Riflessioni sull’opera poetica di Artur Rimbaud 

La poesia moderna e tutte le poetiche in generale, pure appoggiandosi all’idealismo kantiano, attuano una ricerca all’interno della ragione umana. 

Gli studi dello strutturalismo e della linguistica moderna con la teoria della semantica e della semiologia, ma anche della filosofia e della psicologia, sollevano la poesia al rango delle scienze umane più alte e sofisticate nonché stimolanti. 

La poesia che punta sul significato del significato, secondo l’insegnamento del De Saussure, deriva dalla poetica di Mallarmée di Rimbaud, quel pazzo scatenato e ostinato a cogliere con una critica radicale le relazioni tra parola e mondo, l’uomo e il suo destino, la parola essenziale e significativa per le sue speranze avveniristiche, sempre minacciate. Ecco che il linguaggio che non riesce a sciogliere la contingente umana, e non ne vuole far parte, si interiorizza, si fa difficile per esplicitare ciò che è altro dal mondo esterno e diventa rivelazione, creazione. Il je suis un autre di Rimbaud sta alla base di questa ricerca per un ritorno alla sorgente ontologica, anteriore all’uomo stesso, anteriore al battesimo, quando il terrore dell’inferno non era preda della malizia umana. Tra la parola e il mondo corrono abissi di infrastrutture inquinanti per cui la parola ritrova il suo alveo d’amore primordiale con le analogie da decifrare nel profondo inconscio, per attingere il linguaggio in una forma comprensibile con quel tanto di chiarezza ascetica. 

La società brutale e superficiale ha ridotto la nostra identità ad una finzione, la poesia non può aderire ad essa, anzi deve essere rivelazione di questa finzione nel senso di ri-levare, togliere i veli della maja con intuizione spesso profetica sul tagliente filo del silenzio del mitico vate. 

Se la Parola – era in principio – può anche condurci alla fine con le conseguenze facilmente intuibili: una civiltà dalla parola svalutata e menzognera è dopo la parola, ha perduto il Verbo; la verità della parola non è più qui. «Io sono un altro», dice Rimbaud perché vuole dare forma e sostanza alla propria raison d’être. 

La poesia non è commento, è l’essenza dell’essere che viene ad essere; riesce a prolungare la sua eco all’infinito; solo le poesie deboli, incapaci di penetrare il mistero dell’uomo, non si espandono e muoiono nel loro significato già scontato. Non si tratta di rivelare dati occulti o stregoneschi (come dice chi non sa captare il linguaggio dell’inconscio), ma riuscire a trarre da sé la melodia che viene ad abitare il poeta, la parola adatta a significarla, ri-velazione di una presenza reale. Per Platone il rapsodo è un posseduto dal dio, il daimon che entra nell’artista dominandolo, oltrepassando i confini della sua persona. Il mistero della creazione poetica e artistica è in questa ricezione vitale, sempre sofferenza dal momento ispirativo alle infime ragioni della morte! Sfida e lotta con la Creazione è quella di Giacobbe con Dio; come la sfida della poesia è data dalla sinfonia interiore, così l’arte di Michelangelo ha potuto riversarsi nella Cappella Sistina. «Dio, l’altro artigiano», disse Picasso; in effetti, se il modernismo non sperimenta più Dio come competitore, non può che lottare con l’ombra di se stesso: donchisciotti alla sbarra di un mulino senza vento. 

La lotta di Rimbaud con Dio è stata eroica, dallo scoramento più profondo alla grandiosa intuizione cosmica; scrive: «Perché Cristo non mi aiuta dando alla mia anima nobiltà e libertà» e piange sulla corruttibilità del mondo che ha perduto il Vangelo, e dice: «aspetto Dio con ingordigia». 

L’espressione lirica di Rimbaud nasce sfida come linguaggio privilegiato sulle orme di Mallarmée di Baudelaire che, saltando sdegnosamente il materialismo contingente e opportunista e l’arrivismo economico intesero chiudersi in una torre d’avorio per purificare il linguaggio dalle devastanti infiltrazioni e rifugiarsi in un ideale assoluto nella réerie o imagination, detta “fantasia” da Croce per l’impossibilità di poter cambiare il mondo reale; tentativo operato da Rimbaud fin tanto che la sua giovanile esperienza gli ha suggerito, dopodiché è prevalso l’orrore e il conseguente – cattivo sangue – l’ha portato ad immergersi in quell’orrore. 

Rimbaud era maturato in fretta, dai sedici ai ventitrè anni la sua produzione poetica, poi il crollo delle sue speranze e l’abbandono definitivo dalla scena letteraria. Era maturato in fretta con la frequentazione intensa di lirici latini e greci, francesi, inglesi. La poesia per Rimbaud non deve seguire, ma precedere l’azione, secondo l’indicazione dell’antico vate, per modificare il progresso dalle sue strutture, e farsi carico del dolore degli uomini miti. Purtroppo, il poeta sperimenta solo indifferenza e delusione; il Bateau ivre, dopo avere scoperto oceani immensi, arcobaleni fioriti, affonda in una pozzanghera di fango. In questo il poeta ritrova il dolore del bimbo alle prese con la sua barchetta di carta che affonda miseramente, come lui stesso fragile e insicuro, con la nostalgia dell’infanzia, la sua etàdell’oro intravista e persa. 

