Il Nazionalismo: passato e futuro (*) 

Mi ha fatto veramente piacere ricevere un secondo invito per una conferenza da parte di questo eminente Centro Internazionale di Cultura “Lilybaeum” di Marsala e ne sono altresì onorato. 

Questa volta voglio parlare di un tema che, sicuramente, preoccupa gli uomini e le donne di tutto il mondo: il nazionalismo e i suoi correlativi, l’etnicismo, il patriottismo, il razzismo e la xenofobia. Tutti questi sono veramente correlativi? Vedremo. Tuttavia parlerò soltanto dell’Europa, per una ragione assai elementare: conosco poco gli altri continenti. 

Cominciamo con una piccola storia personale. Nel 1944, durante la seconda guerra mondiale, fui volontario nella marina britannica. Si incontrava gente di tutte le classi sociali, si parlava e si discuteva di tutto. Allora un giovane apprendista fuochista affermava: «La cucina inglese è la migliore del mondo». Sorpreso, domandavo: «Ne conosci altre?» «No» rispondeva. Ma è comprensibile. Ecco un esempio quasi classico del nazionalismo culturale. 

Facciamo adesso un esempio veramente classico. Giasone dice a Medea: «Hai ricevuto molto di più di ciò che mi hai dato… Dimori adesso nell’Ellade, anziché nel tuo paese barbaro, hai appreso il significato della giustizia e il modo di vivere sotto la legge e non più sotto la tirannia della forza bruta.» Ricordiamo che Medea aveva salvato la vita a Giasone ed ucciso suo fratello mentre lo aiutava ad accaparrarsi il vello d’oro. Giasone l’aveva sposata e adesso Medea s’opponeva ad un suo secondo matrimonio con la figlia del re di Corinto. 

L’argomento del nazionalismo culturale non poteva evidenziarsi più chiaramente. Entrambi apportavano argomentazioni diverse, però Euripide sottolinea la centralità di questo nazionalismo culturale con la risposta di Medea: «I tuoi occhi sono rivolti alla vecchiaia ed una moglie straniera comincia a sembrarti una vergogna». 

Giasone non fu l’unico eroe greco xenofobo. Teseo fu salvato dal labirinto da Arianna. Anche lui la sposò, ma l’abbandonò sull’isola di Naxos. Evidentemente, l’eroe greco accettava l’aiuto di una donna straniera, la sposava persino oltraggiando la sua stirpe e poi la ripudiava alla prima occasione. 

Nello stesso tempo questo nazionalismo culturale, anche nella forma più brutale, come quello di Giasone e di Teseo, non era un nazionalismo politico. Non esisteva questo tipo di nazionalismo nella Grecia antica. Atene e Sparta cooperavano durante le guerre persiane, ma era un’occasione particolare, un’alleanza militare contro un pericolo comune. Il ricordo di ciò, comunque, è diventato parte del nazionalismo culturale greco, specialmente secondo l’interpretazione degli studiosi dell’Europa occidentale nel diciannovesimo secolo. 

L’esperienza greca, tanto mitologica quanto storica, dimostra la difficoltà di costruire una storia coerente del nazionalismo. Certo, è un fenomeno molto antico. Ma che cosa era? Come è cambiato in tutto questo tempo? E quale fu la sua importanza nella storia della civiltà e della politica europea? Evidente appare la differenza tra il nazionalismo e un’istituzione definitiva come, per esempio, lo Stato. Il nazionalismo è sempre stato un atteggiamento mentale e, qualche volta, ma solo qualche volta, una forza politica. E’ stato spesso visto cosi, specialmente dagli storici del secolo scorso e della prima metà del nostro secolo. Per esempio, la storia del risorgimento italiano è stata considerata fino a trenta o quaranta anni fa come la storia di un nazionalismo trionfante, specialmente qui in Sicilia. Ne abbiamo la percezione guardando le lapidi che si trovano nel cortile della Società 

Siciliana per la Storia Patria a Palermo. Solo negli ultimi decenni si è avuto qualche dubbio circa questa interpretazione ed è stato possibile scrivere una storia più precisa di quegli eventi. 

Dopo la rivoluzione del 1989 ci siamo resi conto che tre generazioni di comunismo non avevano fatto scomparire i nazionalismi; o, meglio, la consapevolezza di far parte di una realtà sociale che non era una classe ma un’unità geografica o etnica o linguistica o religiosa o tribale o un insieme di tutte o di alcune di queste caratteristiche. 

