Restituiamo a Gentile la sua identità 

Da qualche tempo si assiste ad un lavorio intellettuale finalizzato ad una sorta di riesumazione del passato, di quel passato che non passa, cui appartiene la figura del filosofo castelvetranese Giovanni Gentile, che alla neonata repubblica italiana appariva il filosofo scomodo, il simbolo del fascismo, il filosofo del «manganello». A distanza di oltre mezzo secolo Gentile non fa più paura, e si tenta di rivalutarlo, squarciando il velo dell’ostracismo che l’aveva coperto, per cogliere aspetti più o meno evidenti all’interno del suo pensiero filosofico-politico. Che si tratti di revisionismo storico è possibile, un giudizio storico infatti non è mai pronunciato per l’eternità; anche la più scrupolosa delle interpretazioni è suscettibile di mutamenti. 

Il revisionismo gentiliano presenta caratteristiche peculiari, anche se per certi versi simili a quello del tedesco Nolte. Se Nolte ha cercato di relativizzare i crimini nazisti (La guerra civile europea dal 1914 al 1945) interpretandoli come una derivazione-imitazione di quelli comunisti staliniani, allo stesso modo assistiamo ad un relativizzare la posizione di Gentile all ‘ interno del fascismo per mettere in evidenza aspetti della sua filosofia legati piuttosto all’ideologia marxista o liberalsocialista. 

Una pagina del revisionismo gentiliano è quella che ha cercato e scavato nelle opere del nostro filosofo, sottolineando quello che sicuramente in epoca fascista non poteva venire alla luce. Ecco allora che Gentile è diventato ispiratore del movimento liberalsocialista, lo vediamo sostenitore dell’antirazzismo (caso Kristeller), lo consideriamo aperto alle stesse istanze dell’antifascismo nel «discorso» del 24 giugno ’43, che ha ispirato interpretazioni diverse, talvolta contrastanti. Ma chi fu veramente Gentile? Perché mettere in secondo piano, o addirittura sconfessare, da parte di certa critica gentiliana, l’intima convinzione fascista del filosofo? Forse la sua centralità nel mondo intellettuale del ‘900 filosofico verrebbe a essere offuscata? 

Eppure studiosi di grande portata rifiutano l’immagine di Gentile filosofo del fascismo, sostenitore del totalitarismo, e cercano di accreditare l’opposta figura di un Gentile paladino della libertà. Se è vero che, dopo il delitto Matteotti, Gentile prese le distanze dal fascismo, è anche vero che la sua adesione al fascismo sopravvisse a questo difficile momento. Tanto che nel 1943, aderendo al governo fantoccio, dimostrerà sicuramente la sua coerenza morale, ma anche la sua fedeltà al regime. 

Un momento di riflessione su qualche pagina di Genesi e struttura della sociepotrebbe aiutarci a restituire a Gentile la sua vera identità. Là dove si legge: «La forza del volere, in quanto forza che si chiama diritto (dura lex sed lex), è il volere voluto, che si pone come limite alla libertà», emerge una concezione che riduce il diritto alla forza, che si concretizza nella realtà politicamente organizzata, cioè nello Stato. Visione del diritto che porta Gentile verso posizioni antitetiche rispetto a quelle su cui poggia invece il liberalismo moderno, che si fonda, al contrario, sul diritto naturale. 

È il diritto naturale che fa da substratum a qualunque diritto positivo e che a questo conferisce validità. 

Gentile filosofo della libertà? Ciò che sostiene Gentile è distante, addirittura, dalla stessa visione del diritto di Hobbes, da sempre considerato teorico dell’assolutismo, ma che, in questo caso, sarebbe di un assolutismo, direi, più moderato rispetto a quello gentiliano. Hobbes ha riconosciuto, infatti, come via d’uscita dell’uomo, dalla guerra di tutti contro tutti, quella di un diritto naturale che comunque non è infallibilmente realizzata. Il «volere voluto» che leggiamo in Gentile è il diritto come forza, che si è realizzato, che si è tradotto in legge, non un diritto come dover essere, ma come identificazione di dovere essere e essere, come identificazione di norma e realtà. 

Questo è sicuramente l’insegnamento che Gentile ha ereditato da Hegel e che, come Hegel, lo distanzia dalla stessa concezione kantiana del diritto. Hegel prende le distanze da Kant per il quale il diritto è «l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell ‘uno può accordarsi con l’arbitrio dell’ altro, secondo una legge universale della libertà». Secondo questa teoria, diritto naturale e diritto positivo non differiscono, ma la loro di versità consiste nel fatto che il diritto naturale si fonda sui principi a priori e il diritto positivo nasce invece dalla volontà del legislatore. 

Hegel sosteneva che, accolta la volontà del singolo, la sua individualità particolare, il suo particolare arbitrio, siamo scaduti nella «superficialità» del pensiero da cui sono scaturiti gli orrori della rivoluzione francese, ed è a questa e alle teorie illuministiche che Hegel sferra il suo attacco. 

Dentro l’influsso del pensiero hegeliano matura la riflessione etico-politica di Giovanni Gentile, che ancora in Genesi e struttura della società continua a parlarci di «limite necessario» che non può mancare. Questo, per Gentile, «è il momento del diritto, dello Stato come autorità, che è volere potente, innanzi a cui deve cedere l’arbitrio», parole che si commentano da sole, forti, che segnano la distanza dalle teorie liberali alle quali Gentile è stato forzatamente avvicinato. Le leggi vengono a limitare così le libertà degli individui, singolarmente presi. Ogni arbitrio individuale deve cedere di fronte alla volontà universale dello Stato, «lo Stato è lo stesso individuo nella sua universalità». In questa visione diventa costitutiva, dello Stato la forza, l’autorità. Una vera e propria ripresa della concezione hegeliana del primato dello Stato sugli individui, di contro al pensiero liberale che, rivendicando la priorità dei diritti individuali, intende salvaguardarli dalle eccessive ingerenze dello Stato. 

È questa l’identità che Gentile rischia di perdere e che, pur non condivisa da tutti, non pregiudica «il convincimento che il filosofare gentiliano è prima di tutto una condizione speculativa anche per quanti militano, per così dire, sotto altre bandiere filosofiche» (N. Abbagnano). 

Anna Vania Stallone

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 20-21.

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