«L’uomo è nato libero e ovunque è in catene». Rousseau: teorico della democrazia o padre del totalitarismo? 

di Anna Vania Stallone 

Riflettere su un’immagine di democrazia quale forma di regime politico, sia pure del popolo, è necessario per prendere consapevolezza dei limiti di questa forma di governo e della sua vulnerabilità. Il fatto che della democrazia venga spesso fornita un’immagine fuorviante deve portare a comprendere fino a che punto sia lecito definire Rousseau «padre del totalitarismo» quanto piuttosto non sia opportuno continuare a considerarlo il teorico della democrazia, come si è fatto finora. La riflessione inevitabilmente deve partire da un’analisi attenta del pensiero di Jean Jacques Rousseau, anche se di democrazia e di forme di governo non fu certo il primo a parlare. 

Già Erodoto, portavoce della saggezza politica della Grecia antica, parlava di tre forme di governo: di uno, di pochi e di molti, considerando la democrazia la migliore tra queste, anche se come le altre due era soggetta a degenerazione, scadendo nella demagogia. Platone, poi, nella Repubblica teorizzava lo Stato perfetto, concependo in modo ideale l’aristocrazia o governo dei filosofi, ma, come Erodoto, contemplava le diverse forme di governo, individuando le possibili degenerazioni nella timocrazia, nella oligarchia e nella tirannide. Anche nel Politico Platone si sofferma a riflettere sulle diverse forme di governo e precisa ulteriormente che è la presenza o la privazione delle leggi a dare ad un governo un’impronta positiva o a determinarne la degenerazione. 

Seppure le leggi non possano prescrivere il bene per ognuno, considerato il loro carattere generale, Platone ne ribadisce comunque la necessità, poiché esse, data questa loro caratteristica, indicano ciò che è meglio per tutti. Fissate le leggi nel miglior modo possibile, esse vanno rispettate e conservate, poiché la loro assenza determina la rovina dello Stato. È Platone a dare lezione di autentica arte politica, individuando nella giusta misura la caratteristica dell’uomo politico che deve evitare l’eccesso o il difetto. 

Una riflessione politica di tutto rispetto viene ancora fornita, in ambito filosofico, da Aristotele, il quale, partendo dalla necessità per l’individuo della vita associata, poiché egli non basta a se stesso, si pone il problema della costituzione più adatta, affermando, nel IV libro della Politica, la necessità di un governo non solo perfetto, ma attuabile ed adattabile a tutti i popoli. Egli parte da una critica rivolta alle costituzioni esistenti per pervenire alla costituzione perfetta. Come Platone, anch’egli prende in considerazione monarchia, aristocrazia e democrazia e ne analizza le corrispondenti degenerazioni che vengono messe in atto quando il governo non ha più come fine il vantaggio comune, bensì il proprio. In modo specifico, soffermandosi sulla democrazia, egli distingue la democrazia, che si fonda sull’eguaglianza assoluta dei cittadini, da quella in cui il governo è riservato a cittadini con speciali requisiti, e quando nella democrazia prevale l’arbitrio della moltitudine, a scapito delle leggi, essa, dice Aristotele, si trasforma in tirannide. 

Facendo un salto nell’età moderna, la riflessione politica, passando attraverso il giusnaturalismo, concentra l’attenzione sul rapporto individuo-libertà, ponendo l’idea del diritto di natura al centro delle varie teorie. Dallo Stato assoluto di 

Thomas Hobbes a quello liberale di John Locke, la democrazia di Jean-Jacques Rousseau è sicuramente una delle più grandi concezioni politiche del mondo moderno. Considerare quello che la storia dall’ età moderna ad oggi ha offerto in termini di rivoluzioni e conflitti induce, non a formulare la costituzione perfetta, come è accaduto ad Aristotele, ma ad utilizzare differenti chiavi di lettura per gettare discredito su quelli che sono stati da sempre considerati i punti di riferimento ideologici del pensiero liberale, democratico o totalitario. Con molta disinvoltura è più semplice abbandonarsi a forzature revisionistiche piuttosto che ancorarsi a teorie e a principi difficilmente confutabili. 

