Amore e capacità di stare soli 

La nostra mente, tra le sue funzioni, assolve al compito di fare vivere all’individuo un “continuum” esistenziale privo di cesure, di spazi vuoti, di assenze, di mancanza di oggetti e di relazioni con gli oggetti. 

Rappresentazioni, fantasie, processi onirici possono essere considerati anche quali produzioni psichiche che, con il concorso dell’incoscio, contribuiscono a conferire una sensazione di “plenum” all’esistenza individuale. La paura della morte nasce dal timore di dover perdere in modo totale e definitivo la nostra continuità esistenziale. Il senso di solitudine scaturisce dal sentimento di perdita più o meno irreparabile della nostra possibilità di continuare a mantenere una relazione con gli oggetti. 

Diversi autori sono concordi nel sostenere che il primo e più acuto sentimento di perdita e di distruzione, il primo grande vuoto, la prima grande rottura, che possiamo considerare “inscritta nella nostra sensorialità corporea”1 avviene con la nascita, con il nostro primo affacciarci alla vita fuori dal grembo materno. Prima, come afferma M. Sapir, “c’è una specie di armoniosa mescolanza, interpenetrante, diciamo un mix up, un felice impasto per così dire tra l’individuo e il suo mondo ambiente (…) Dopo la nascita si produce una separazione tra l’individuo ed un ambiente fin lì stabile e addirittura non percepito. 

Si verifica una rottura dell’armonia poiché gli oggetti cominciano ad emergere da questo magma, gli uni amici, gli altri ostili. In quel momento tutto è in via di emergenza e ancora non esistono oggetti nel vero e proprio senso del termine, ma solo dei pre-oggetti”2. 

M. Balint ha distinto fondamentalmente due diversi modi di reagire da parte del bambino a questa emergenza di oggetti, o meglio alla protoemergenza 

di pre-oggetti. Un tipo di reazione è quella “ocnofila”, cioè la tendenza all’aggrappamento agli oggetti in quanto sentiti rassicuranti, protettivi, vitali; mentre minacciosa o terrificante sarà sentita l’assenza, lo spazio intermedio. 

Nell’altro tipo di reazione, denominata da Balint “filobatica”, sono sentiti gradevoli soprattutto gli spazi vuoti, perché proprio gli oggetti sono avvertiti come ostili e minacciosi. 

Probabilmente la vita offre un continuo susseguirsi di movimenti ocnofili e di ripiegamenti filobatici, di protensioni verso gli altri e di ritorni entro se stessi – reimmersioni nell’interiorità che, nelle forme più regressive, comportano la scomparsa degli oggetti o la totale confusione con essi, così come per il feto nel grembo materno. 

In altri casi il ritirarsi regressivo dagli oggetti può essere seguito dal tentativo di creare qualcosa di diverso e di migliore; tale stato trasformativo può accompagnarsi a profondo malessere. Ciò ha portato H. F. Ellenberger a coniare il termine di “malattia creativa”. “Questa rara condizione”, afferma Ellenberger, “presenta il quadro di una nevrosi grave, talvolta di una psicosi. Possono esservi oscillazioni nell’intensità dei sintomi, ma il paziente è costantemente ossessionato da un’idea prevalente o all’inseguimento di qualche difficile scopo. Egli vive in assoluto isolamento spirituale e prova il sentimento che nessuno possa aiutarlo, da qui i suoi tentativi di guarirsi da sé. Ma generalmente sentirà che tali tentativi 

intensificano le sue sofferenze. La malattia può durare tre o più anni. La guarigione avviene spontaneamente e rapidamente; è caratterizzata da sentimenti di euforia ed è seguita da una trasformazione della personalità. Esempi di questa malattia si possono ritrovare tra gli sciami· della Siberia o dell’Alaska, tra i mistici di tutte le religioni e tra certi scrittori e filosofi creativi”3. 

Balint ha evidenziato che l’Amore Primario, quello esistente tra il bambino piccolo e la madre, è una vicenda duale che ha la caratteristica di corrispondere ad un sentimento di armonia in presenza dell’altro in cui tutto va da sé, mentre quello che proviene dal mondo esterno, tutto quello che è estraneo alla relazione a due, non viene tollerato. Allo stadio dell’Amore Primario, sottolinea Sapir, “quel che domina è il bisogno di essere amato passivamente, senza compiere alcuno sforzo. Tutto ciò che circonda il soggetto per lui è in sé privo di interesse. 

