«Poeti», «Poesia», «Poemi»

Il postino dell’Ostiense infilava nella cassetta delle lettere invito a chi invito non aspettava e con la borsa di grasso cuoio a spalla se n’andava ad infilare altri inviti nelle cassette delle case che fiancheggiano viale Aventino.

Dal Circo Massimo van le case in duplice fila fino a Piazza Albania sorvegliata da Alì Skandaru Berg, castriota eroe skipitaro che immobile di giorno, immobile di notte scavalla sul tozzo destriero che leva la testa ma non abbassa la coda come il prode cavaliere che leva la testa ma non abbassa la curva scimitarra: terrore dei Turchi seguaci del Profeta e degli Iman.

Quel postino traditor dei figli di Dio. amico di Satana e seguace delle sue pompe, non immaginava qual cumulo d’ansia cacciava con l’invito in chi invito non s’aspettava: tanta ansia nei precordi dell’uomo invitato a presentar libro di poesie nella Biblioteca Nazionale in Viale Castro Pretorio nell’Urbe Roma.

L’uomo invitato sentiva soddisfazione per il riconoscimento alla sua cultura e alla sua oratoria ma dal cervello gli stillava stillicidio di paura per la congenita sua incapacità ad intendere i poeti contemporanei, tanti dei moderni, tanti delle passate generazioni, ammirando il cardinal d’Este che non capiva l’Ariosto. L’uomo tra la soddisfazione: figlia della vanità, e la paura: figlia dell’ignoranza, vedeva i giorni trascorrere, sentiva passare le notti ma la tenebre non squarciava lume di speranza.

L’uomo ruminando al buio e masticando al chiaro, agitandosi all’interno e all’esterno battendosi a due mani il petto, o ad una mano l’anca come facevano gli eroi Achei sulla spiaggia del lido reteo, non vedeva luce capace di sfondare il muro della sua ignoranza. Nessuna speranza per chi con .folle ardire e temeraria audacia» non aveva prestato orecchio ai filosofi che la san lunga e lunga la dicono sulla filosofia; non aveva dato ascolto ai filologi che la san lunga e lunga la raccontano sulla filologia; non aveva piegato il capo davanti ai teologi che la san lunga e lunga la dicono sulla teologia.

L’uomo nella sua insipienza acerba aveva fatto suo il motto: «Nec unquam Philosophum audivit»! che Cneo Pompeo Trimalchione Mecenaziano voleva nella «nomenclatura» del suo funebre monumento1.

L’uomo non poeta: poeta si nasce, non si diventa poeta; il poeta non matura se tempo e paglia maturano solo le sorbe nelle ceste; di questo convinto, l’uomo a tutta. possa scansava la tentazione della poesia che novella Morgana gli faceva vedere l’inesistente per esistente come capitava a sant’Antonio che ne vedeva nel deserto delle sue tentazioni più di cento e mille.

L’uomo si convinceva: chi indegno del nome di poeta, indegno di salire scalzo alla vetta del santo Parnaso, indegno di scandire scalzo la cima del sacro Elicona. Spuntava il giorno della conferenza: paura nei precordi di chi nell’ambascia della miseria si ripeteva le parole del Sulmonese che al figlio Ovidio in estro di versi e in fregola di poesia raccomandava:

«Meonides nullas Ipse reliquit opes»! 2

e quel padre non poteva prevedere che versi sciagurati avrebbero costretto quel Nasone di figlio ad esulare dall’Urbe amata all’odiata terra pontica, sulla costa «a lido» del Mar del Ponto che i Geti autoctoni chiamavano «Akshaèna», i commercianti greci d’lstria, di Tomis, di Callatis chiamavano «Axeinos», i Romeni d’oggi chiamano «Marea Neagra»3, per finirvi nella miseria della desolazione i giorni della sua abiezione.

Stringeva l’ora e l’uomo con la sua sposa, lasciate le remurie e l’antro di Caco ladrone, raggiungeva Castro Pretorio: la non agognata meta imposta. I due sposi sorreggendosi con regime di braccio e con parime di parole, superato il ponticello in ferro gettato sul cantiere della Metropolitana «A», raggiungevano la Biblioteca Nazionale e v’entravano con passi non diversi dai passi dei Marsigliesi chiamati dal banditore ad allungar sul pieghevole tavolo della ghigliottina capo e collo per aver la testa spiccata dal busto e per non vederla con sordo tonfo nella cesta di vimini.

Entravano i due nella sala: la moglie Ermelinda invocando la celeste Potenza perché illuminasse il marito; il marito Davide supplicando gli eterni Dei a scatenar dal cielo tremuoto in terra per toglierlo dall’impossibile «cul-de sac» fornito d’entrata non d’uscita.

