Cultura e Società 

 La cultura è parte integrante di ogni società, qualcosa di inscindibile per cui l’una non può fare a meno dell’altra. Questo da sempre. Le varie società non hanno fatto altro che servirsi di una cultura su cui modellare l’esistenza delle collettività e cultura erano non solo le conoscenze in genere, ma il comportamento, gli usi, i costumi che differenziavano un popolo da un altro. 

Nei tempi passati la cultura, intesa come un insieme di conoscenze letterarie, artistiche, scientifiche, era dominio di una élite molto ristretta e spesso vicina, se non addirittura legata, alla classe dominante. Mentre non veniva affatto considerata la cultura propria della povera gente che, pur non sapendo leggere e scrivere, faceva tesoro della sua esperienza e la trasmetteva ai figli. Per essa cultura era educazione, rispetto verso gli anziani, tutela della famiglia, amore, riserbo del sesso, osservare e tramandare, cioè, tutte quelle nozioni e massime di vita capaci di fondere in una comunione di intenti il gruppo entro cui viveva e, quindi, la società. 

Oggi, per cultura, intendiamo il bagaglio di conoscenze che l’uomo si porta dietro per tutto il corso della sua vita. Conoscenze di ogni genere che egli acquisisce nell’ambiente familiare, nel giuoco, a scuola, nel lavoro, oppure, quelle che gli propinano i mezzi d’informazione o, ancora, quelle che apprende tramite i propri interessi di studio, letterari, artistici o scientifici che siano. A differenza del passato, chiunque può farsi una cultura nel senso più ampio del termine e chiunque viene integrato nella vita sociale in rapporto al grado di conoscenze acquisite. Ma la società è discriminatoria, e solo chi è bene preparato può sfuggire ai colpi che gli vengono inferti da ogni dove. Prima questo non si notava tanto. Gli uomini di studio venivano tenuti in grande considerazione, e i dotti si additavano per quelli che veramente erano: uomini di scienza e saggi, perché la cultura implicava saggezza e bontà d’animo. Adesso le cose sono cambiate. Con l’avvento dell’era tecnologica che tutto confeziona, perché tutto possa essere facilmente consumato, persino la cultura viene confezionata, fatta su misura, pronta ad essere utilizzata e messa da parte come un qualsiasi oggetto di consumo che non serve più, mentre altre conoscenze si accavallano e si accumulano, e l’uomo non ha il tempo sufficiente per selezionarle e per assimilarle. 

Siamo in un’era tecnologicamente avanzata che massifica qualsiasi cosa. Non è nemmeno il caso di ricorrere ai grossi nomi della sociologia (Ortega y Gasset, Marcuse, E. Morin) per analizzare sinteticamente questa evoluzione che certamente non ha influssi positivi sulla personalità umana. Ognuno di noi sa bene come vanno le cose. E, in verità, non è la qualità che viene richiesta. 

L’industrializzazione. con i suoi fattori positivi di crescita materiale, ha creato tanti scompensi da considerare l’uomo, costretto a vivere per ragioni di lavoro assieme ad altri con usi e costumi differenti ai suoi. non più come un individuo, ma come una massa, un insieme indeterminato, un numero fra altri numeri. spinto più che altro da una sete insaziabile di produzione e non di creazione. Da ciò deriva che in questo ultimo ventennio l’uomo ha subito un’inversione di tendenza. Non privilegia la creatività, ma valorizza la produzione, sicché egli non si realizza come si deve e si abbrutisce ancora di più, perché quello a cui tende è la quantità, non importa se il prodotto è deludente. Importante è che si smerci. 

Questa è la tendenza delle società odierne. Tranne quei pochi gruppi privilegiati che ne sono tuttora esenti (le piccole comunità, i Paesi del Terzo Mondo), l’industrializzazione ha reso l’uomo sempre più un alienato, non solo perché sradicato dalla terra di origine, ma, sopratutto, perché costretto a fare ciò che altri milioni di uomini fanno in ambienti ristretti e sopraffollati (fabbriche e città) con le conseguenze logiche della precaria vivibilità per gli intasamenti e l’inquinamento. L’uomo ne esce sminuito, non ha una propria personalità, e chi non si adegua, insistendo sulla sua unicità, viene trattato con indifferenza, come un diverso, e non trova spazio, perché, appunto, non si conforma ai modi comportamentali degli altri. 

La società di massa, esclusivo prodotto delle società tecnologiche, fa propria una cultura che non è espressione del libero pensiero, ma è standardizzata e, come un qualsiasi bene di consumo, risponde alle esigenze del mercato. Così, per esempio, accade che in un rotocalco o in una rivista di larga diffusione, accanto alla notizia di un’attrice che si separa dal marito, viene riportato il commento ad un film di prima visione o, se vogliamo, accanto ad una pagina pubblicitaria della Fiat, troviamo una nota di costume o l’apprezzamento su un libro appena edito. Ma, se facciamo caso, sono dei semplici spunti, brevi riflessioni, quasi lapidarie, che non centrano il discorso di fondo, che riferiscono piuttosto che criticare nel senso più positivo del termine. È perché quelle note devono andare bene per tutti, sia per coloro che hanno una cultura più elevata sia per quelli con un’istruzione media. Sicché abbiamo una culturizzazione che tocca ogni strato sociale ma, al tempo stesso, abbiamo un appiattimento che limita la cultura ad una conoscenza superficiale di certe nozioni. 

