Considerazioni isagogiche su Elegia per me stesso di Rodolfo Vettorello

       Chi in punta di piedi entra nella poesia di Rodolfo Vettorello si trova davanti un diagramma spaziale-evolutivo, che apre il lettore a una nuova dimensione antropometrica, derivata, in gran parte, dal perenne assioma ontologico, presente in maniera dominante nell’alveo della riflessione tanatologica, nata dalla sempre presente, e ossessiva, lezione eraclitea. Questa idea già presente, e ampiamente trattata da Leopardi e acutamente sviluppata da Foscolo nel suo capolavoro lirico-poetico, trova degno e felice epilogo in quest’opera di Vettorello, con la quale, in un avvenire non troppo remoto, dovranno cimentarsi intelletti di ben altra levatura, per compiti ben diversi. 

      Se Foscolo nel carme Sui sepolcri dal continuo fluire del tempo e degli elementi aveva tratto spunti di intenso lirismo, che si possono riassumere in questa manciatina di versi:

e una forza operosa le affatica

di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe

e l’estreme sembianze e le reliquie

della terra e del ciel traveste il tempo,

nei quali serpeggia latente, ma terribilmente evidente col suo spettrale potere Thanatos, nella silloge vettorelliana la morte è presente in quasi tutte le liriche e convoglia l’animo e la riflessione dell’attento lettore verso orizzonti pregni di infausti, ma reali presagi. Nel raffinato componimento poetico l’autore non soggiace al trito e stucchevole sentire comune, ma da considerazioni meramente riduttive come aquila si eleva, per spaziare dalla cristallina purezza dell’infinito su quella forza operosa, cui soggiace in modo ineluttabile l’uomo col suo destino.   

      Su una tomba nella chiesa di S. Francesco, a Fondi, anni addietro ho letto con molta attenzione un epigramma, che ha lasciato una traccia indelebile nel mio animo:

        Tendimus huc omnes: metam properamus ad unam;   omnia sub leges mors vocat atra suas.

      Che si può rendere: «Tendiamo tutti verso questo luogo: andiamo in fretta verso un’unica mèta; la tenebrosa morte raduna tutti i viventi sotto le sue leggi». È, questo, il monito, che con cruda verità la Natura rivolge all’uomo: all’ignoto autore non sfuggiva il potere tanatocentrico comunemente concepito. 

      Dopo la lettura della significativa silloge, che invita a riflettere su una realtà sempre presente, l’uomo sembra ebbro del nettare degli dei omerici con aggiunta di nepente; e molti, impressionati dalla lirica compostezza e dal messaggio, veicolato dal vigoroso afflato poetico, se ne stanno tristi, cupi, preoccupati, come se fossero stati condotti via con la orza dall’antro di Trofonio. Gli stretti vincigli della Natura, infatti, angustiano il loro animo traballante, spaventato, incerto per la cupa prospettiva del futuro non adeguatamente preparato dal presente, che, come insegna Seneca, scorre incerto tra mille occupazioni, per lo più inutili, perché nessuno è veramente padrone di sé e del suo tempo. 

      Immerso nel turbinio di mille faccende, continua l’antico filosofo, nessuno dà giusto valore a tempo e alla sua giornata, e non si rende conto come egli muoia giorno dopo giorno. L’uomo, come ripete Vettorello, che certamente ha assimilato il dettato senecano, vive nella continua illusione che la morte sia un evento destinato a un futuro lontano, quando è sotto il suo sguardo, e gran parte di essa è già alle sue spalle. Tutto il passato è in potere della morte. Ma Vettorello rende attuale l’antico insegnamento, quando nella lirica La rimpatriata scrive:

Il tempo che è passato da quei giorni

che si giocava insieme nei cortili

ha lavorato su di noi con cura

per farci diventare quel che siamo …

La vita si costruisce e demolisce

                       le cose e le persone a suo piacere. 

       Nell’aria rarefatta del puro lirismo, che si infutura in un archetipo spesso sfuggente ed evanescente, il poeta riporta il lettore alla realtà del presente, che si potrebbe individuare, rovesciando in modo adeguato i rapporti, nel carpe diem oraziano. È proprio questo tema di fondo che inciprignisce e costringe il lettore a rugghiare per contrarietà, per lo più mal gestite. 