Considerare Rousseau «padre del totalitarismo» è di certo una forma di revisionismo che disorienta il lettore comune, ma che certamente costituisce un input molto forte per chi è invece fermamente convinto che Rousseau non possa essere attaccato sui principi cardini del suo pensiero democratico. Seppure nel Contratto sociale sia egli stesso ad utilizzare espressioni che si prestano ad interpretazioni fuorvianti, come per esempio: «Il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto»1, certamente Rousseau vede la nuova condizione dell’individuo, dopo la stipulazione del patto sociale, non in termini di peggioramento, come in apparenza potrebbe sembrare, bensì come un miglioramento, in quanto, mentre nello stato di natura l’individuo era esposto all’arbitrio degli altri individui, nello stato civile il vivere nel diritto comune gli dà quella sicurezza e quella certezza che mancava nello stato di natura: l’individuo nello stato civile si sente, dunque, protetto e in questo consiste il miglioramento. 

L’origine del contratto nasce comunque da esigenze ben precise: «Trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima.» Da queste parole è facile cogliere la teorizzazione e l’esaltazione della sovranità del popolo, che fanno del Contratto sociale il testo per eccellenza del pensiero democratico. Il contratto mira, infatti, a conciliare la difesa della vita, peraltro considerata punto forte anche del pensiero di Hobbes (teorico dello Stato assoluto), con la libertà, conciliazione che segna le distanze di Rousseau dall’assolutismo di Hobbes. 

Rousseau, infatti, non considera il superamento della guerra civile come obietti va della sovranità del popolo: «usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune»2, ma obiettivo della sovranità popolare è il superamento di uno stato di schiavitù per una vita da uomini liberi, e la libertà di autodeterminarsi per l’uomo si realizza solo nella società civile e mediante il contratto sociale. Conciliare, allora, difesa della vita e libertà è possibile per Rousseau, se tutti gli uomini diano se stessi e i propri diritti a tutta la comunità: è questa la clausola fondamentale del contratto, che pone gli individui in condizione di radicale uguaglianza, poiché entrano nella società creata dal patto tutti allo stesso modo: «dando tutti se stessi». 

Pregnante e densa di significato e di valore democratico è l’espressione che, ancora, si legge nel Contratto: «Chi si dà a tutti non si dà a nessuno, e siccome non vi è associato sul quale ciascuno non si acquisti un diritto pari a quello che gli si cede su di sé. tutti guadagnano l’equivalente di quello che perdono e una maggiore forza per conservare quello che hanno»3. Forse è da questa affermazione finale che nasce l’equivoco di Rousseau «padre del totalitarismo»? O non è più consono riflettere sulla prima parte dell’assunto e cogliervi, piuttosto, l’esaltazione della libertà? L’individuo, infatti, perde ciò che riceve e, dunque, mantiene la libertà che aveva in origine. 

Spostando l’attenzione sul concetto di volontà generale che fa tanto discutere, poiché a tale concetto si associa. come peraltro fa lo stesso Rousseau, quello di alienazione dell’individuo, va precisato che «l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità»4 comporta che nessuno (poiché tutti si trovano nella medesima condizione di eguaglianza) ha interesse a prevaricare sugli altri e la società stessa garantirà i diritti di ciascuno e servirà gli interessi di ciascuno e di tutti. L’alienazione è, dunque, a vantaggio dell’io comune, della volontà generale, l’alienazione è di sé a se stesso: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo, inoltre, ciascun membro come parte indivisibile del tutto»5. La volontà generale è per Rousseau l’espressione del bene comune, essa è ciò che vi è di comune negli interessi particolari di ciascuno: «Soltanto la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune.» 

La fiducia totale nella volontà generale è bene evidenziata da Rousseau laddove, ancora nel Contratto, si legge: «La volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica»6, anche se tale fiducia non è condivisa dagli esponenti del pensiero liberale che paventano, proprio a partire da tale volontà, una sorta di «dispotismo della maggioranza», timore che anche Aristotele, come già detto, aveva manifestato riguardo alla democrazia, la quale, quando lascia prevalere l’arbitrio della moltitudine, rischia di trasformarsi in tirannide. A questo punto, timori e perplessità, non presenti certo in Rousseau, potrebbero portare ad interrogarsi: chi è divenuto storicamente l’interprete della volontà generale? Il partito, il fuhrer, le oligarchie … 

