Il suicidio autosacrifico 

Nell’ambito dei rapporti interumani la sopravvivenza del singolo e del gruppo viene sentita come frutto della capacità di sviluppare reciproci processi di «amore». O meglio, i processi reciproci di amore consentono lo sviluppo di sentimenti particolarmente rassicuranti che nel loro insieme vengono vissuti come «bene». Queste reciprocità bonifiche si strutturano sulla fantasia inconscia che la vita del soggetto e la vita dell’oggetto sono indispensabili l’uno alla sopravvivenza dell’altro (vita mea vita tua). Tale fantasia rappresenta il derivato dell’esperienza originaria d’amore che accomuna madre e bambino. Allorché l’interumano determina lo sviluppo di ostilità particolarmente intense, insorgono profonde angosce persecutorie in base alle quali la sopravvivenza del soggetto non viene ritenuta possibile senza la distruzione dell’oggetto (mors tua vita mea). 

Nelle personalità fortemente ambivalenti la possibilità di atti suicidari sono elevate. I meccanismi psicodinamici attivi sono di due tipi differenti. Nel primo, il suicidio rappresenta l’epilogo infausto della radicalizzazione di una vicenda relazionale che si è totalmente internalizzata, per via dell’identificazione narcisistica con l’oggetto. e che si conclude con l’autoeliminazione allo scopo di distruggere l’oggetto stesso (mors mea mors tua). Nel secondo tipo, il suicidio avviene in seguito ad una profonda regressione alla fase simbiotica e rappresenta un atto autosacrifico estremo, necessario alla salvazione dell’oggetto che è vissuto come depositario di tutto il bene (mors mea vita tua). In questo caso non si tratta di una distruzione con il sé dell’oggetto persecutorio, né di una condanna a morte del sé in quanto responsabile della distruzione dell’oggetto. Si realizza, invece, un processo «eroico» in base al quale l’annullamento del sé viene sentito come assolutamente necessario alla salvazione dell’oggetto di amore (nel momento in cui viene avvertito in pericolo) e/o necessario al mantenimento del legame simbiotico con esso. Qui all’opposto che nel pasto totemico il soggetto sacrifica la propria vita fantasticando di essere così incorporato dall’oggetto «adorato», e di poter vivere in esso, con esso. 

Sembra interessante, relativamente a quanto sopra affermato, il materiale psicologico offerto da un paziente lievemente borderline dell’età di 45 anni, affetto da uno stato depressivo ingravescente, il quale aveva chiesto un trattamento psicoterapico. Il paziente, parlando di un periodo della sua preadolescenza trascorso spensieratamente in un luogo di villeggiatura, ricordò che a quell’epoca gli si presentò una fantasia che presto gli divenne abituale. 

C’era la guerra, tutti i parenti più stretti e tutte le ragazze verso le quali sino allora aveva nutrito sentimenti amorosi si trovano in uno stesso luogo ed erano in imminente pericolo di vita, ma erano impossibilitati a poter fuggire; nessuno aveva il coraggio di fare qualcosa; ma ecco che egli riusciva, con un atto eroico, a salvare quelle persone, mettendosi così in luce presso tutti i conoscenti. 

Il paziente sottolineava l’importanza di questa attività fantastica la quale gli consentiva di superare temporaneamente i suoi accentuati complessi di inferiorità e di potere così immaginare di essere superiore agli altri. 

Queste produzioni fantastiche nel paziente si interruppero durante gli anni del liceo; fu un periodo particolarmente felice, l’unico nella sua vita. Le fantasie ripresero allorché, conseguita la maturità classica, il paziente dovette allontanarsi dalla famiglia e dai vecchi compagni per trasferirsi in una sede universitaria al fine di continuare gli studi; fu allora che cominciò a sperimentare quello che lui stesso definisce «il sentirsi naufragare in seno alla società». Si ripresentarono le fantasie a contenuto eroico che ricalcavano ancora gli stessi schemi del periodo preadolescenziale, però questa volta comportavano una nuova necessità e, cioè, il sacrificio della propria vita nel salvare la vita degli altri. Mentre da ragazzo le fantasie si limitavano all’eroismo senza un tragico epilogo, ora invece l’atto eroico veniva associato sistematicamente all’autodistruzione. Pur se la scenografia fantastica riproponeva le stesse immagini del passato, ora l’eroe sconosciuto si poteva fare luce solo dando la propria vita in cambio di quella altrui. 