Entravano i due nella sala stipata da gente di «prima» tutti poeti com’essi dichiaravano «ore rotundo», come essi s’inventavano «apertis verbis»; nella sala rei d’omissione quanti tacevano la colpa altrui per non arrossire della propria; sporco gioco giocato a carte coperte e con scoperte ipocrisie: pratica antica degli uomini sulla faccia della terra. Saliva l’uomo sul palco e, seduto in poltrona come su trono di spine, e teneva le mani in mano come il pescatore del mare Posillipo che a riva tiene le mani sotto le ascelle a ripararle dal freddo e non sa che pesci pigliare, egli pescatore di professione!

Chiudeva il penultimo oratore con pirotecnici globi di sfavillanti parole nobilitando «poeti», «poesie» e «poemi», con l’aureola coronando i morti e i vivi incoronando col nimbo quadrato, distribuendo a piene mani polvere di gloria a destra, a manea su tutti i poeti presenti, sui poeti assenti perehé tutti degni di gloria. Dalle infuocate parole che dritte e fitte tracimanavano da quella degna bocca, come potente schizza l’acqua dal conchiglione del Tritone in Piazza Barberini, venne all’uomo l’ispirazione da tanto invoeata a dimostrare vero l’adagio: «Un punto come, più di un punto!».

Sorrideva beato l’uomo a tanto bene e ammiccava alla moglie che non sapendo cosa fare di sé, non sapeva cosa pensare di chi nella disdetta continuava ad ammiccare accrescendone l’imbarazzo. S’alzava a parlare l’uomo e perentoria all’uditorio poneva la domanda: «Cosa significa la parola poeta?». Alla domanda impertinente perché irriverente, gagliarda la sala esplodeva in fragorosa risata ma nessuno rispondeva alla domanda perché tutti convinti di saperne il significato.

Paziente e non avvilito l’uomo che sapeva quello che voleva, ripeteva la domanda più impertinente perché più irriverente verso il dotto uditorio; non venne risata dalla sala ma nessuno si alzava a dar risposta. L’uomo riinsisteva nella domanda ma con identico risultato: silenzio da manca, da destra, dalla prima e dall’ultima fila delle poltrone.

Il silenzio di tutti quei dotti patentati e spatentati costringeva l’oratore a spiegare l’etimo della parola «poeta» a chi credendo di possederlo si vergognava di dichiararsene ignorante, ma bolliva dalla curiosità di sentire la spiegazione di chi non si rendeva conto di star nell’antro di Polifemo.

All’oratore veniva aiuto dalla «Rhematologia.: la scienza delle parole. «Poeta», «poesia», «poemi»: tre parole volgari derivate da parole latine a loro volta derivate da altrettante parole greche: «poietés», «poiesis», «poiema» tra loro collegate dalla stessa radice che originava il verbo: «poiéo»,

La voce greca «poietès», parola composta dalla base verbale: «poi-o, dalla tematica: o-e’ e dal suffiziale: «-tès» dei «nomina agentis» ad indicare la professionalità dell’operatore che il latino indica col suffiziale «tor». Il bisturi della Filologia Sperimentale se ricavava la radicale del sostantivo: «poietès» non chiariva l’etimo. Non demordendo, essa operava sul verbo: «philéo»; dal verbo togliendo la desinenza: .«éo» otteneva la radice: «phil-»; alla radice aggiungendo la desinenza: «-os» otteneva l’aggettivo-sostantivo: «philos», dalla radice potendo costruire tutte le voci possibili.

Alla stessa maniera la Filologia Sperimentale operando sulla radice: «poi-» ad essa aggiungendo la desinenza: «-os» otteneva l’aggettivo: «poios» significante: «quale» per il quale «poiéo» significa «qualificare. e il sostantivo: «poietès» significa «qualificatore».

Fidia, l’esimio scultore, dal blocco di marmo traeva il simulacro di Athena e i Greci condannavano per empietà, «asebeia» l’artista che osava scrivere sullo scudo della dea eponima: «Pheidias epoiese», volendo dire che con la sua arte traendo dal marmo la dea, aveva ‘qualificato» il marmo che prima era solo materiale grezzo e senza forma.

Partendo dal nuovo etimo della voce «poietès», l’oratore dava voce, dava anima a nuova «poetica» che portava a diversa visione della poeticità e ad una differente valutazione dei poeti e teneva applaudita conferenza ma non si faceva illudere dagli applausi di chi, poeta patentato, non accusava la botta o non digeriva il colpo e tutti continuavano a sentirsi poeti e a smaniar poesia poco importando se «qualificavano», se non «qualificavano’ quel poco che c’è da ‘qualificare. da chi vive una vita che abbisogna non di «qualificatori» ma di anestesisti capaci di addormentare nelle fibbre quel poco spirito che ancora rugge in qualche cuore smarrito e che ancora canta in qualche petto sano.