Une saison en enfer, sua penultima opera, trae dalla prosa evangelica di Betsaide la sua drammaticità Gesù il divino Maestro, non può restare a lungo in questo luogo di perdizione, di dannati, bisogna uscirne, è pericoloso, tutto diventa cattivo; liberarsi del mondo diventa per Rimbaud liberarsi della Croce per sentirsi libero. Ma quale libertà Quella degli infelici, tanto vale vivere tra gli infelici, i semplici, lui angelo decaduto, fuori di ogni convenzione. Disprezzo e carità diventano il suo credo, il suo biglietto valido per accedere ad un posto in cima alla scala angelica di valori, quelli dello Spirito. Rimbaud è molto convinto di ciò il resto è un fuggire continuo, per finire tra i figli di Cam per ritrovare solo in Africa la propria natura primitiva. 

Restaurando la propria infanzia, egli identifica una esperienza primordiale, vero negro in rivolta, libero dalla civiltà corrotta e dal linguaggio immondo di mostruosi sfruttamenti, industriali e commerciali, dove la farsa continua del vivere sarebbe pianto amaro. Non gli è più possibile sottomettervisi ancora, dice, se è chiaro che questa civiltà sarà seguita dallo sterminio del pianeta. Veggenza? Stregoneria poetica? Purtroppo non ebbe la meglio sulla stregoneria politica che doveva coinvolgere con i suoi tentacoli tutto il mondo occidentale; non potè assistere a quest’altro sfacelo, la sua chiave esoterica indebolita dal male, anziché aprirsi a possibilità polemiche, si rinchiuse definitivamente in un sepolcro di rinuncia. Implora il coraggio di amare la morte! 

Nel 1980 uscì il libro di Giovanni Testori Conversazione con la morte in cui l’Autore si pone dei quesiti in parallelo a Une saison en enfer di Rimbaud, poeta che finora è stato interpretato in una chiave sbagliata. Testori, per altro quasi dimenticato perché scomodo con le sue teorie spiritualistiche, dice di Rimbaud: «è l’ultimo grande poeta profeta che abbia parlato all’uomo. E non è un caso che egli, proprio nell’ultimo capitolo del suo poema abbia ritrovato le parole della Bibbia e che le abbia messe in corsivo come sigillo al suo grido di rivolta e di dolore». 

Degli amori menzogneri di cui finalmente può ridere, Rimbaud lancia un grido di gioia perché dice, finalmente potrà possedere la verità in un’anima e in un corpo. Ora questo grido bisogna intenderlo nell’unica chiave che gli dà senso: la chiave religiosa. Rimbaud aveva già capito tutto in anticipo e, per questo, Testori lo chiama profeta. È stato Dio che lo ha illuminato, riferisce Testori, ed è fuori di dubbio che anche le Illuminations rimbaudiane abbiano avuto lo stesso mittente. Dopo aver toccato il fondo si intravede per lui l’antica sfida che qualcuno seppe leggere nei Fiori del male di Baudelaire: tirarsi un colpo di rivoltella, o fare un giusto ritorno ai valori umani. 

È questa la condanna e la svolta richiesta dall’anonimato della vita di questo ultimo scorcio del XX secolo, 

dove l’alienazione illude di risolvere ogni problema in permissività e violenza. Anche della Ragione e dell’Intelligenza abbiamo finito col servircene più male che bene, approdando purtroppo aridamente alla «illuminata demenza della Ragione», afferma sempre Testori. 

Tremiamo. Il “Viaggio in Paradiso”, descritto in Conversazione con la morte, gareggia con la Saison en enfer: i fiori del male scompaiono nel “popolo di nebbia” testoriano. Solo il Mostro, lei, la Ragione, ansima, rugge, compie stragi e ne compirà più avanti, «infinite nascite orrende / infiniti orridi genocidi / per poter salire là/ dove siede l’ombra del Perduto, / il suo vuoto: / la meta della Bestia è il suo trono». L’Apocalisse si profila all’uomo del XX secolo cosìcome il Battista avvertìnel deserto: «Se voi vincerete la Bestia, il vuoto si riempirà». 

Da questo disagio, il male potrà dissolversi e lo Spirito trionfare, tornare al primitivo splendore innocente nel grembo materno. Come Rimbaud, dice Testori della morte: «Non bisogna averne paura, se voi provaste a chiamarla prima sottovoce, quindi portando la bocca sulle sue orecchie, più sottovoce ancora; se voi le sussurraste Madre, anzi Mamma, così Mamma! Che musica dolce, ondulante, quasi una nevicata sommessa ed infinita, quasi una lontanissima piva dei Natali che abbiamo distrutto, ucciso, sepolto… È un esercizio d’amore, l’unico che arrivato dove sono posso insegnarvi. Quella emme che mormora e bela, quella su cui ci si può distendere sempre, in ogni ora, dopo ogni gesto, perfino dopo un delitto; poi, due mormorii che la seguono, uno dentro l’altro, uno sull’altro come il gesto che ci cullava bambini e non avevamo ancora capito, ancora eravamo illusi di non aver capito che quelle mani ci stringevano per consegnarci a una resa». 

Ancora ci fremono dentro le parole profetiche di Testori quando, con quella genialità che gli è propria e che dopo Rimbaud non s’era piùavuto modo di ritrovare, confessava: «L’uomo non può essere tutto imprigionato dentro la materia del suo corpo mortale. Il corpo è il supporto che regge l’anima; quando si cerca di soffocarla il corpo o meglio la Ragione non ha più pace, si ammala ed escogita nefandezze; ma se prima o poi l’anima rompe la pressa che la serra tenderà a rivelare il suo mistero eterno, quindi a profetizzare sulla nostra cecità». 

Cos’è che angosciosamente preme in noi se non uno spasmodico desiderio di verità Gli scettici chiusi nella loro mentalità frontale senza una forte volontà di uscirne, mai potranno addivenire alle bellezze dischiuse ed infinite dell’anima soave. La disperazione delle Illuminazioni, profusa da Rimbaud, traccia l’inquietudine dei giovani moderni. 

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 33-36.

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