Michele Digrandi, pittore della memoria

Se volessimo racchiudere, nel giro di poche parole, la pittura del ragusano Michele Digrandi, diremmo che la sua è una pittura della memoria, nel senso che, a parte le varie aperture insite nelle sue tele, presenta il mondo isolano di una volta, pur con il rischio di vederlo da qui a poco tempo ancor più modificato e reso irriconoscibile. 

La ricerca pittorica del Digrandi è tesa, di proposito, su questo doppio binario: da una parte, il paesaggio millenario, calcificato e quasi ancestrale, di quella zona orientale della Sicilia che gli ha dato i natali, dall’altra, una sua possibile salvaguardia, che non può essere data se non dalla denuncia di un degrado che non è solo ambientale, ma umano e sociale al tempo stesso. E se è vero che alla base di ogni intento artistico c’è un movente emozionale che spinge l’autore a riversare quanto ha dentro, è pure vero che Digrandi, sotto una ben celata bonomia, esprime la rabbia di chi, pur volendo, è messo nelle condizioni di non poter fare nulla e di subire lo scempio che viene perpetrato ai danni dell’ambiente, nel nome di un progresso inumano e ripugnante. 

Pittura della memoria, dunque! Se il pericolo è nella quotidianità che tende a distruggere ogni cosa. ecco il pittore che, novello Noè, salva ciò che può, cogliendo, con i colori che sono suoi, la natura nello stato primordiale, ai più recondito, ma vero, della sua terra, per fissarla nel tempo e nella memoria degli uomini. E allora le pietre, che di questa natura sono parte integrante, occupano un posto di rilievo, le coltivazioni tendenti al biondooro, i carrubi con il loro verde vivo e la loro ombra ristoratrice. il mare e il cielo risplendono e esplodono di luce e sono la manifesta effusione di quella solarità mediterranea tanto presente e insistente nelle opere del nostro pittore. 

Ma le pietre – si osservi bene Veduta, a cui ci riferivamo sopra – non sono un elemento ornativo. Esse testimoniano lo scorrere dei secoli e la lunga, dura fatica degli uomini, e ci riportano, a parte l’apertura al mare, alla vocazione puramente agricola della Sicilia (nel tempo disboccata e spietrata per guadagnare spazio alle coltivazioni), e ora tradita, nel nome di una falsa industrializzazione che palesa i suoi lati negativi e più deleteri: un consumismo sfrenato che non perdona a nessuno, nemmeno all’ambiente, come in Triste realtà, contaminato da rifiuti e da residui nocivi. 

Il realismo così concepito non è una mera trascrizione del vissuto quotidiano, così come gli ampi paesaggi non distendono solo gli occhi e la mente: esso è presa di cos~ienza, partecipazione attenta, di uomo e di cittadino, a quelli che sono i problemi che travagliano la società odierna e attentano alla sua sopravvivenza. La trota, che vediamo guizzare fuori dall’acqua, in un dipinto del 1987 che ha per titolo Fuga 2, simboleggia proprio questo. Essa, come d’altronde ogni essere vivente, è spinta dallo slancio della disperazione, non volendo sottostare e morire nella morsa dei tentacoli di una piovra che stringe e soffoca il mondo. 

Il simbolismo, qui più che mai, è pregno di un messaggio niente affatto retorico, o comune, bensì portatore di una denuncia che dice tutto lo scontento di chi passivamente non accetta la depravazione in cui l’uomo è andato via via cadendo e, al tempo stesso, è rivelatore di un ottimismo che, seppure latente, spinge a ben sperare. Segno, questo, che l’uomo ha ancora una forte capacità di rivalsa che gli permette di guardare il mondo e di coglierlo nei suoi aspetti più genuini e buoni. Così, in Tentazione, se c’è il serpente che s’incunea tra gli incastri delle pietre, a secco diligentemente sopramesse, c’è pure un mare aperto, e la vita che dirompe, in un colore azzurro chiaro che, di per sé, rasserena e distende: e, anche se un globo, all’orizzonte, è in una non ben definita posizione, tutto lascia presupporre che sia proteso verso l’alto. 