      Significativo, quindi, è il titolo Elegia per me solo, che Rodolfo Vettorello ha voluto dare alla pregevole silloge. Il critico, per lo più, concentra l’attenzione sul primo lessema elegia e cerca di trovare agganci e riferimenti con la poesia fiorita in Grecia e il Roma. Sotto questo aspetto, degna di nota è la dotta e ben documentata Prefazione, vergata da Santo Gros-Pietro, che va, necessariamente, tenuta presente per la profonda dottrina e lo stile impeccabile; può bastare a sollecitare il lettore per un primo approccio, per contestualizzare un genere letterario, che nella tradizione letteraria ha trovato geniali esponenti e visioni diverse, pur nell’inveterato solco della tradizione. 

       Per Vettorello l’elegia non è flebilis, secondo la felice intuizione di Ovidio, perché non effonde lacrime di dolore per l’abbandono della donna amata o per un amore non corrisposto. Il poeta svuota il lessema  dall’interno e lo riporta a origini e luoghi più remoti nel tempo e nello spazio, da dove è partita, per giungere prima in Grecia e, successivamente, a Roma. In questo senso, almeno esteriormente, si potrebbe accostare a Callimaco, ma il discorso condurrebbe molto lontano e metterebbe in ombra lo sforzo e l’originalità del poeta, il quale si riallaccia direttamente al genere della lamentazione, presente in tutte le letterature orientali, come quella, più documentata, ugaritica ed ebraica. 

       Tralasciando disquisizioni storico-letterarie, si richiama l’attenzione del lettore sulla natura antropologicamente dialettica della poesia vettorelliana, che già nella lirica incipitaria, Le infinite agonie, traccia l’iter del percorso poetico, nel quale pone in piena evidenza la sua polarità perfettamente speculare rispetto ad altre raccolte, pur pregevoli. Il carme, sapientemente intessuto con accorta e ben studiata disposizione metrica, nella quale sintagmi e lessemi formano figure indelebili e sfumano nel non troppo velato lamento sulla fuga del tempo e della vita; condensa in un’amara sequenza di versi il già riportato sintagma foscoliano:

Agonie della vita;

un giorno dopo l’altro si consuma

una nuova agonia,

una infinità

di anelli una catena disumana.

La morte ci umilia e ci devasta

annulla ciò che siamo e le memorie

di un velo di silenzio le ricopre.  

      Il poeta non a caso apre la lirica, e con essa la silloge, con un sintagma estremamente significativo, l’agonia, gli attimi che precedono il trapasso e avviano in modo irrimediabile alla fine della vita terrena. Già da questo primo accenno, cui bisogna necessariamente sottendere un velato pessimismo di derivazione leopardiana, nella tanatocrazia vettorelliana, come nel suo referente immediato, è del tutto assente quanto ha caratterizzato e plasmato la cultura italiana ed europea negli ultimi due millenni: la speranza e la credenza nella vita oltremondana. Questo concetto, molto dibattuto sotto l’aspetto sia filosofico che teologico negli ultimi due secoli, anche se non è mai accennato in modo esplicito, di tanto in tanto emerge e rivela, seppur velata, l’intima aspirazione di un ego, che si dipana nei rivoli dell’umana sofferenza e cerca una pur terrena immortalità. Per cui molta attenzione richiede l’anaptitico emistichio e le memorie, che, in un intenso endecasillabo fratto, rivela l’intima sofferenza, causata, come dirà qualche verso dopo, dal  

sottile malessere gentile

ch’è malattia del vivere, assassina. 

       In questo distico, preceduto da acute riflessioni sullo svolgimento quotidiano della vita, si avverte in modo palese l’ormai noto, e abusato, sintagma montaliano, che tanta fortuna ha incontrato presso ingegni, che potrebbero starsene tranquilli nella fresca grotta di Trofonio e mettere da parte il nepente.

       Come per Montale, anche per Vettorello il percorso della vita è piuttosto accidentato, per la continua presenza di dolori, di sofferenze, di imprevisti. Tra gli altri, la vera poesia si assume il compito di analizzare e portare a conoscenza di tutti la sofferenza, che travaglia l’animo dell’uomo, nella segreta speranza che trovi la possibilità di porvi rimedio. Ma questo, di solito, non avviene, perché non esiste una ricetta o una formula, che, per mezzo del linguaggio poetico, di solito scarno ed essenziale, possa risolvere il dolore o la conseguente crisi esistenziale.