Questo fenomeno ha prodotto una vera esplosione di studi, convegni internazionali, monografie, libri scritti da uno o da vari autori e quasi contemporaneamente articoli sui giornali. Gli autori di questi scritti non sono solo storici, ma anche sociologi, antropologi, scienziati e politici, giornalisti e moralisti di ogni tipo. 

Non è possibile fare un riassunto di tutto questo lavoro per il semplice fatto che gli studiosi non sono d’accordo sulla natura del fenomeno che chiamiamo nazionalismo e neanche su una definizione generalmente accettabile del nazionalismo di ieri e di oggi. Se non abbiamo avuto definizioni, abbiamo avuto invece ottimi studi sulla storia del nazionalismo in diversi Paesi. Ma questi studi non ci permettono una chiara generalizzazione. Per esempio, la Scozia, un antico regno già nel Medioevo, non è adesso uno stato separato. Però ha vissuto momenti di grande fermento nazionalistico ed oggi la maggioranza degli Scozzesi preferirebbe l’autonomia politica o anche l’indipendenza. Eppure, malgrado questo fermento non è mai esistito un popolo scozzese, etnicamente parlando, né una lingua scozzese antica. 

Forse l’origine etnica delle nazioni moderne non è molto importante. I popoli che si sentono minacciati, sia per ragioni immaginarie o reali, sono in ogni caso pronti ad ammazzarsi con pernicioso entusiasmo. Molti studiosi hanno considerato sia l’aspetto morale che politico di questi problemi. Esistevano ed esistono, comunque, l?olitici e generali che preferiscono una soluzione che chiamano purificazione etnica. E’ una politica che si basa sull’appello popolare. Per molti è comodo pensare che ogni loro sfortuna sia colpa degli stranieri. Questa soluzione passa dai dipartimenti accademici di storia, di sociologia, ecc., fino ad arrivare al dipartimento della divinazione o profezia che appare scientifica. Sembra che questa linea abbia una mezza correttezza politica, ma io vi proporrò una profezia che spero abbia un aspetto scientifico. 

Gli studi della maggioranza dei miei colleghi si basano sull’anali degli ultimi anni, quelli che seguono il 1989 e specialmente sugli sviluppi che si ebbero nella ex Unione Sovietica e nella ex Iugoslavia. Mi pare che questo campo d’osservazione sia troppo ristretto. Penso anche a quella teoria americana secondo la quale la rivoluzione del 1989 segna la fine della storia. E’ una teoria che tra qualche tempo sarà dimenticata. Allora, che fare? Non è possibile ritornare all’età dell’oro, umana, tollerante e pacifica. Non è mai esistita. Neanche credo ad una teologia romantica, ad un futuro d’oro, ad una legge della storia che ci porti, volenti o nolenti, tempi migliori, come credono i marxisti. Dunque, cosa resta? Resta la storia d’Europa da interpretare bene e un’analogia che certo non dimostra una necessità storica, ma una possibilità o, anche di più, una verosimiglianza. 

Cominciamo con un doppio interrogativo storico. Perché gli stati derivanti dall’Impero romano erano cosi grandi? Salvo che nel classicismo nostalgico di alcuni monarchi, ovvero nella fantasia romantica letteraria di molti storici moderni, questi stati non erano costituiti né dall’unità nazionale, né dall’unità 

etnica: Italia, Gallia, Hispania, ecc. E ci si deve chiedere di più: perché nei primi secoli dell’Alto Medioevo era ancora possibile costruire immensi imperi come quello di Carlo Magno o quello del danese Canuto, oppure anche quelli dei primi califfi arabi? Perché nel tardo Medioevo l’Europa si consolidava in stati molto più piccoli? E come si determinavano le dimensioni di questi stati? Pochi storici credono ancora che un autocosciente etnicismo o una specie di protonazionalismo possano spiegare questo secondo problema Perciò voglio adoperare un modello storico del sociologo americano K. W. Deutsch, utilizzato per altro motivo. 

Nell’Alto Medioevo l’Europa era un continente formato da piccole comunità contadine ed urbane. Ognuna di esse produceva la maggior parte, ma non tutto, di quello che necessitava per la vita di quel tempo. Quel poco di prodotto che di solito poteva eccedere non era richiesto dagli abitanti dei territori vicini che, per ragioni geografiche e climatiche, in generale, producevano le stesse cose. Ma questi prodotti erano apprezzati in luoghi più lontani. Dunque risultava che il commercio dell’Alto Medioevo, salvo quello dei piccoli mercanti puramente locali, era generalmente un commercio di prodotti di grande valore perché trasportati a grandi distanze. 

I commercianti dovevano essere mercanti di professione, liberi dal servizio forzato e, preferibilmente, dovevano parlare una lingua internazionale, vuol dire compresa in vaste zone, come il latino, il tedesco nelle regioni baltiche e l’arabo in gran parte del Mediterraneo. 

