Epifanie isolane Bufalino, il giovane artista e Joyce

Un divario temporale di quasi mezzo secolo, e molte altre cose, come la distanza tra l’Irlanda e la Sicilia, separano Joyce da Bufalino. Una profonda linea di demarcazione che, ricorrendo a troppo facili periodizzazioni letterarie, divide il moderno, anzi il modernismo, dal post-moderno. Ma come già aveva sottolineato T.S. Eliot nel suo saggio-manifesto modernista del 1919, Tradition and The Individual Talent, il possesso del senso storico (che “è senso dell’atemporale come del temporale, e dell’atemporale come del temporale insieme1”) conduce l’artista verso un dialogo necessario con la tradizione, poiché – scrive Eliot – “nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà su di lui è il giudizio di lui in rapporto ai poeti o agli artisti del passato2”. Di questa idea dell’esistenza oggettiva e globale della letteratura, celebrata da Eliot nel concetto di “poesia come unità vivente di tutta la poesia che sia mai stata scritta3”, Bufalino ha sempre dimostrato consapevolezza. Così, nell’introduzione al suo Dizionario dei personaggi di romanzo pubblicato nel 1982, egli riflette su una questione interpretativa, e riconosce uno statuto universale del personaggio letterario, “eroe culturale” che può trovare un senso ultimo nel rapporto con il lettore. Il personaggio è infatti “multiplo e solitario, sempre altro e sempre uguale, corposo come una roccia e perversamente sottile”4: secondo l’autore del Dizionario, la letteratura tutta con gli abitanti invisibili che la popolano, è “la nostra patria più vera”, e coerentemente intitola la sua introduzione all’opera, “Passione del personaggio”5. Questo inventario di 138 personaggi, da Don Chisciotte fino all’Innominabile di Samuel Beckett, viene descritto dallo scrittore come la proiezione fantasmagorica di un “solo grande romanzo-arlecchino, un film-monstre dall’ineguagliabile cast”6, e compare pure il giovane protagonista del Portrait (1916) di Joyce, Stephen Dedalus, mentre su una spiaggia della costa di Dublino sperimenta l’epifania della propria vocazione artistica.

La complessa orchestrazione della scrittura di Bufalino accoglie suggestioni e memorie provenienti da una vita di letture vastissime mai interrotte, e di studi letterari ( che saranno segnati dalla guerra e dalla malattia), un mondo nel quale i confini tra lettura e scrittura appaiono labili, e dove la letteratura e la vita possono sovrapporsi. Similmente, nell’affollata galleria della memoria, un personaggio da romanzo rimanda ad altri personaggi da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi da romanzo, e il mondo fittizio, come scrive Pavel, diventa riflesso di un mondo ontologicamente riconosciuto e dunque possibile7. L’universo narrativo di Gesualdo Bufalino ruota attorno ad uno spazio fondamentale, immaginario e reale insieme: l’isola. La Sicilia. Una marginalità geografica che fa da sfondo al percorso di formazione dello scrittore, che non rinuncia nei suoi romanzi alla tentazione di sperimentarsi nell’io narrante, drammaticamente e ironicamente trasformato in “personaggio”. Sia Diceria dell’Untore, che Bufalino pubblica sessantenne nel 1981, quando, maturo professore di liceo diviene improvvisamente ‘caso letterario’, che Argo il cieco, pubblicato nel 1984, si concentrano sopra un nucleo autobiografico fondato sull’appartenenza isolana dell’autore, uno spirito ineffabile e aristocratico che Bufalino definisce “isolitudine”, e che rende i siciliani “isole dentro l’isola”8. L’isola assume una valenza simbolica, all’interno della quale stratificazioni mitiche e letterarie si collegano ad un piano storico e soprattutto memoriale. Il desiderio di una Sicilia incantata è la premessa fondamentale dalla quale nasce “il sogno della memoria”, filo conduttore di Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, romanzo postjoyciano “dell’artista da giovane”, il cui titolo è già un manifesto di poetica, dove l’idea di una memoria caleidoscopica dai “cento occhi”, come quella del mostro mitologico evocato dalle Metamorfosi, si coniuga con la percezione di una costitutiva evanescenza onirica dell’atto del ricordare9.