Tutto ciò che conta è il mantenimento dell’armonia, è la soddisfazione non dei suoi desideri, ma essenzialmente dei suoi bisogni”. E, facendo riferimento all’interessante lavoro di Winnicot sulla capacità del bambino di stare solo, Sapir rileva che .la capacità di un individuo a stare solo è un fenomeno molto elaborato e che dipende da numerosi fattori, però esso ha il proprio fondamento in uno stadio che può essere estremamente arcaico: “Si tratta dell’esperienza di stare solo in quanto lattante o bambino piccolo in presenza della madre. Il fondamento della capacità di stare soli è dunque paradossale trattandosi dell’esperienza di essere soli ma in presenza di un’altra persona” … Questo è un tipo di relazione particolare, la relazione del neonato o del lattante con la madre anche se questa può momentaneamente essere assente e rappresentata solo da un oggetto quale la culla o l’atmosfera generale e l’ambiente. In questo caso avremo una relazione dell’Io che contrasta con una relazione con l’Es, e la prima si descriverà come armoniosa, la seconda come pulsionale e qui ritroviamo, diversamente espressa, l’atmosfera dell’amore primario descritta da Balint.4 

E’ in base a queste considerazioni che possiamo meglio comprendere quello “scarto più o meno vistoso” che F. Fornari segnala tra identità e identificazione; attribuendo la prima all’Io, la seconda (cioè l’identificazione) al Sé. Fornari in “I segni del Sé e il Sé Originario”5 critica W. R Bion quando questi sostiene che “il bambino vivrebbe primitivamente le qualità psichiche del bisogno insoddisfatto”, qualità psichiche che trasformandosi in presenze minacciose interne devono essere evacuate attraverso l’identificazione proiettiva. 

“Questa concezione bioniana dell’origine del pensiero” afferma Fornari, “rende però difficile immaginare la possibilità del crearsi di rappresentazioni buone del seno e anche di rappresentazioni positive del Sé. Se infatti si postula che il pensiero nasce solo passando attraverso l’assente, cioè la frustrazione e quindi attraverso una presenza cattiva, non è mai possibile arrivare al pensiero, perché la presenza cattiva, come trasformazione del seno buono che non c’é più, determina evacuazione. Se invece c’è soddisfazione, l’oggetto gratificante non può essere pensato perché la rappresentazione nasce nei riguardi di qualcosa che deve essere presentificata perché è assente”, “bisogna quindi postulare che, perché nasca il pensiero nell’apparato per pensare, è necessario che ci siano elementi digeribili, ma questo a sua volta può essere garantito solo dal presupposto che il pensiero non nasca primariamente sotto forma di elementi beta, bensì da una disposizione filogenetica primaria a produrre oniricamente rappresentazioni di presenze buone al momento della gratificazione. A loro volta però le presenze buone, per essere rappresentate, comportano il loro non essere più presenti. Ne concludiamo quindi che la nascita delle rappresentazioni del Sé comportano il primato di una esperienza realmente buona e nello stesso tempo un suo non esserci più”. Ma perché il bambino realizzi il “recupero nel bene attuale di ciò che é stato un bene nel passato” è necessario che intervenga quello che Bion chiama “reverie materna”, quale “fonte psicologica che provvede al bisogno di amore e di comprensione del bambino”. 

In conclusione la “nascita del pensare”, come sostiene Fornari, “dipende essenzialmente da un evento affettivo positivo in quanto presuppone che un altro assuma la funzione enzimatica che permette di trasformare le esperienze cattive in presenze buone, trasformando la frustrazione in soddisfazione”, pertanto, “la capacità di tollerare la frustrazione comporta un pensiero onirico della madre, che a sua volta potrà essere incorporato dall’apparato mentale del bambino, proprio perché si inserisce in una fede primaria del bambino che il bene esiste in base ad una esperienza presente e passata”. 