Per la maggior parte delle altre prestazioni professionali e tecniche, delle quali si aveva necessità nell’Alto Medioevo, le condizioni erano analoghe a quelle della produzione e del commercio: servizi ecclesiastici, quelli degli artigiani specializzati, degli amministratori, degli eruditi e quelli molto importanti dei guerrieri e dei soldati. Si pensi ad un maestro campanaro. Può fondere due, forse quattro campane per una nuova chiesa di un piccolo paese o di una città. Ma quando ha finito il lavoro non può restare nello stesso luogo. Forse deve viaggiare a grandi distanze per trovare un’altra opportunità ed esercitare il suo mestiere di artigiano specializzato, un mestiere necessario anche nel periodo più buio dell’alto Medioevo. Gli esempi si possono moltiplicare senza difficoltà: gli architetti delle cattedrali che diffondono lo stile romanico per tutto il continente; i dottori di una università che avevano il privilegio di insegnare in qualsiasi altra università e molte volte non avevano l’opportunità di una carriera accademica se non lontano dalla patria; gli ecclesiastici, come !’italiano Anselmo, che diventava arcivescovo di Canterbury, carica che richiedeva una straordinaria abilità politico-amministrativa, oltre che teologica. 

Insomma, esisteva una piccola élite internazionale, che parlava una lingua internazionale ed era esperta nei diversi settori, di cui si aveva bisogno. Necessariamente questa élite dirigeva, comandava, sfruttava la grande maggioranza della popolazione europea. Contrariamente ad essa, i contadini perseveravano con i loro costumi e le loro lingue. Ecco il motivo dell’internazionalità del Medioevo e nello stesso tempo i suoi limiti. 

Fino a questo punto ho seguito la tesi del Deutsch, tentando di elaborarla. Andando più oltre, voglio dire che questo modello di Alto Medioevo suggerisce almeno una valida spiegazione del perché gli stati creati dopo la caduta dell’Impero romano erano cosi grandi ed etnicamente tanto diversi: era possibile costruire quei grandi imperi, perché l’Europa era sottosviluppata. Le varie regioni avevano bisogno di servizi e di prodotti che si potevano produrre solamente in tutta l’Europa o almeno in una parte molto grande del continente. I principi di stati relativamente piccoli non potevano eguagliare l’abilità militare e amministrativa di cui potevano disporre i conquistatori degli imperi. Attraverso i secoli il papato aveva potuto costruire e dirigere un’organizzazione comprendente tutta l’Europa cattolica. Ma non voglio continuare con questo argomento e con la riforma del Cinquecento. 

Come risaputo, la condizione dell’Europa dell’Alto Medioevo, quantunque di lunga durata, non fu permanente. Molti storici pensano che qualcosa non funzionasse nella civilizzazione europea dell’Alto Medioevo, riferendosi al declino morale che spiega la crescente secolarità della società oppure alla crescente secolarità che spiega il declino morale. Altri storici, di temperamento meno romantico, hanno proposto un deus ex machina, come il sorgere della borghesia o del capitalismo o il declino del feudalesimo. Il vantaggio della mia tesi è che possiamo fare a meno delle spiegazioni di tipo morale di uno sviluppo storico di si grande complessità, ed egualmente possiamo fare a meno di spiegazioni che, di per sé, hanno bisogno di ulteriori spiegazioni. Credo che siano stati proprio l’azione, il lavoro dell’élite esperta a dare la possibilità alle diverse parti del continente di svilupparsi economicamente e culturalmente. Diventava dunque possibile per quelle parti d’Europa fruire di quei servizi e almeno di molti prodotti che prima erano solo presenti in alcune regioni del continente. In altre parole, l’Europa diventava più ricca e meno sottosviluppata. 

Fu un processo assai lento. L’internazionalismo non poteva sparire da un giorno all’altro. Si può vedere, per esempio, il lento cambiamento culturale nel diffondersi della letteratura vernacolare: l’Italiano, il Francese, l’Anglo-sassone, il Tedesco. Questo fenomeno ci dice che esisteva in quel tempo un pubblico laico più numeroso e con molto tempo libero per imparare a leggere, contro quei pochi di prima che per necessità avevano imparato a leggere il latino. Nello stile delle costruzioni troviamo, invece, più differenze regionali. Lo stile gotico era ancora uno stile internazionale; però vi troviamo molte differenziazioni regionali che non troviamo nello stile romanico. E così via. 