L’immagine di un paese siciliano nell’estate del cinquantuno (“un paese in figura di melagrana spaccata, vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro”) apre il racconto di un tempo lontano che può cominciare grazie alla rievocazione di uno spazio costruito in un evidente sistema di opposizioni: alto/basso, terra/ mare, campagna/città; simbolicamente diviso in due, metà reale e metà fiabesco, e che esiste ‘fotografato’ solo in quel sogno memoriale, perché, come scrive l’autore nell’epigrafe introduttiva al primo capitolo, questo è un paese “che non c’è più”: “L’autore, per rallegrarsi la mente ripensa antiche letizie e pene d’amor perdute in un paese che non c’è più”.

Si configura quello che Coletti definisce “uno spazio del desiderio regressivo” 10, una nostalgia di paesaggi che sono inscindibili dall’acuto (proustiano più che ungarettiano) sentimento del tempo. La memoria ha per Bufalino un doppio significato, da un lato nostalgica rievocazione del passato, dall’altro volontaria e terapeutica finzione, che sembra suggerire un implicito riferimento al grande mito della modernità romanzesca rappresentato da Don Chisciotte, dal suo modello di riflessione metalinguistica e degradazione parodica, che rende la realtà una costruzione culturale.11

«L’arte arto, che ne pensi? Un arto artificiale, s’intende, e non solo per rendere più ghiotto lo scioglilingua ma perché questo a me veramente serve: un surrogato di vita durante il giorno e un surrogato di sonno, quando non posso prendere sonno la sera.» (cap. III bis, p. 263)

In Argo il cieco il dialogo con la memoria si svolge in un aperto gioco di specchi tra autore e personaggio, un costante frammezzarsi nella storia da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi di capitoli “bis”, che rappresentano una controvoce metanarrativa, la voce dell’autore attuale che a distanza temporale e spaziale dalla vicenda narrata ( trent’anni dopo, in una “matrimoniale senza bagno” di un albergo romano) riflette sulla propria scrittura e su se stesso, svelando al lettore le impalcature dell’edificio letterario costruito sulle parole: culturale11.

«Parole, si. E me n’ero costruito un glossario, quasi i ruoli d’un esercito: depravate, timide, tracotanti, dolorose; tutte ugualmente disciplinate fino alla nausea» (cap. XXVII bis, p. 395).

Una sorta di self-conscious novel, che nella definizione del critico Stonehill è la forma più rappresentativa della narrativa postmoderna: una narrazione focalizzata sull’artificio letterario, sul suo status di fiction.12 Nello spazio metanarrativo occupato dall’autore riconosciamo un ‘dopo’, un passaggio in direzione temporale e dunque storica. Non c’è immobilismo letterario in Argo il cieco, che fu accolto dalla critica13 con qualche riserva rispetto al primo romanzo, e venne infatti accusato di scarsa originalità; ma al contrario, qui Bufalino sperimenta la definitiva insostenibilità di un modello narrativo stabile, ancorato alla realtà di un racconto autobiografico.

Lo spazio della memoria è sogno, finzione e dunque letteratura. Ricreando l’esperienza, l’artista conquista dolorosamente la parola (le “mostruose fantasticherie” che invadevano la mente di Stephen Dedalus14) e la restituisce attraverso la scrittura, pagando il suo debito, che riscatta da un lato e fa rivivere la ‘colpa’ dell’arte dall’altro.

«Questo miracolo di creare con un po’ di suoni e segni una bolla d’inesistenze ciarliere, come non finisce di apparirmi un’azione losca, una colpa» (Argo il Cieco, cap. VI bis, p. 295).

Il giovane poeta, protagonista di Argo il cieco, oggetto dello sguardo disincantato del suo anziano doppio, si trova alle prese con un amore non corrisposto e con memorabili epifanie isolane, che nella scrittura colta e infarcita di preziosismi evocano il barocco architettonico dei palazzi e delle chiese del profondo sud di Sicilia (di Modica e dintorni) facendo risuonare, come ha osservato Sciascia, “accordi da rondò”15.