“Se durante l’allattamento”, scrive Bion6 “la madre non può permettersi la reverie – o se può permettersela senza però associarla all’amore per il bambino o per suo padre – questa incapacità, quantunque per lui incomprensibile, verrà comunicata al bambino e una certa qualità psichica sarà convogliata nei canali della comunicazione, cioè nei legami tra madre e figlio”. Legami primari che probabilmente possono condizionare tutte le successive relazioni d’oggetto. “Se il bambino è munito di una notevole capacità di tollerare la frustrazione – continua Bion – la tragica evenienza di una madre incapace di reverie, incapace cioé di soddisfare i suoi bisogni psichici, può essere fronteggiata ugualmente. All’altro estremo troviamo il caso del bambino gravemente incapace di sopportare la frustrazione: costui non è in grado di superare neppure l’esperienza di avere una identificazione proiettiva con la madre capace di reverie senza conseguirne un crollo; l’unica cosa che lo farebbe sopravvivere sarebbe un seno che nutre incessantemente, il che non è possibile, non foss’altro perché l’appetito viene a mancare”. 

La capacità di stare soli, così come la capacità di amare appaiono dunque come la conseguenza di una capacità da parte della madre di sviluppare pensieri onirici contenitivi il figlio, il quale a sua volta potrà identificarsi con la madre buona e quindi acquisire la capacità di trasformare quelli che Bion definisce elementi beta (indigeribili) in pensieri alfa (onirici) e, pertanto, possedere a sua volta la capacità di contenere oniricamente l’oggetto d’amore così come la capacità di autocontenersi. 

La dinamica della vita psichica, dal punto di vista affettivo, si propone come un susseguirsi di perdite e di ritrovamenti i cui estremi sono rappresentati dalla melanconia e dall’amore. Nell’innamoramento la sensazione è di riunificazione totale con l’oggetto amato, di ricostituzione dell’unità originaria, di ritorno all’ “Eden Ancestrale” in. cui tutte le parti coesistevano; e, pertanto, avviene una perdita di individualità che è alla base di ogni collegamento simbolico tra amore e morte. Ma in questo caso, così come nei miti degli eroi e nei riti religiosi iniziatici, la morte riguarda la vecchia personalità che fa posto alla nuova, rinvigorita dall’emergere di nuove energie vitali prima racchiuse’ nell’inconscio. 

La psicologia analitica propone l’innamoramento come un sentimento che non corrisponde solamente ad una riattivazione di esperienze primarie individuali ma anche ad una riattivazione dell’archetipo madre-anima che può condurre ad un risanatore arricchimento della personalità. La favola di Amore e Psiche nelle Metamorfosi di Apuleio può essere interpretata come la descrizione di un cammino iniziatico dell’anima, che attraverso l’Eros può progressivamente arricchirsi spiritualmente. 

M. L. Von Franz, nel suo studio sull’Asino d’Oro, fa osservare: .Nei misteri eleusini si assiste alla nascita di un bambino divino, che a volte veniva chiamato Eros. L’idea archetipica centrale indica che la madre terra divina genera un bambino divino che è nel contempo un salvatore e un dio della fertilità. Al “bambino divino” Ovidio dà il nome di Puer Aetemus, gli conferisce cioè il più alto valore interiore, quello del ‘nuovo Dio nascente’,. 