        Per esprimere questo male e per portarlo alla conoscenza del lettore trofoniano, Vettorello si serve dell’anafora, della climax per lo più ascendente, della metafora, dell’anastrofe e dell’allitterazione. Nel calcolato gioco di luce e ombra, negli sfumati chiaroscuri, nelle fuggevoli reticenze, in modo non diverso da Montale, Vettorello con visione  e intento innovativo propone la sua elegia sull’essere contemporaneo, che sfida l’ardua scalata della vita, con la certezza che la sua fine è imminente, perché la morte gli è accanto e cammina con lui. 

        Più difficile, almeno per chi non è aduso a leggere la poesia, è cogliere l’io lirico, introiettarlo e assumerlo come oggetto di riflessione, di meditazione, di miglioramento: è un efficace antidoto contro la sofferenza, che in modo più o meno palese striscia tra le pieghe della psiche umana. Solo in questo modo l’oscura e incombente tanatocrazia perde il suo mordente e sfuma come nebbia del mattino nell’alba luminosa della propria coscienza di essere esistente, parlante, cogitante. La fiducia in sostituisce la fede in Dio e Dio stesso, come nella medesima lirica incipitaria il poeta, non senza rancore e delusione, dice con orgoglio: 

Dio se mi ascolti 

lascia che ti dica

che ti respingo.

voglio che mi basti

la mia coscienza libera e nient’altro.

      Il poeta, con determinata decisione, rivendica la propria libertà di coscienza, cui si accompagna, come corollario necessario, la libertà di pensiero e di religione. In linea con  le più recenti disposizioni a riguardo, stabilite da autorità internazionali e adottate, in linea di massima, da un nutrito gruppo di nazioni, Vettorello si inserisce in quest’alveo, per determinati aspetti, ancora vergine e si rende interprete di un messaggio, che travalica i confini personali e internazionali, e diviene, nella pletora ciangottante di buffi e coprolitici verbigeratori il corifeo dell’eguaglianza tra gli uomini, perché la morte è, per se stessa e per ciò che rappresenta, l’uguaglianza personificata. Alle ingiustizie della vita, prima o poi, rimedia la morte, che non guarda in faccia a nessuno, non per vendetta, ma per la sua disposizione naturale. Blaise Pascal, infatti, nel dotto e istruttivo volume, Pensieri, nei riguardi della morte scrive: «Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare». L’Uomo, infatti, come si evince dalla lettura della silloge vettorelliana, vive come se non dovesse mai morire e, forte della sua presunta supremazia sui propri simili e sugli altri esseri, si abbandona senza remore a ogni sorta di violenze e villanie, che non commetterebbe, se si fermasse un attimo a riflettere che a breve deve presentarsi davanti all’inevitabile tribunale della morte, la quale non concede sconti a nessuno. 

   Nella sua speculazione filosofica, anche se rudimentale e appena accennata per non incidere in modo negativo sulla sensibilità del lettore, Vettorello connette la morte alla riflessione filosofica e cerca di edulcorare, pur con un linguaggio scarno e realistico, il problema e della morte e del destino. Difatti la riflessione sulla morte, come evento naturale non diverso dalla nascita, è stata il principale stimolo per molti filosofi. Arthur Schopenhauer, ne Il mondo come volontà e rappresentazione, che Rodolfo Vettorello ha certamente letto, scrive che la cognizione sperimentale della morte, non dissociata dalla vista del dolore e della miseria, che caratterizza la vita di tanti esseri indifesi, ha senza dubbio impresso l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Del resto se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia costituito proprio così, perché tutto cadrebbe nella banalità e nell’ovvietà.

  Movendo su questo sentiero, per certi aspetti impervio e di difficile soluzione, Rodolfo rinnova il concetto di elegia e le apre un altro orizzonte, in parte ignoto sia ai Greci, sia ai Romani. Per avere un’idea delle innovazioni apportate al genere letterario dal poeta milanese, accanto all’io lirico, che  scandisce il ritmo espressivo e compositivo prima del verso e, in un secondo momento, della lirica bisogna sfilacciare la tramatura narrativo-semantica ed esaminare i singoli lessemi, inglobati in strutturati e sostanziosi sintagmi, resi fluidi e fruibile dall’impeccabile struttura metrica, per la quale si può considerare il navalastro della più alta espressione poetica contemporanea.

