per agevolare il dissodamento, mentre sullo sfondo si intravedono un acquedotto romano e contadini al lavoro nei campi. Sono scene di vita reale dove uomini e animali condividono l’esistenza quotidiana in una esaltazione dell’etica del lavoro e della famiglia funzionali all’estetica del regime. 

Da quegli inizi Alfonso Amorelli continuerà l’opera di decoratore parietale per tutto l’arco della sua esistenza sia in case private che in luoghi pubblici, ma di questa attività purtroppo, a causa della demolizione degli edifici palermitani Liberty e decò in alcuni casi e dell’opera di ammodernamento in altri, come l’Extrabar Olimpia, ben poco ci rimane. 

Tra gli affreschi ancora godibili, anche se di alcuni decenni più tardi rispetto ai dipinti fascisti, si conservano quelli eseguiti per alcuni padiglioni della Fiera del Mediterraneo, il pannello dell’Albergo Mediterraneo in via Rosolino Pilo e il fregio recentemente restaurato dell’ippodromo di Palermo. Al realismo lirico degli anni Trenta si sostituisce quasi sempre in queste ultime opere murali, così come in quelle coeve su cavalletto e nei disegni, una vena ironica e decorativa che si sostanzia di una stilizzazione cristallina e di colori brillanti, programmaticamente disimpegnata e avulsa dalle ideologie e dalle diatribe del tempo e di segno del tutto diverso rispetto alla decorazione commissionata dal regime. 

Nella sua autobiografia Il tempo vola scritta negli ultimi anni di vita, tra disegni e brevi riflessioni, Amorelli dedica una pagina alla figura del Duce riproducendolo con una enorme ciste sulla testa calva e annotando: «Mussolini venne ad inaugurare la Quadriennale romana. La grossa ciste sulla testa rapata, mi ridimensionò il mito Benito»8. L’avversione che l’artista, per «istintivo convincimento», professò sempre nei confronti della «verbosità confusionaria» spiega la mancata adesione sentimentale, l’ estraneità nei confronti della retorica fascista, che nulla toglie, comunque, al valore intrinseco storico e artistico della sua pittura di propaganda. 

Appare, dunque, imprescindibile l’immediato restauro degli affreschi della Galleria delle Vittorie che, insieme all’inedita produzione dei borghi rurali, costituiscono un documento di storia e d’arte, testimonianza di un evento fatidico del nostro recente passato nazionale e pagina essenziale per la comprensione della biografia artistica del pittore Amorelli che, purtroppo, il passare del tempo e la distrazione degli uomini rischiano di stracciare per sempre. 

Isabella Barcellona

NOTE 

1 Per una bibliografia esaustiva su Alfonso Amorelli cfr.: Amorelli, a cura di A. M. Schmidt, catalogo della mostra, Palazzo Steri, Palermo, 14 febbraio – 8 marzo 1997; Alfonso Amorelli, a cura di A. Schmidt, Roma, 2002. 
2 S. Troisi, Amorelli, Alfonso, in La pittura in Italia, Il Novecento / I, 1900-1945, tomo secondo, Milano 1992, p. 733. 
3 A. M. Ruta, C’era una volta la Galleria delle Vittorie. Palermo, città senza memoria, in «Palermo», gennaio 1993, pp. 42-43. 
4 La notizia si evince da un manoscritto redatto nel febbraio del 1947 da Salvator Ballo Guercio «Episcopus Mazarien» e attualmente depositato presso l’archivio della Curia Episcopale di Mazara del Vallo. 
5 M. Accascina, La colonizzazione del latifondo siciliano. I borghi di Sicilia, estratto della rivista «Architettura», fasc. maggio 1941 – XIX – Annata XX. 
6 M. T. Amorelli, Lo zio Fofò, in Amorelli ... , p. 29. 
7 A. Amorelli, Il tempo vola, Roma, 1970. 
8 Ibidem  

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 25-30.

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