Come può ben notarsi, Digrandi dà grande importanza agli esseri inanimati e non, e fa in modo che essi parlino attraverso il simbolo che rappresentano. L’uomo, a prima vista, sembrerebbe l’escluso di questa pittura, mentre, invece, essa si sviluppa e trova la sua ragion d’essere nell’esistenza umana, resa tanto problematica e travagliata da non riconoscetvisi. Eppure, basta che ci si guardi attorno per affermare ancora una volta che la vita va vissuta nella sua interezza, con occhi bambini o, se vogliamo, con quelli degli animaletti o degli insetti che popolano la natura, per gustarla e amarla. Si veda, a esempio, Inno alla vita, dove rettili, insetti, uccelli, “cantano” effettivamente nella pienezza di un giorno luminoso la vita, mentre un pulcino sta sgusciando e un carrubo secolare, con un fusto nerboruto, affonda le sue radici in un terreno pietroso. 

Michele Digrandi dipinge una natura luminosa, non segnata dallo scandire monotono del tempo, che sembra essersi fermato per sempre, dove il reale sconfina nell’irreale, per riproporsi e fissarsi nella mente con la sua originaria semplicità. Piante comuni della terra isolana (il carrubo predomina anche nei suoi disegni) e fiori traboccanti di colori e di odori e, ancora, api, farfalle e ogni altra manifestazione di vita che, pure nella distensione della luce, dicono il loro risveglio e la loro laboriosità. 

Questi paesaggi così solari, descritti con una precisione fotografica, e ricchi di particolari, hanno in sé una patina di surreale, come se si trattasse di un mondo chissà quale, frutto veramente di un preciso momento che segna il passaggio dalla realtà al sogno, perché di sogno si tratta, piacevole come in Inno alla vita, o rilassante nella sua solarità, come in Veduta, o, ancora, che scuote e lascia pensosi (Fuga 2 ). L’evasione dalla realtà, per Digrandi, altro non è che aderenza piena. totale, alla vera realtà, quella che il più delle volte sfugge all’osservatore, indifferente o distratto, che così non riesce a cogliere l’essenza vera della vita. 

Questo surrealismo, che è un atteggiamento più o meno presente nella maggior parte delle tele del pittore Digrandi, non è una forzatura, e nemmeno un partito preso (anche nei dipinti più manifestamente impegnati, come in Fuga 2); è qualcosa di insito, dovuto certamente alla sua frequentazione dei maggiori artisti e movimenti avanguardistici della nostra epoca. ma, comunque, connaturato al suo modo di intendere l’arte e la vita. Ciò effettivamente fa pensare ad un legame artistico-spirituale con i surrealisti maggiori. Non a caso, ci viene di ricordare René Magritte, a proposito della minuziosità compositiva. Come in Magritte. c’è in Digrandi (“Genesi n. 3“) una predisposizione naturale a cogliere nel suo insieme ogni tassello, ogni elemento che, a prima vista. potrebbe apparire insignificante e che, invece, costituisce e ci restituisce il tutto. 

Una minuziosità, quella di Michele Digrandi, che fa pensare alla laboriosità meticolosa dell’ape, tante volte oggetto dei suoi quadri, e che parla con il linguaggio semplice di tutti i giorni. Provate a osservare l’incastro delle pietre posate l’una accanto all’altra, degno lavoro di un abile pietrista, oppure il fusto di un carrubo, pieno di rughe nerborute che dicono la sua voglia di vivere o, ancora, la trota. o la piovra con i suoi tentacoli e le ventose: sono di una precisione impressionante! 

Abbiamo parlato di solarità mediterranea in uno spazio atemporale, e questo perché la poesia supera i limiti del tempo e s’impone e dirompe con la forza che le è propria. La poesia dei colori, nella pittura di Digrandi, esercita un fascino che non è facile dimenticare; essa è purificata dall’atmosfera di sogno. a cui ci siamo riferiti. e ha in sé la bellezza e la freschezza di un idillio. A tutto questo egli giunge grazie a una consumata perizia che gli permette di utilizzare le tecniche più diverse, dalle pitture acriliche ai pastelli, o ai semplici disegni. per esternare quell'”io” profondo che è alla base della sua ricerca artistica e umana. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 41-44.

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Di Ugo Carruba 55 Articoli
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