  Consapevole dell’inesorabile scorrere del tempo, Rodolfo vi ritorna con accorata insistenza in tutta la silloge, come se il virgiliano «sed fugit interea, fugit irreparabile tempus» gli martellasse di continuo nella mente e gli procurasse una certa ansia e inquietudine, come si può evincere dal messaggio, che vivifica la lirica Non è giunta ancora, della quale qui si riportano solo i più significativi lacerti:

Mi dico che sarà l’ultima volta,

me lo dico sovente,

come si fa con ciò che si vorrebbe

ripetere per sempre, all’infinito.

Andare via da questo luogo d’ora

avrà il sapore amaro dell’addio

ed ogni addio nasconde la paura

che andarsene sia un modo di morire,

    sia pure solo un poco e a poco a poco…

Potrei forse rinascere alla vita

se avessi la speranza che davvero

l’ultima volta non è ancora giunta.

Anche a un’attenta lettura della lirica, riferita solo in parte, sembra che il poeta voglia richiamare l’attenzione del destinatario con la martellante insistenza sull’imminenza della morte e sull’intensità della sua bruttezza. Questa realtà, che l’uomo sperimenta e tocca con mano in ogni momento della giornata, non viene collocata in un ambente determinato, nel quale l’Uomo, oggetto e soggetto di questa tremenda realtà, fornisce la misura per gli altri. Essa diventa tramite d’una realtà e intensità febbricitante. La sua rappresentazione, reiterata con crudo realismo e un sotteso e nervoso timore dell’aldilà, si insinua sensibilmente nell’anima e crea sconcerto, confusione, incertezza; diventa una straziante lamentazione nel bugno della silloge, che avvince il lettore in attesa di luminosi squarci di cielo. Ma anche l’aspetto della bruttezza, che turba i sogni soprattutto di chi ha varcato una certa età, rivela momenti di intensa liricità, che schiudono la mente a respiri liberatori soprattutto quando alle sofferenze ordinarie non si riesce a trovare una via d’uscita. E domina in questi casi la bellezza, che permette di percepire il profondo e rasserenante respiro della Natura, per lo più intesa e proposta in senso leopardiano. Sono, questi momenti, residui reali dei veri componimenti poetici. 

       Non solo nella silloge in oggetto, ma in tutte le raccolte poetiche di Vettorello si riscontrano belle pericopi, accattivanti per le immagini o anche per il canto della lingua. Sorprende, però, che essi non stanno soli, non formano un unico in sé, ma sono, necessariamente, parte di un’unità nella quale il poeta fonde pressanti richiami alla fugacità della vita e alla bruttezza del male di vivere. Bello e brutto, sebbene siano nella loro obiettività categorie opposte, nella poesia di Vettorello non forniscono stimoli contrastanti e inquietanti, perché sono accantonati, come la differenza tra vero e falso. 

         Lo stretto ed inevitabile accostamento del bello col brutto produce un’illuminante dinamica di contrasto, che diviene di volta in volta l’elemento più importante, l’asse che unisce mittente e destinatario. È ovvio che in Vettorello il brutto, la visione pessimistica della vita, il costante richiamo alla morte, diviene il tramite, col quale con innata maestria e mano sicura conduce sull’eccelsa vetta del Parnaso, a diretto contatto col puro cielo della divinità ispiratrice. 

        Il lettore, dopo pochi versi, si accorge subito che il brutto di Vettorello non è il grottesco o l’orrido, che ha caratterizzato per un certo periodo la letteratura italiana, e non  solo. Si pensi al Tersite dell’Iliade o all’Inferno di Dante, alla produzione poetica dell’alto medioevo, la quale raffigurava brutto chi non entrava nel novero dei cortigiani. Il diavolo, ovviamente, era brutto, e rimane ancora brutto. Vettorello, inserendosi sulla scia di Novalis prima e poi di Rimbaud, il brutto diviene un tramite interessante e necessario, per andare incontro e comprendere l’intensità e l’espressività della volontà artistica, che con la sua meliggine vellica il potere indagatore e immerge l’io lirico narrante nell’animo del fruitore. Con la sua assiologia la poesia di Vettorello ora serve, ora desta, ora allontana l’energia sensitiva, che aspira a una lettura obiettiva del reale e del sensibile, cui si avvicina e cerca di avvicinare. La produzione lirica contempla tanto i contenuti, quanto, e soprattutto, le relazioni, che ingenerano tensione sovraoggettive. Accenna al brutto della morte, perché con esso, come sfida al naturale senso del bello, insito nella vita, produce quella drammaticità sorprendente, che deve stabilirsi tra l’io lirico del poeta e il lettore. 