Lo stesso fenomeno si manifesta nell’organizzazione politica, a causa del diffondersi delle abilità militari e amministrative nelle regioni d’Europa. Era il momento in cui si cominciavano a porre le basi degli stati nel Tardo Medioevo e nei primi secoli dell’età moderna. Le dimensioni esatte di questi stati non si possono conoscere, ma nessuno stato era ancora tanto esteso quanto l’impero di Carlomagno. Le affinità etniche o tribali potevano influenzare questo sviluppo, come anche le tradizioni classiche, e in ciò ci viene da pensare alla Hispania, alla Gallia e alla Germania. Però non si devono sopravvalutare le tradizioni letterarie o l’influenza di quelli che facevano propaganda “nazionale”, anche se scrivevano in latino. Si può dire anche di più; la mia tesi non sottovaluta un fenomeno umano che di solito oggi è ignorato dagli storici del nazionalismo ed anche dai combattenti per la libertà. Mi riferisco al fenomeno ormai diffuso dei matrimoni etnici. 

Gli stati del Tardo Medioevo, una volta formati, acquistavano la stabilità di organizzazioni ben funzionanti. A poco a poco, a causa delle tradizioni di lealtà alloro principe, a causa delle tradizioni educative ed anche di quelle mitologiche risalenti alla loro origine (tradizioni mitologiche che facevano considerare gli antenati come eroi), le popolazioni dei nuovi stati acquistavano un senso di nazionalità. Fu un processo assai lento. I contadini con usi, pregiudizi, lingue o dialetti, sopravvivevano come avevano sempre fatto. Si pensi, per esempio, alla lingua siciliana che scompare solo oggi nelle città, principalmente a causa della radio, del cinema e della televisione. L’idea dell’unità naturale della cristianità si affievolì solo nel Settecento ed è stata soppiantata dal nazionalismo, considerato quasi una religione che diventava motivo politico popolare. Nel corso del suo sviluppo, il nazionalismo si è servito dei sentimenti più antichi; naturalmente del patriottismo, ma anche, certamente, di altri sentimenti più perniciosi come il razzismo e la xenofobia. 

Scopo di questa mia conferenza non è quello di dare giudizi morali, ma di analizzare uno sviluppo storico per vedere se esso ci può illuminare per il futuro. Credo che adesso, alla fine del Novecento e del secondo Millennio, siamo arrivati all’immagine speculare della debolezza dell’universalismo del Medioevo, vuol dire della debolezza dello stato sovrano, di quella unità politica, economica e culturale, che fino a non molto tempo fa era considerata come unità naturale e quasi platonica. Nel Tardo Medioevo gli immensi imperi erano sopravvissuti alla loro utilità e credibilità. 

Nel campo dell’economia, della politica militare, dell’amministrazione e alla fine nelle emozioni della gente, il lavoro dell’élite internazionale non era necessario né era la più efficiente forma di organizzazione della vita dei popoli europei. 

Oggi troviamo che il nazionalismo etnico-populistico, e la sua incarnazione nello stato nazionale sovrano, comincia a sopravvivere alla sua utilità e credibilità. Questo sviluppo si nota nell’Unione europea, fondata da una generazione che nella seconda guerra mondiale era giunta ad un nazionalismo esagerato. Per una nuova generazione e forse ancora più importante il sorgere di un mercato globale, finanziario e di produzione. 

Che resta della sovranità di uno stato individuale, quando il corso della sua moneta, la quantità delle tasse, insomma la sua politica economica dipende da banche e da altri organismi internazionali con direttori non eletti e sconosciuti? È la fine non tanto delle differenze e tradizioni culturali, almeno non necessariamente, quanto del nazionalismo politico. 

Ed ecco la mia analogia, un’analogia di immagine speculare. Senza dubbio, sarà un processo lento, come era la morte dell’idea dell’universalismo medievale. Non si può predire quanto tempo sopravviveranno gli stati nazionali, che cambiamenti potranno aversi o quali organismi subentreranno agli stati non ancora del tutto riconosciuti. Le nazioni non sono entità platoniche. 

Voglio terminare con una citazione di Goethe. Nel Faust Mefistofele dice allo studente principiante che aveva deciso di non studiare la giurisprudenza: 

Vernunft wird Unsinn, Wohltat Plage; 
Weh dir, dass du ein Enkel bist! 


La ragione diventa un nonsenso, il beneficio una piaga; 
Misero, che sei un nipote! 

Helmut G. Koenigsberger

(*) Questa relazione, curata da Vita Montalto, riprende ed elabora più compiutamente un breve articolo del prof. H. G. Koenigsberger apparso nel novembre del 1996 con lo stesso titolo su “European History Quarterly”.

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 5-11.

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