A. Contiliano, La contingenza/lo stupore del tempo, Milano, 1995.

L’idea di sperimentalità (del verso, per esempio) affligge più d’un critico che porta sulla sua pelle una serie cicatrizzata delle sue ferite, imposte dall’immagine fissa della “tradizione”, dalla traducibilità di essa come ordine, senso e stile buoni per tutti i semplici e regolari, secondo le definizioni intramontabili. L’algidità simultanea giunge da una critica accademica che non riosserva le possibilità del mondo moderno di farsi immagine-altra di uno schema consueto, voce d’altro conf1itto (senza i quali non avremmo avuto mai, né Cézanne, né Boccioni, né tutto lo stesso Cubismo e Astrattismo novecentesco, ma soltanto non “novecentismo” diretto alla lode della corporeità, senza scarti vitali, né simboli discutibili e pronti per affrontare la civiltà d’oggi). Così, in letteratura, in troppi benpensanti intellettuali, hanno fatto di tutto per devitalizzare la ricerca sulla scrittura’ l’impeto creativo oltre i canoni stabiliti da congeniali sclerosi della mente, a favore del gioco tenero e conformista della ripetitività delle zone semplici dell’abitudine, pur sempre rigogliosa; del patetismo generale, umori, odori, nutrimenti passivi e intelligibili a chiunque. 

Una lettura dei versi più recenti di Antonino Contiliano va effettuata proprio nel senso nuovo (o diverso dal profilo chiuso della comunicazione e delle sorti estemporanee, dovute a virtù ispirativa contraria alla stessa poesia caparbiamente convenzionale, e acclarata dalle antiche luci dell’Isola in cui vive) in cui s’intende che la “contingenza e lo stupore”, a cui essi si affidano, appartengono a emblemi comportamentali di esplicita educazione al percorso anomalo intorno a ciò che si dice verso di poesia, dove si catturano eversioni e sogni. Egli lo fa con linguaggio intensissimo su una formidabilità epigrafica che si vela di significato totale, ma indica il punto in cui l’evento ha una forza visiva aperta, non scrupolosamente aderente ai contenuti, o non soltanto versati su di essi. Per recita capziosa e per sommari arbitri, Contiliano affronta – in più strati – la storia collettiva e la cronaca del mondo al centro d’ogni pagina, in cui qualcosa si dissolve, si fa maceria del tempo, frammento sottile: la cui vertigine (e ciò che di esso si ascolta) fa la “poesia”, anziché una comunicativa prorompente e assoluta. C’è un luogo geografico che dà spazio a questa scrittura amara. solennizzata dal commento realistico, ricca di sintagmi espressionistici, che consentono estri efficaci, usi sospesi e partecipati (o sconnessi) di inquietudine, che dicono più di qualsiasi istrionica tesi sull’alterità degli scarti umani, e delle molteplicità di eventi per la conservazione della poesia. Ma il lettore rifiuta quella sottrazione di sintassi che celebra la simbologia del tema, preferendo l’enfasi levigata, l’immobilità eguale a se stessa nella sua crudezza pretestuale e il senso dentro cui meglio ristagna! 

Così, il poeta, che intende sviluppare gli straniamenti sul tutto detto o scritto in maniera fertile ed effusiva, viene scacciato dal suo rango più emotivo, e viene cancellato per l’aspetto che egli offre di una galassia, di un gesto. di una dimora, di una quaestio umana e politica, di un suono nomade: e allora si blocca (contro di lui) l’idea di messaggio, in un intento più spietato e – indubbiamente – più sofferente e acre. Il lettore tace proprio per codesto dominio di vitalità (velata), che resta una sapienza effettuale, e va cercata persino nei suoi echi che non possono dirsi soltanto appartengano ad una qualsiasi avanguardia, o a navigazione impropria. 

Un coraggioso rischio che giunge dalla provincia, una insorgenza inconciliabile con ciò che sa di retrivo fra molte efferatezze irte. 

Domenico Cara

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 45-46.

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