Lo svolgersi della storia appare come una “dilatazione dell’io”16, un percorso che svela una realtà molteplice, fondata sulla trasformazione: “Questo è ora, guardatelo, il ragazzo di cento pagine fa” (XVII bis, p. 398).

Il giovane artista del tempo che fu è un personaggio che allo sguardo retrospettivo dell’autore appare un “giovane zufolo”, una dolceamara parodia siciliana dello Stephen Dedalus joyciano, che occupa la pagina 393 del Dizionario dei personaggi di romanzo.

La letteratura si ripiega su se stessa, e tra le molte citazioni occulte e rimandi intertestuali, il titolo del capitolo VI bis (“Ritratto dell’artista come giovane zufolo”) è un intenzionale ritorno al Portrait di Joyce, la volontà (e la necessità) dello scrittore di stabilire un dialogo con il passato, con quel modello fondamentale di Ritratto d’artista novecentesco, sperimentando però, nello stesso tempo, la sua irreversibile inattualità che si esprime in una tragicomica parodia17. E così in apertura del capitolo VI bis, l’autore si presenta “com’era allora”:

«Ero uno zufolo capace di due note sole allora. Facile da suonare, ma bisognava impararmi. Erano due, le note, una d’afflizione, da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi uì uì uì, come quando bastonano un cane; l’altra di letizia trallalà trallallera, che veniva da una violenza di fame per ogni fumante rosso ragù della vita.» (cap. VI bis p. 293).

La vita è per Bufalino una costante oscillazione tra tanatofilia e tanatofobia, un dualismo che si fonda sulla predilezione retorica per l’ossimoro, contenuto nello stesso titolo Argo il cieco, e legato soprattutto a temi esistenziali, che secondo Enzo Papa18 farebbe di Bufalino un ultimo epigono della grande stagione del decadentismo europeo. E se nel Ritratto di Joyce l’estetismo dannunziano fin de siecle ha per molti aspetti influenzato una concezione estetica che ferma il tempo nella folgorazione di un’epifania, in Argo il cieco l’incorruttibile bellezza di un attimo (la stasi joyciana derivata dalla filosofia tomistica19) diventa un illusorio desiderio di vita minacciato dall’attesa della morte.

«L’inganno cioè che il sole s’impietri dov’è, e la luna; che nel nostro sangue nessuna cellula invecchi di un attimo in questo attimo stesso che sembra passare e non passa, sembra non passare ed è già passato». (cap. VIII, p. 306).

L’epifania della ragazza sulla spiaggia chiude il quarto capitolo del Portrait di Joyce (è il passaggio riportato da Bufalino nel suo Dizionario) e rivelerà a Stephen Dedalus, che poco prima in un colloquio con il direttore del collegio gesuita era stato invitato ad entrare nell’ordine, la strada definitiva e profana dell’arte. Questo momento rappresenta la piena realizzazione letteraria del concetto di epifania, definito nel capitolo XXV di Stephen Hero (1905), incompiuto romanzo d’artista, la cui redazione venne interrotta da Joyce per poi confluire nel nuovo progetto di A Portrait of the Artist as a Young Man: “Per epifania intendeva Stephen un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri degni di essere ricordati”20.

L’immagine della ragazza ferma sulla riva di un mare smeraldino è costruita secondo un sensuale estetismo che crea un parallelismo simbolico tra la fanciulla (“angelo della gioventù e della bellezza mortale”) e un piumato uccello marino:

«Una ragazza gli stava davanti in mezzo alla corrente: sola e immobile, guardando verso il mare. Pareva una creatura trasformata per incanto nell’aspetto di un bizzarro e bell’uccello marino. Le sue lunghe gambe nude e sottili erano delicate come quelle di un airone e intatte, tranne dove una traccia smeraldina di alga era restata come un segno sulla carne. Le cosce, più piene e sfumate come l’avorio, erano nude fin quasi alla anche, dove gli orli bianchi dei calzoncini erano come un piumaggio di soffice pelurie candida21 ». (cap. IV).