Se ci addentriamo nella psicologia del sacrificio dobbiamo accettare, così come classicamente concepito, che il sacrificio costituisce un’offerta di qualcosa per entrare in comunione con la divinità. Come scrive C. Grottanelli, «il sacrificio sarebbe un atto di comunione, o di separazione, o un dono» ma, come sottolineano Hubert e Mauss, citati da Grottanelli, «probabilmente non c’è sacrificio senza qualche idea di riscatto e qualcosa dell’ordine del contratto»1. Dunque chi sacrifica la propria vita si renderebbe autore di un’offerta estrema, cioè di un’offerta di sé stesso per l’altro, cioè in favore di oggetti fortemente idealizzati e vissuti come onnipotenti. Ma da tale offerta non possiamo disgiungere idee più o meno coscienti di comunione con l’oggetto, di identità, di acquisto, di scambio. 

Roberto Calasso in Le nozze di Cadmo e Armonia2 afferma che le differenze tra dèi e uomini sono soprattutto due. La prima è in rapporto ad Ananke (la necessità); gli dèi la subiscono e la usano, gli uomini la subiscono soltanto. L’altra è in rapporto alla ierogamia: gli dèi possono mescolarsi con gli uomini, assimilare e disassimilare, senza sacrificio, gli uomini, che vivono nell’irreversibile, possono assimilare e disassimilare solo uccidendo. L’espulsione (purificazione) e l’assimilazione (comunione, sia nel senso di assimilare che di essere assimilati) può avvenire solo attraverso l’uccisione. 

Parafrasando Calasso, potremmo sostenere che ciò che era stato l’avvolgimento erotico del corpo e l’attrazione simbiotica della mente corrisponde ora al gesto che realizza l’autosacrificio. Ierogamia ed autosacrificio hanno in comune il perdere sé stessi facendosi invadere o facendosi divorare, nel momento in cui si sovrappongono «e », cioè il sé e l’altro sentito come sé stesso. 

Ma il suicidio autosacrifico, di cui abbiamo cercato il senso attraverso l’interpretazione filogenetica, rimarrebbe abbastanza enigmatico senza un’interpretazione di ordine ontogenetico. Infatti, ciò che sembra un’offerta, quindi una perdita, può configurarsi quale rifiuto della perdita, se consideriamo che il tipo di sacrificio di cui stiamo trattando può rappresentare un inconscio estremo tentativo di conservare o di recuperare quell’unione con la madre che è caratteristica di quel periodo in cui il bambino nel corso del suo primario sviluppo vive con essa una dimensione simbiotica. 

Possiamo considerare simbiotica la primissima modalità di rapporto interumano, fase nella quale il bambino si sente una cosa sola con la madre e non è consapevole che la sua personalità e quella della madre sono distinte e separate. La mancata separazione tra lo Primitivo e non-Io, dunque la comprensione in sé stesso da parte dell’Io Primitivo del mondo esterno o di parte di esso, determina sentimenti di onnipotenza ai quali il bambino nel corso del suo primo sviluppo rinuncia solo in modo parziale e temporaneo in quanto tende a recuperare la propria Onnipotenza partecipando a quella degli adulti, tramite l’identificazione introiettiva. 

Come sostiene O. Fenichel, «incorporando gli oggetti ci si unisce ad essi. L’introiezione orale determina contemporaneamente l’identificazione primaria. Le idee di mangiare un oggetto o di essere mangiati, sono il modo in cui ogni riunione con l’oggetto viene inconsciamente pensata, la comunione magica di diventare la stessa sostanza, sia mangiando il medesimo cibo o mischiando il rispettivo sangue, e la credenza magica che una persona divenga simile all’oggetto mangiato, si basano sull’introiezione orale… l’idea di essere mangiati non è soltanto fonte di paura, in certe circostanze può anche essere fonte di piacere orale. Al desiderio di incorporare gli oggetti, corrisponde quello di essere incorporati da un oggetto più grande. Spesso, gli scopi apparentemente contraddittori di mangiare e di essere mangiati. appaiono condensati l’uno all’altro»3. 

È in base a queste considerazioni psicoanalitiche che alla fine del nostro studio possiamo meglio comprendere come in taluni individui, alcune volte, soprattutto in condizioni di profonda regressione. il suicidio rappresenti un estremo tentativo di mantenere o rinsaldare o riacquistare con l’altro un legame che è avvertito in pericolo; ciò quando l’altro, persona o gruppo, è sentito così terribilmente importante e talmente indispensabile da rendere intollerabile ogni idea di separazione. È in questi casi che nella psiche del suicida lo sciogliere, la separazione definitiva, attuata attraverso il recidere il filo della propria esistenza, corrisponde ad un definitivo riannodare, alla totale fusione con l’oggetto onnipotente di adorazione. 

1. C. Grottanelli, N. F. Parise, Sacrificio e società nel mondo antico, Laterza ed., Bari, 1988, pagg. 9-11. 

2. Adelphi ed., Milano, 1988. 

3. O. Fenichel, Trattato di Psicoanalisi, Astrolabio ed., Roma, 1951, pagg. 77-78. 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 55-58.

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