Che la storia offra esempi numerosi di degenerazioni delle varie forme di governo, degenerazioni già teorizzate nell’antichità classica, è un dato di fatto e, in quanto tale, inconfutabile, questo però non deve portare a pensare che chi ha teorizzato dette forme di governo debba essere etichettato a partire dalle degenerazioni e non, piuttosto, dalle idee, sane peraltro, che ha messo a punto! Sostanzialmente si vuole affermare che definire Rousseau «padre del totalitarismo », a partire da quelle che sono state storicamente le degenerazioni del sistema democratico moderno da lui teorizzato, è davvero una forzatura. Prendere in esame il periodo del Terrore e non considerarlo quale degenerazione politica della Convenzione che avrebbe dovuto governare la Francia democraticamente, mentre si è scaduti nella dittatura di Robespierre, e attribuirne la paternità a Rousseau, potrebbe portare, mutatis mutandis, a riflettere sul fenomeno fascismo e, anziché considerarlo frutto della crisi del liberalismo italiano, attribuirne la paternità a Jonh Locke. Cosicché anche Locke, come Rousseau, si vedrebbe addossata l’etichetta di «padre del totalitarismo». 

Tutto ciò rasenta l’assurdo. È lecito, semmai, concordare con Jonh Stuart Mill, quando parla della tirannia della maggioranza, che è più pericolosa del dispotismo dei re del passato, così come è lecito difendere la libertà non solo dal dispotismo ma anche dal conformismo di massa in cui sono scadute le moderne democrazie. Alexis de Tocqueville, nella sua opera La democrazia in America, è tra coloro che ritengono legittimo rispettare il majority rule, cioè il principio di maggioranza. E la democrazia, infatti, trova la sua sostanzialità proprio nella maggioranza che, sulla base dei consensi ottenuti alle elezioni, governa, mentre la minoranza costituisce l’opposizione. Questo è il sistema migliore per la democrazia. Ma la preoccupazione di Tocqueville emerge quando sostiene: «Non vorrei che il potere di fare tutto, che rifiuto ad un uomo solo, fosse accordato a parecchi»7, preoccupazione che è rivolta a quella degenerazione cui la democrazia potrebbe andare incontro sconfinando nel potere tirannico della maggioranza che comporta, per l’individuo, la perdita della libertà. 

Chiamare in causa Karl Popper potrebbe tornare utile per meglio comprendere il senso di quanto finora detto. Nell’opera La società aperta e i suoi nemici Popper ritiene che la democrazia non possa semplicemente caratterizzarsi come governo della maggioranza, ciò sarebbe, infatti, riduttivo. La democrazia si sostanzia, per Popper, nel limite che i governanti incontrano nel poter essere licenziati dai governati senza spargimento di sangue. La democrazia è tale nella misura in cui chi detiene il governo sia in grado di salvaguardare alla minoranza la possibilità di operare per un cambiamento pacifico della società, in caso contrario non si potrà parlare di democrazia, ma di tirannia. La lezione di Popper sulla società aperta, da lui considerata continuamente riformabile e migliorabile, apre la strada ad un ripristino della paternità del pensiero democratico che va, senza ombra di dubbio, attribuita a Rousseau. 

Avere definito Rousseau «padre del totalitarismo» significa essere partiti da un errore di fondo: avere considerato, cioè, gli avvenimenti storici dell’età moderna, in modo particolare la fase della radicalizzazione del processo rivoluzionario francese, non come «tentativi ed errori» della messa in atto delle teorie democratiche, ma come deliberate scelte politiche scaturite dalla coincidenza della volontà individuale con la volontà generale, scelte che avrebbero determinato una società in cui le parti, cioè gli individui, sono state subordinate al «tutto», dove il tutto ha prevalso ed ha predominato sulle parti. «In ogni campo possiamo imparare attraverso tentativi ed errori, facendo sbagli e miglioramenti […]. Dobbiamo aspettarci che, data la nostra mancanza di esperienza, saranno commessi molti errori che possono essere eliminati solo mediante un lungo e laborioso processo di piccoli aggiustamenti»8. 

Stallone Anna Vania

NOTE 

1. J. J. Rousseau, Il contratto sociale, a cura di V. Gerratana, Torino. 1977, p. 44. 
2. T. Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, 2000. 
3. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
4. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
5. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
6. J. J. Rousseau, op. cit., p. 42. 
7. A. de Tocqueville, La democrazia in America (a cura di G. Candeloro), Milano 1996, p.257. 
8. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, tr. It. R. Pavetto, Roma, 1973, p. 230.

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 17-20.

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