La cultura vera e propria, quella che si prefigge di elevare moralmente e socialmente l’uomo, ha vita difficile e quasi vive per sé, non perché vuole emarginarsi, ma perché la società post-moderna non le dà lo spazio dovuto, poiché non ne riceve vantaggi, anzi ne viene ostacolata nella corsa verso il denaro. Ecco, quello che conta e che ha il posto d’onore in questo tipo di società è il denaro, e tutto si fa in vista di un preciso tornaconto dove l’umanitarismo è solo di facciata. 

L’uomo, messi da parte tutti quei valori che per secoli lo avevano caratterizzato, è per un verso disorientato perché profondo è il vuoto in cui si viene a trovare, ma per un altro verso corre dietro ad un effimero benessere che non gli dà pace, anche perché i detentori di denaro gli creano tanti di quei bisogni che, pur essendo fittizi, a lungo andare diventano indispensabili. Sicché spesso compra non per bisogno, ma per le continue sollecitazioni che riceve sia dall’esterno che dall’interno del proprio ambiente. Non va trascurata l’emulazione degli altri. In una società così fatta non esiste la legge dell’utile, secondo cui agiamo in un determinato modo perché lo riteniamo interessante e necessario agli scopi che ci prefiggiamo, ma operiamo in un senso perché gli altri operano in quel dato senso. L’omogeneizzazione investe tutto, e con l’utilitarismo l’uomo rincorre uno sfrenato edonismo che gli presenta come lecito ciò che lecito non è affatto. 

Cosa può, allora, prospettare la società odierna, se non il vuoto che si concretizza col sentirsi e mettersi alla pari degli altri, magari, col superarli, ricorrendo a qualsiasi mezzo? Per arrivismo ci si arrampica sugli specchi, e assistiamo all’emergere di tanti mediocri che squalificano ancora di più i luoghi di lavoro o la professione a cui appartengono, a scapito di coloro che operano con competenza e serietà. 

Il degrado delle istituzioni trova qui le sue origini. Ci lamentiamo che le cose non vanno per il verso giusto e intanto ci raccomandiamo a questo o a quello perché certe nostre pratiche vadano avanti. Questa, purtroppo, è la cultura del clientelismo (vecchia anch’essa di secoli), degli arrivati, dei nuovi sapienti che tutto e tutti condiziona. Un tempo le università erano centri di cultura. I professori erano qualificati e qualificanti, ispiravano fiducia, anche se incuotevano timore. Adesso anche le università hanno perso prestigio: accanto a persone veramente preparate ne ruotano altre (le più), vuote e presuntuose, senza un curriculum adeguato, prive di iniziative di ricerca. Cosa devono insegnare ai giovani. cosa dovranno insegnare i futuri docenti se essi stessi non hanno imparato? La società risente di tutto questo e ne subisce le conseguenze. 

Ancora, il timore di guerra che da quarant’anni ad ora, per un motivo o per un altro, 

come uno spettro, incombe sull’umanità, non è forse frutto della cultura del denaro che vuole tutelati gli interessi e rafforzati i domini dei pochi? Che dire della critica situazione del Golfo Persico? Con quale criterio giudichiamo se una guerra è giusta o no? Non perdono prestigio e reputazione tutti coloro (Norberto Bobbio compreso) che si pongono argomentazioni del genere? Una guerra. qualsiasi sia il movente, non è 

mai giusta, per il semplice fatto che a sopportare il peso delle distruzioni e delle morti è la povera gente, chiamata spesso a sostenere interessi economici e di potere di alcuni che non vogliono affatto rinunciare ai loro privilegi. Certo, le motivazioni ideali di una guerra si troveranno sempre, si dovranno pure trovare per tenere buone le popolazioni e ottenerne il consenso, ma sono sempre motivazioni false, che non hanno riscontro nei fatti. E, nel caso nostro, si è parlato di guerra santa da una parte e di guerra per la pace dall’altra. 

La cultura del denaro non ha confini e non s’arresta dinanzi alle stragi e alle conseguenze negative che possono ritorcersi contro il mondo intero. Per essa importante è raggiungere l’obiettivo prefissato, e non conta il mezzo, non contano le opinioni dei più che soffrono le angherie e i soprusi dei pochi. Quello che conta è il guadagno . La guerra del Golfo non era ancora cessata che le multinazionali, come rapaci, si contendevano gli appalti della ricostruzione. 

Che pretendiamo di meglio se è questo tipo di cultura che predomina? 

Prendiamo un altro esempio: i premi letterari. A parte quei pochi che premiano la qualità, continuando la serietà di intenti che vuole evidenziare il migliore, gran parte dei premi viene vinta a tavolino, con tanto compiacimento degli editori che sperano in un incremento delle vendite. Ma quanti altri libri, artisticamente validi e degni di essere letti, non raggiungono il pubblico e rimangono sconosciuti ai molti? 

La quantità ha la parte del leone sulla qualità, e andrà così fino a quando non ci sarà la consapevolezza da parte di tutti di rientrare in noi e valorizzare la nostra umanità. Certo, l’uomo rincorrerà sempre il progresso, ma non deve perdere di vista il suo essere ragionevole: deve ridimensionare se stesso, se vuole vivere dignitosamente, da uomo. Non ha altre scappatoie, l’alternativa è questa: o continuare sulla strada del cieco edonismo che porta a consumi senza criterio, in balìa dei pochi che questo vogliono, perché si arricchiscano ancora di più, o rientrare in sé e rivalutare il mondo che lo circonda e la natura, riscoprendo valori più costruttivi e duraturi per una sua migliore realizzazione di uomo fra altri uomini. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 11-15.

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