Nel XIII capitolo di Argo il cieco, durante una passeggiata nella cava antica di Ispica con l’amata Maria Venera, il giovane protagonista replica il sensuale lirismo dell’epifania joyciana, ma da candido ed etereo uccello marino la ragazza viene trasformata in una più prosaica e scura allodola canterina:

«Era vestita di nero, come sempre. Il solito abitino liso, una mussola da rigattiere. Ma come le stava bene, la faceva sembrare un uccello. Con le gambe sottili e snelle ed un aire naturale di volo. Una cicogna, una gru. Se non un’allodola, per come cantava». (p. 347).

La degradazione ad un livello di quotidiano realismo dell’epifania joyciana non è soltanto un gioco parodico, ma la necropoli, luogo di confine tra la da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi vita e la morte (proprio come la riva del mare rifletteva in Joyce un confine tra essere e apparire ) diventa un simbolo della tragica condizione del vivere, che inevitabilmente (e persino allegramente) procede verso la morte:

“Noi ci spingemmo avanti, catecumeni di un felice e verde Al di là. Senza i rumori di catene, i lamenti, i flosci voli di pipistrelli che accompagnano i viaggi sotterra d’ogni Enea o Vas d’elezione.” (XII, p. 345)

Come ha evidenziato Margaret Doody22 esaminando i tropi del romanzo a partire dall’età classica, ambientazioni di paludi o spiagge, la presenza del mare o di tombe, caverne o labirinti, rappresentano spazi liminali (dal latino limen, soglia), luoghi cioè che per loro costituzione comunicano un’idea di confine, di indeterminatezza tra uno stato ed un altro. Il luogo della sepoltura richiama un concetto di Morte in Vita, una realtà dominata da un’idea di decomposizione, dove anche l’identità si sbriciola. E il personaggio è condannato alla lacerazione, come il protagonista di Argo il cieco, imprigionato nel sogno memoriale dell’autore (“scrivere è stato per me solamente un simulacro del vivere”; XVII bis ) che solo il lettore può condividere nella malinconica scoperta dell’infelicità.

Ed infine l’isola è protagonista, al pari degli stessi personaggi, delle storie d’artista di Joyce e di Bufalino. Stephen Dedalus ha compiuto un viaggio simbolico-rituale dentro il ‘labirinto’23 della sua isola irlandese, e la stessa formazione dell’artista può leggersi come iniziazione cultica attraverso riferimenti al mito di Dedalo, la cui storia rimanda proprio alla presenza di un’isola (Creta e anche la Sicilia). La percezione labirintica dello spazio suggerisce l’idea di un passaggio sotterraneo, o di un luogo segreto, in cui il meraviglioso si fonde con il mostruoso, come quello abitato dal Minotauro.

Un cordone simbolico lega l’artista all’isola in una perenne oscillazione di colpa e desiderio, che nel Portrait culminerà nella scelta di Stephen dell’esilio nel mondo, nella necessità di abbandonare l’isola, per poi però ricrearla nella letteratura: la profetica immagine di “nubi screziate sul mare” che sembrano “nomadi in marcia” verso occidente24. E infine, l’isola Giulia o Ferdinandea, sprofondata nel mare per poi un giorno riemergere, compare nel romanzo di Bufalino, e rappresenta l’isola come luogo della natura magico e inquietante, teatro del disorientamento spazio-temporale; un non-luogo mitico che appartiene alla memoria collettiva e che rimane sospeso tra assenza e presenza, morte e vita, sogno e storia.

«Allora cominciai a dirle dell’isola Giulia ovvero Ferdinandea emersa da queste acque fra Sciacca e Pantelleria un secolo addietro e passa. Di sabbia fine, nera e pesante, con un ponticello nel mezzo e un laghetto d’acqua bollente nella pianura. Il mare la circondava, un mare color celeste ma untuoso come d’olio. E l’isola visse qualche tempo, poi il mare se la riprese. Un giorno riemergerà ». (cap. X, p. 237).