       La bruttezza e la deformità della morte, quale si riscontra nella poesia di Vettorello, è tratta dalla realtà, dalla diretta esperienza ricavata dall’esistenza quotidiana di un mortale qualsiasi, il quale vede la nascita d’una nuova vita e, in controluce, la morte, che accompagna il neonato fino al suo trapasso. Mancano nella silloge gli Esseri plurali del dovunque e del sempre: protagonista è l’uomo, la donna, il bambino, che non sono scheletri informi e cupi, ma persone vive e palpitanti, come quando, parlando in prima persona, il poeta dice in Ingannare la morte:

Amo i sogni di altrove

e cambiare ogni volta orizzonte

per riuscire a ingannare la morte.

Non mi trovi, se spera

di trovarmi nel luogo che crede

Tutto questo soltanto

per eludere ancora la morte.

        L’io lirico si esprime, in questo caso, con scherno, con disprezzo, con stizzosa alterigia davanti a una realtà assiologica, che viene calata nella quotidianità con un’efficace dissonanza tra la melodia e l’immagine, tra il possibile e il reale, tra il caduco e l’eterno. Il lettore in questo breve stralcio assapora i residui del bello, ma vede in controluce la tristezza della realtà, la bruttezza della morte, il dolore causato dal suo arrivo. Il poeta si sofferma con compiaciuta insistenza sulla dissonanza di quanto evoca e diventa egli stesso dissonante, quando unisce nella tramatura lirica primordiali potenze liriche e osservazioni, che, solo nell’apparenza, sembrano banali. 

     Commisurare i contenuti figurativi vettorelliani alla realtà non può avere che un valore euristico. Quando l’ermeneutica spinge il lettore a penetrare nel profondo, questi deve riconoscere di non esaurire la conoscenza lirica con concetti meramente legati al reale o all’irreale, ma col riferimento a valori immutabili insiti nell’ens cogitans, che diviene motore immobile di un processo analitico strettamente personale. 

        Nella silloge Elegia per me solo non esiste traccia di realtà deformata, anche se molto spesso il discorso declina verità per lessemi ben orchestrati, che confluiscono in sintagmi specifici, nei quali ogni singola parte o parola ha una qualità netta, sensibile. Tuttavia siffatti sintagmi combinano ciò che è realmente conciliabile sia con l’esperienza sensibile, sia con la logica aristotelicamente intesa. Con l’alta qualità delle immagini e con la loro strutturazione sul piano narratologico il poeta intesse un fitto dialogo sulla realtà, che cade sotto il vigile sguardo dell’interlocutore. Esse, e per qualità e per quantità, superano di gran lunga quella particolare libertà, che, grazie alle forze metaforiche fondamentali della lingua, sono magistralmente coniugate con immagini contemplabili. E ciò può avvenire solo nella poesia, mediante la quale riescono a trasmettere un’efficacia più tagliente alle caratteristiche presenti nelle realtà stesse, e tuttavia la loro direzione non è rivolta verso un ideale, bensì segue una dinamica riflessiva, la quale, per così dire in mancanza dell’Ignoto invisibile, rende il reale stesso un ignoto, sensibilmente eccitato ed eccitante mediante la dissoluzione dei confini tra le figure, mediante il logico accostamento degli estremi. Nella composizione lirica Vettorello cerca di scandagliare l’ordinamento reale, pur restando nel reale e nel sensibile, mediante procedimenti noti alla precedente poesia. In ogni lirica della silloge, però, si trova per lo più in germe a quanto nelle altre raccolte è pienamente sviluppato, per rendere la realtà più sensibile e pregna d’una semplicità d’urto, come si legge nella lirica conclusiva, La cagna rossa: 

domani sarà il giorno del trasloco,

andremo via di qua per altri luoghi.                                                                          

O.A. B.

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