Una prosa d’impegno 

I. Marusso. Un uomo per una folle speranza Mafia e droga nella Sicilia occidentale viste da vicino, Ed. Bastagi. Foggia. 1990. pagg. 100. 

Con questo libro Irene Marusso ha mantenuto la promessa. La “Trilogia del malessere”. già annunciata qualche anno fa, ora è completa, ed anche felicemente perché il libro che la conclude ha diversi motivi di validità, come cercherò di dimostrare. 

Quali sono questi motivi? Prima di ogni altro, il modo di mantenere e integrare la coerenza e la organicità del disegno. Sono volumi legati fra di loro da quella che potrebbe dirsi una struttura profonda, cioè, un motivo di base che li percorre tutti e che si identifica con la sensibilità per certi problemi umani che nella sostanza sono problemi di sempre, ma che oggi, per il duplice motivo che, purtroppo, li conosciamo direttamente nella vastità del loro manifestarsi, li viviamo quasi quotidianamente. ci sembrano esclusivi del nostro tempo. 

È così che, dopo averci presentato con “Una moglie frigida” le complicazioni di un esistenziale rapporto coniugale reso difficile dalla routine e dall’intrecciarsi di situazioni scabrose, e dopo averci fatto riflettere con “Umanità alla sbarra” sul rifiuto che questa nostra società oppone ad esseri umani segnati, contro la loro volontà, da passioni amorose sconvolgenti, Irene Marusso ora, con questo “Un uomo per una folle speranza” sollecita le nostre considerazioni sulla problematicità di un riscatto morale e sociale che, pure perseguito ad alta voce da tanti programmi e dichiarazioni ufficiali, tarda, purtroppo, ad arrivare a soluzione. ed anzi pare allontanarsene ogni giorno di più. 

Sotto la spinta dell’interesse per i problemi umani. che è alla base di tutte le opere, non soltanto di narrativa, ma anche nelle liriche e negli scritti giornalistici. Irene Marusso si è soffermata sulla vicenda di un uomo che lotta per dare realtà a una speranza veramente bella. ma che alla fine si rivela solo “folle”. Ma il titolo non deve fuorviare. 

Un libro come questo va considerato sotto due aspetti: quello letterario e quello storico-sociale. Sono due aspetti che sembrano abbastanza distinti, ma se si guarda più a fondo nel caso specifico si scopre che l’ambientamento spazio-temporale è parte integrante del racconto, e gli fa da imprescindibile base. Tale ruolo è svolto, per un lato, da una Sicilia tratteggiata nei suoi elementi più tipici, essenziali e realistici, in un modo che si evidenzia l’amore di Irene Marusso per la sua terra. dall’altro dal richiamo di taluni eventi caratterizzanti la storia più recente. In questo quadro le due vicende di amore vissute dai protagonisti. sia quella brevissima ma intensa con la dolcissima Cincin. la giovane vietnamita conosciuta nella giungla sconvolta dalla guerra, sia quella più durevole e determinante intrattenuta con Caterina, costituiscono l’ordito su cui vengono a interessarsi le trame sottili di un messaggio che consiste non nella rivelazione di un sistema risolutorio. ma nella indicazione di un problema di vasta portata sociale animata dall’intento di richiamare su di esso la necessaria attenzione da parte di tutti. 

Io non credo che Irene Marusso abbia raccontato solo per il gusto di raccontare. Ha raccontato certo perché ne ha l’attitudine e nello scrivere si realizza, ma il suo racconto ha dato. secondo me, consapevolmente, il valore di un invito ad aprire gli occhi sull’epoca in cui viviamo, sì da andare a capire com’è che essa è quella 

che è. attraverso quali eventi e per quali eventi e per quali più o meno palesi ragioni essa sia arrivata ad essere tale, invogliandoci, quindi a vivere con utile consapevolezza e adeguata maturità. Se così non fosse, avrebbe dato al suo romanzo quel sottotitolo che campeggia così ben circostanziato sulla copertina: “Mafia e droga nella Sicilia occidentale viste da vicino”. Così il triste fenomeno risulta documentato negli accadimenti e nella crudezza dei suoi effetti, constatato nella disumanizzazione di cui è causa, accusato in tutta la sua perfida potenza di disgregazione e di annientamento. Ed è proprio per assicurare la chiara percezione di questa base storico-sociale che qua e là il racconto cede spazio a sintetici ma lucidi richiami di eventi storici che, se pur coevi a molti di noi, noi stessi abbiamo quasi dimenticato sotto l’urgere degli obblighi quotidiani. il progressivo rinchiudersi nel privato e l’incalzare di nuove esperienze. 

Sono passi che hanno l’impronta di excursus storici e il pregio della sobrietà e della chiarezza, nonché quello dell’oggettività, in quanto da essi non traspare, tantomeno emerge. alcuna presa di posizione preconcetta contro chicchessia. Quel che invece balza fuori ben chiaro. attraverso l’evidenza assicurata a certi dati raccapriccianti, è la denuncia degli errori in cui gli uomini incorrono a dei danni di vario genere che tali errori inevitabilmente producono. Si vedano, per esempio, i flashs sulla guerra del Vietnam: narrazioni e descrizioni soltanto, ma tanto efficaci quasi quanto le insistite sequenze che una recente cospicua filmografia di produzione americana ha mandato in giro per il mondo quasi a confessare un sanguinoso reato contro l’umanità innocente, e a recitare il mea culpa. E si leggano tra le righe anche le notizie dei delitti di mafia, scarne ed essenziali, annotate come in un rapporto di cronaca, eppure così funzionali a produrre avversione contro un così triste e discreditante fenomeno. Per contro, non mancano parole di plauso, e quasi di gratitudine, per chi offre attiva collaborazione e aiuti concreti a iniziative animate dal serio proposito di togliere di mezzo ogni motivo di malessere. 

