V. Monforte, Il padrino di mio padre.

È un libro che merita attenzione. Per vari motivi, ma anzitutto per la sua originalità, che emerge già dalla qualifica di .romanzo amaristico. dichiarata in sottotitolo e che, seppure perseguita programmaticamente, non perde mai l’importante requisito della naturalezza. 

Occorre allora, a intendere correttamente l’opera, cercare una definizione di questa novità che è l’.amarismo•. È definizione non facile. anche se l’autore ci fornisce. nell’avanti-testo, a mo’ di sussidio critico. le caratterizzazioni essenziali di alcune varietà di umorismo letterario con cui l’amarismo ha qualche relazione. Ma sono cenni. appunto. essenziali, riguardano forme poco note, fors’anche perché straniere. e ne indicano. sostanzialmente, l’alterità rispetto all’amarismo. in quanto limitano l’elemento comune a una certa misura di assurdo o di paradossale. Insomma, aiutano poco. Se ne può sapere di più, sull’amarismo, solo prendendo contatto col libro e per esso, in questa sede, con la sua trama. La sintetizzo subito e rimando a dopo l’esame della sua funzione. 

Al protagonista, che è poi persona cui l’autore dà forma di io narrante, capita che, quando è in età di dodici anni, gli nasca il padre! Giacchè ogni neo-nato va battezzato e per battezzare ci vuole il padrino – e il neonato stesso lo reclama con i suoi strilli – il protagonista si assume il compito di trovarglielo. Ma sulla terra ciò è impossibile, perché essa è deserta di uomini (attenzione al doppio senso!), e allora egli, arrampicandosi sulle stelo di una zucca nata da un seme posato entro una buca da lui scavata in terra e arrivata, in appena mezz’ora, a toccare il cielo. lo va a cercare sulla luna. Qui l’amoroso pellegrino viene a conoscere un mondo nuovo, la vera terra, abitato da una comunità di esseri in cui una sorta di profeta, Equatore (nome da intendere in senso etimologico e non geografico), ha realizzato un certo numero di antiche aspirazioni sociali quali l’eguaglianza e la libertà, l’identificazione delle esigenze proprie di ciascuno con quelle dei propri simili, la possibilità di appagare tutte le esigenze proprie, anche quelle naturali, appagando le altrui. Qui, dopo una serie di esperienze soprendenti, il nostro cercatore trova il padrino desiderato, un certo Zero, cioè un non valore. È un tipo anch’esso strano, ora onesto ora corrotto, ora placido ora irascibile, che viene subito meno al suo compito, perché appena arrivato sulla terra scompare. La nuova ricerca il figlio tanto zelante la conduce nel paese di Sitrovantutte, una sorta di aldilà che accoglie uomini che vivono una vita assai strana, non da uomini ma neanche da bestie. Questo paese il protagonista visita guidato da un Vecchio che tutto gli spiega. Zero viene ritrovato e, dopo una lunga serie di contrasti col Vecchio e col giovane, battezza il padre, ma solo attuffandolo in una avvilente palude. 

Una simile trama è, chiaramente, soltanto un pretesto. Appena un canovaccio su cui ricamare un tessuto fittissimo di trovate, di battute, di sottigliezze, di paradossi, di assurdità – tali almeno appaiono di primo acchito – le più ardite e impensate. La qualità più spiccata del Monforte è proprio questa sua capacità inventiva, prima di tutto, formale. Egli inventa sia sul piano dei fatti sia, e più ancora, su quello del linguaggio. Non è un caso che il numero delle vicende sia ridotto entro termini minimi e che il racconto sia costruito quasi tutto attraverso il dialogo. Le didascalie apposte alle battute ed esprimenti, in maggioranza, lo stato d’animo del protagonista hanno sì la funzione di mandare avanti la vicenda ma soprattutto mirano a sottolineare l’eccezionalità di quanto viene detto. 

Fondamentalmente, l’ironia si esercita sulla ideologia che condiziona la vita di quella società. I lunari, ad esempio, nella loro ansia di eguaglianza, hanno abolito i nomi propri e per chiamarsi hanno scoperto che bastano i numeri. 

Costante è il gusto del paradosso. Basti dire che al protagonista la fame passa perchè i lunari hanno mangiato per lui. Il che è ancora un effetto della teoria e della pratica dell’uguaglianza. Tra eguali, infatti. è sempre possibile che ci sia qualcuno che mangi la razione propria e, per gli altri, quella di altri. Anche il lavoro del resto, e come il lavoro il riposo, non sono tutti a farlo: i lunari sono o lavoratori o riposati: ognuno svolge una mansione, ma la svolge anche per gli altri, sia essa il lavoro o il riposo, e fino al punto che i lavoratori morirebbero di stanchezza se non ci fossero i riposati a riposare. Ormai l’intenzione di Monforte è chiara. Egli ha voluto fare oggetto di pungente satira teorie sociali da lui non condivise. Il loro crollo storico, posteriore allibro, gli avrà dato certo una bella soddisfazione. 

Comunque l’opera va apprezzata indipendentemente dall’ideologia che sottintende. Notevole, ad esempio, la varietà dei moduli stilistici: la battuta a sorpresa, le antitesi, i neologismi. 

Ha un certo peso anche la cultura letteraria dell’autore. L’eccezionalità e il conseguente umorismo di certe situazioni hanno chiaro fondamento sul gusto ariostesco del meraviglioso e dello straordinario, così come l’orrido di certi paesaggi e l’imbestialimento di certe figure umane richiamano direttamente certi passi dell’inferno dantesco. Sono, però, elementi che qui hanno tratti più realistici e al tempo stesso altrimenti simbolici. Tutto concorre a creare un’atmosfera pienamente adeguata alla particolare stranezza e cupa novità del luogo, un’atmosfera da ‘visione’ medievale ricostruita dalla mente smaliziata di un uomo dei nostri tempi, un uomo che, impegnando a suo modo buone capacità, di pensare e di esprimersi, si è divertito, diverte, e al tempo stesso induce a qualche proficua meditazione sull’epoca in cui viviamo. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 53-55..

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