Note

1 T. S. Eliot, Tradition and the Individual Talent (1919), trad. it. Tradizione e talento individuale in T. S. Eliot, Opere 1904-1939, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 2001, p. 394 e segg.
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 Gesualdo Bufalino, “Passione del Personaggio”, introduzione al Dizionario dei personaggi di romanzo da Don Chisciotte all’Innominabile, (1982), Milano, Rizzoli, 2000, p. 15.
5 Bufalino aveva in mente gli studi di G. Genette, Figure III, Torino, Einaudi, 1976; G. Lukàcs, Problemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976; M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977; M. Robert, L’antico e il nuovo, Milano, Rizzoli, 1969; J. Rousset, Forme e significato, Torino, Einaudi, 1976. Tutti compaiono in nota all’introduzione cit.
6 G. Bufalino, Introduzione al Dizionario dei personaggi di romanzo, cit. p. 2.
7 Cfr. Thomas Pavel, Mondi di Invenzione (1986) trad. it. a cura di Andrea Carosso, Einaudi, Torino, 1992.
8 Cfr. Gesualdo Bufalino, Giuseppe Leone, L’isola nuda, Bompiani, Milano, 1998.
9 Gesualdo Bufalino, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, Sellerio, Palermo, 1984, ora in Gesualdo Bufalino, Opere 1981-1988, a cura di Maria Corti e Francesca Caputo, Bompiani, 1992. Le pagine indicate si riferiscono a questa edizione.
10 Vittorio Coletti, “Spazio e tempo nel romanzo italiano contemporaneo” in Le configurazioni dello spazio nel romanzo, Bulzoni, Roma p. 205.
11 Cfr. Alfonso Berardinelli, “L’incontro con la realtà”, in Il Romanzo a cura di F. Moretti, vol. II, “Le Forme”, Einaudi, Torino, 2002.
12 Brian Stonehill, The Self-Conscious Novel. Artifice in Fiction from Joyce to Pynchon, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1988, p. 3: “the self-conscious novel is an extended prose narrative that draws attention to its status as a fiction”.
13 “ci troviamo davanti a non molto di diverso per le situazioni e i materiali, da tanta arcaica letteratura neorealistica” L. Mondo, “Argo, vecchio e cieco alla ricerca degli anni felici”, in “Tuttolibri”, 23 febbraio 1985.
14 “His recent monstruous reveries came thronging into his memory.” J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, cap. II, edited by S. Deane, Penguin, 2000, p. 95. 15 Leonardo Sciascia ha definito Argo il cieco un “racconto rondò” nell’articolo “La memoria è musica”, L’Espresso, 23 dicembre 1984.
16 Cfr. Angelo Guglielmi, “La dilatazione dell’io”, in “Nuove Effemeridi” n. 18/1992/II.
17 Sui “Ritratti d’Artista” di Joyce e Bufalino e sulla presenza di uno spazio narrativo simbolico Cfr. Maria Paola Altese, Portrait della memoria. Lo spazio come simbolo, Ila Palma, Palermo, 2005.
18 Enzo Papa, “Gesualdo Bufalino” in “Belfagor”, Firenze 52, 5, 1997.
19 Maurice Beebe, “Joyce and Aquinas: the Theory of Aesthetics”, in James Joyce: the Dubliners and A Portrait of the Artist as a Young Man, Morris Beja (editor), Macmillan, 1973.
20 Trad. it. di Cesare Pavese in Joyce. Racconti e romanzi, Mondadori, 1974.
21 James Joyce, Dedalus: Ritratto dell’Artista da giovane, trad. it. di Cesare Pavese, Mondadori, Milano,1974. Versione inglese cit. p.185. “A girl stood before him in midstream, alone and still, gazing out to sea. She seemed like one whom magic had changed into the likeness of a strange and beautiful seabird. Her long slender bare legs were delicate as a crane’s and pure save where an emerald trail of seaweed had fashioned itself as a sign upon the flesh. Her thighs, fuller and softhued as ivory, were bared almost to the hips where the white fringes of drawers were like featherings of soft white down.”
22 Margaret Doody, The True Story of the Novel, trad. it. La vera storia del romanzo, Sellerio, Palermo, 2009.
23 Diane Fortuna, “The Art of the Labyrinth” in Critical Essays on James Joyce’s A Portrait of the Artist as a Young Man, Brady-Carens editors, Macmillan, 1998.
24 “Disheartened, he raised his eyes towards the slowdrifting clouds, dappled and seaborne. They were voyaging across the deserts of the sky, a host of nomads on the march, voyaging high Ireland, westward bound.” 

 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 5-10.

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