Comunque, il contributo migliore al trionfo della causa giusta viene dall’andamento della vicenda che fa da nucleo sostanziale a tutta l’opera. 

Questo giovane mutilato che sopperisce con la fede nei suoi giusti principi, con la vivacità della sua intelligenza. con la fermezza del carattere e la tenacia dei sentimenti alla quasi impossibilità di muoversi. e che, nonostante l’immobilità fisica cui è condannato. riesce a muovere tante di quelle persone che l’avvicinano, e che egli arriva ad avvicinare, e a dare ad esse tanta fiducia nella vita, è un tipo umano che si propone come esempio a una società che sempre più spesso va perdendo la nozione e il senso di quel che significa veramente impegno civile ed umano. Purtroppo, alla fine egli soccombe, e così pare che il male sia invincibile o, che è lo stesso, che le sue forze siano superiori a quelle del bene. Visto che il successo che arrideva agli onesti propositi di questo benefattore viene meno, pare legittimo che il pessimismo tomi ad avere il sopravvento. Per altro, se sospendiamo la lettura del libro e poniamo mente alla cronaca di tutti i giorni, e alle brutte esperienze che spesso ci tocca fare per strada, negli uffici, e persino dentro le stesse pareti domestiche, dobbiamo, se pure a malincuore, riconoscere che il pessimismo sul nostro presente e, ahimè, sul nostro futuro, ha maggiore fondatezza dell’ottimismo. Ne è rimasta condizionata pure Irene Marusso, che certo sarebbe rimasta fuori della realtà se avesse concluso trionfalmente la sua storia. Anche perché chi conosce le sue opere sa bene che da esse è bandito sistematicamente il lieto fine, forse anche per adesione a quel principio cui diede massima notorietà, in epoca di neorealismo, un critico cinematografico quale Giuseppe Chiarini, quando scrisse: “il lieto fine è immorale”. 

C’è, però, una precisazione da fare: la fine tragica del protagonista non deve assolutamente significare sconfitta e invito alla resa. Vale, invece, come testimonianza e come avvertimento. Vorrei che ci riportasse fuori dal gretto materialismo imperante ai nostri giorni verso quei bei tempi di realismo romantico di cui gli eroi, anche se soccombenti, deliberatamente votatisi al sacrificio, erano in realtà i veri vincitori: primo, perché a differenza dei loro nemici potevano agire fuori dalle tenebre e dall’ombra ed, anzi, alla piena luce del sole, poi, perché la loro fine, quando si verificava, era il principio della riscossa, di una lotta più coraggiosa e sagace per l’affermazione dei propri ideali. Penso specificatamente, in letteratura, agli eroi alfieriani e, nella storia di tutti i tempi, anche i più recenti, e di tutti i luoghi, alla folta schiera di martiri che presto o tardi riescono a prevalere e ad ottenere il riconoscimento del giusto diritto dei propri ideali e del grande valore delle azioni da essi ispirati. 

In questa ottica credo che Irene Marusso chieda si legga la conclusione della “trilogia» di cui è autrice, e in particolare quella del suo terzo momento. Rifiuto decisamente l’idea di una Irene Marusso che presta la sua voce a certo pessimismo progrediente. Che se poi qualcuno dei lettori gradisce solo racconti di vicende di singoli, narrazioni di fatti di amore con tutta la vasta e varia gamma dei loro momenti, può trovare pure questi nel libro di cui parliamo; e sono fatti raccontati con buona perizia letteraria nell’impostazione e conduzione dei dialoghi e nella caratterizzazione dei personaggi; tanto gli uni che gli altri hanno quasi tutti i requisiti necessari per interessare e piacere. Si tratta infatti di una storia d’amore raccontata con garbo, con discrezione, con misura, senza nessuna concessione a quell’erotismo che oggi è tanto di moda, neanche in quei passi in cui pur ce ne sarebbe stata l’occasione. Una storia che bada ai sentimenti, più che ai sensi, e li pone in primo piano, e li esprime con mezzi semplici, con il parlare di tutti i giorni, con rapidi tocchi e accenni fugaci, battute essenziali, lasciando che emergano di per sé, e di per sé si impongano all’attenzione di chi legge, e di per sé si imprimano nella sua memoria. Una tecnica narrativa, insomma, di tutto rispetto, e che mi pare anche si presti bene ad una sceneggiatura cinematografica, e quasi la prepari. Ma chi si ferma a leggere questa storia solo come fatto sappia che, in realtà, viene a sottrarre al libro il valore che gli deriva da quell’impegno morale e quindi civile che lo anima pacatamente e che il breve giudizio stampato sull’ultima pagina di copertina pone in opportuna evidenza. 

In altri termini, chi limita la sua attenzione alla vicenda, godrà certo i pregi letterari del racconto ma perderà di vista, colpevolmente e con suo danno, la presenza di quell’impegno di cui dicevo sopra, e che, seppure non enfatizzato, certo è elemento integrante del libro, e quindi merita e richiede di essere adeguatamente valorizzato. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 45-49

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