Nell’antica Grecia «poietès» è l’artista di professione che con la sua arte «qualificava» la leggenda del popolo greco e le imprese compiute a vantaggio della gente greca e dell’umanità sparsa nelle terre dell’Ekumene e oltre. «Poietès» fu Omero che nell’Odissea «qualificava» la gente della razza mediterranea: capelli crespi e neri, occhi neri, colorito moro e oscura la carnagione, che al suo garbo e sgarbo andava per commerci o per diporto per le vie del mare fidando nelle navi, nelle carene, negli alberi, nelle vele, nei remi e nei timoni4 . «Poietès» fu Omero che nell’Iliade «qualificava» il popolo degli Achei: capelli biondi e fini, occhi chiari e colorito bianco in candida carnagione che dal settentrione scendevano a valanga nella vallata della Grecia mettendo tutto a soqquadro e a rovina di morte, essi che non conoscevano il mare e non sapevano navigare5 .

«Poeta» fu Vergilio, figlio di Vergiliomaro della tribù celtica degli «Andes» e di Magia Polla della gente Osca, che nell’Eneide cantava d’Enea, dei Troiani e dei Latini chiamati dal «fatum» a farsi collaboratori della fondazione del Popolo Romano: «Tantae molis erat Romanam condere gentem»6 .

«Poeta» fu Dante che in tre cantiche «qualificava. l’uomo cristiano, e gli uomini di tutti i tempi indicando la via da battere «per seguir virtute e conoscenza»7.

Questi i poeti dell’umanità a noi cari; degli altri san tanti a parlarne, a scriverne sicché a noi par cosa giusta lasciar campo e dar spazio ai valorosi critici per quelle loro cruscomatiche sanconie e sampiche battubade, se ancora valido il detto: «Ogni operaio degno della sua mercede»8.

Con la «taratalla» abbiamo gettato un altro seme dal nostro ventilabro e trepidi attendiamo che la nuova «poetica»9 metta radici, faccia tronco e metta rami e getti fiori e foglie stabilendo nuove regole e norme nuove che faccian distinguere la «pula» dalla «cama», la vecchia dal grano, la vera poesia dalla poesia spuria che come la moneta cattiva scaccia la buona, come l’erba palatana copre i muri e come la gramigna copre campi e prode: oggi celebra il suo trionfo ma sente sul collo l’alito caldo del vento Scirocco che solo secco deserto lascia dietro di sé: nunzio di aridità, messaggero di vicina morte.

Davide Nardoni

1. T. Petr. Arbitr., Satyricon, M. Hadrianidc, C. Blacv, Amsterdam, 1669, p. 273. da “Spiragli”, 1990, n. 2- Taratalle
2. Ovid, Trist., IV, 10, 22.
3. Che i Greci di Mileto approdando nella Gezia chiamassero quel mare: «Pontos Axeinos»; «Mare Inospitale» a significare la barbarie dci Geti, è stato sempre detto e vieppiù creduto da sofoni che convinti di sapere di greco, neppure immaginavano che i Greci che fondavano colonie: «apoikiai» a Tomis, Histria e Kallatis con «Axeinos» si illudevano di rendere il suono della voce getica: «Akshaéna»; «azzurro-cupo» con la quale i Geti chiamavano il loro mare che i Greci poi chiamavano: «Pémtos Éuxeirws», i Romani «Pontus Euxinus», i Romeni della: «Tara Romaneasca»; «Marea Neagra» e noi Italiani: «Mar negro». 
4Tre versi nel Canto Sesto dell’Odissea (VI, 229-231) confermati dai «murales» di Hagia Triada, Knossos e Festa in Creta e nell’isola di Thera, convincevano chi con gran sorpresa ammetteva il poema d’Odisseo: la saga del popolo Mediterraneo al culmine della sua civiltà. Nei «Nostov», il canto originario, il nucleo primigenio della grande saga; ad essi vennero aggiunte la «Telemachia» e la «Mnesterofonia» da chi lontano dalla verità credette bene di unire la saga marinara alla guerra di Troia combattuta e vinta da altro popolo di altra razza, di altra lingua, altra religione e diversa cultura, biondo di capelli, bianco colorito e candida carnagione.
5 Che i principi dei Panachei fossero biondi, calassero dal nord al sud, portassero con sé armi e guerra, ignorassero mare e correnti, stelle e vie del mare nessun lo nega, ma parimenti nessuno ha il «folle ardire e la temeraria audacia» di proclamare l’Iliade più giovane dell’Odissea, perché le due opere sono frutto di due diverse culture, di due popoli diversi, affermatesi in epoche successive.
6 Verg. Aen., I, 37.
7 Dante, Infern., XXVI, 120.
8 Luc. X, 7.
9 Concludendo: «poeta» = «qualificatore», «poesia» = «qualificazione», «poema» = il «prodotto della qualificazione», «poetica (techne)» = «l’arte del qualificare».

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 6-7

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