Troviamo, scrive la Von Franz “il dio Eros su monumenti funebri greci e romani, come spirito protettore del defunto o come suo spirito. Spesso in queste raffigurazioni funebri egli regge in mano una fiaccola capovolta simbolo della morte, a volte anche . . .. stringe per le ali una farfalla che sadicamente brucia con la sua fiaccola. Il simbolo significa che Eros, dio dell’Amore, è nello stesso tempo il tormentatore e il purificatore dell’anima umana. Infatti l’amore con le sue passioni e i suoi tormenti favorisce lo sviluppo psichico verso l’individuazione; non esiste infatti nessun reale processo di individuazione senza l’esperienza dell’amore. Detto in altri termini, Eros stringe dolorosamente al petto la farfalla come simbolo dell’anima, che mentre viene martoriata dal dio dell’Amore si purifica e migliora. Su una gemma meravigliosa la dea Psiche è legata dal dio con le mani dietro la schiena ad una colonna sormontata da una sfera. Questa immagine esprime in modo pregnante la situazione di partenza del processo di individuazione; Eros lega Psiche ad una colonna che è sormontata da una sfera, simbolo della totalità che può essere raggiunta solo con la sofferenza. A volte si vuole fuggire una persona alla quale si è legati, per liberarsi dalla dipendenza, ma Eros attraverso questo legame ci costringe a prendere coscienza. L’amore ci spinge a osare tutto e perciò ci guida verso noi stessi. Perciò uno dei molti attributi di Eros nell’antichità era “purificatore dell’anima”. “Eros nel caso positivo”, scrive ancora la Von Franz, “configurerebbe l’aspetto creativo e la forza vitale, oltre che la capacità di provare emozioni e di percepire il senso della vita, di abbandonarsi all’altro sesso e di instaurare relazioni corrette, di riuscire ad elevarsi al di sopra dell’ottusa meschinità della vita, di provare sentimenti religiosi, di trovare la propria concezione del mondo, di guidare altre persone e di aiutarle. Coloro che incontrano un essere in cui l’Eros è vivo percepiranno il misterioso nucleo interiore nascosto dietro il modesto lo umano, poiché costui possiede forza creativa e vitalità”7. 

Pur affascinandoci, la storia di Psiche, così come la storia di Lucio – il protagonista maschile dell’Asino d’Oro – desta delle legittime perplessità. Infatti, entrambi i personaggi, così come in ogni iniziazione religiosa o misterica, non appaiono subire alcuna vera e profonda trasformazione della personalità, perlomeno per quanto riguarda l’assunto di base che sembra in essi prevalere che è quello della dipendenza. 

Sia Psiche che Lucio sembrano inseguire un oggetto idealizzato cui legarsi indissolubilmente. Non appare risolto il problema di fondo rappresentato dall’attesa di soddisfazioni narcisistiche attraverso la riunione simbolica con l’oggetto ideale ed onnipotente. Questa riunione avviene attraverso Eros e sviluppa Eros, ma non produce alcuna capacità di amore, di investimento libidico, privo di più o meno coscienti contraccambi narcisistici. Inoltre, Psiche e Lucio si arricchiscono di Eros ma non procedono oltre nella capacità di stare soli. La loro spiritualizzazione, che nel pensiero psicoanalitico iunghiano rappresenta uno scioglimento dei legami con la madre-terrena, si risolve in vantaggio di nuovi legami con esseri celesti o se si preferisce con la madre-divina; non a caso dall’unione tra Eros e Psiche nasce Voluttà. 

Alla luce di queste considerazioni l’appellativo di Puer Aeternus, attribuito da Ovidio ad Amore, può avere un collegamento con il fatto che Eros riproduce eternamente, quale coazione a ripetere, un tipo di legame che possiamo definire “filiale”, nel senso che l’amore per l’amante come l’amore mistico per la divinità si caratterizzano per la sensazione di ritrovamento dell’amore primario – quello che lega il bambino piccolo alla madre – che si fonda sulla soddisfazione di bisogni regressivi di nutrizione e di contenimento senza limiti. Questo tipo di amore potremmo chiamarlo “dionisiaco” perché è legato all’impetuosa ebrezza di riunificazione con l’oggetto d’amore e con la natura – prima sentita “estraneata, ostile o soggiogata”8 – e si accompagna ad un sentimento di espoliazione della propria individualità. 

Effetti del tutto opposti sembrano ottenibili tramite tragitti iniziatici che possiamo considerare primitivi, quali le iniziazioni sciamaniche o stregoniche, diretti a sviluppare una autentica capacità di stare soli e forme di amore prive di contraccambi narcisistici. 

Gli individui che approdano a queste forme di iniziazione sviluppano una dimensione personologica, per così dire “apollinea”, considerato che Apollo nella mitologia non solo rappresenta l’espressione più sublime della individuazione, ma anche la ambiguità più greve; Apollo l’Obliquo, che “coglie la visione attraverso il 1Jiù diretto dei confidenti, l’occhiata che conosce ogni cosa”9 è anche colui che non dice, né nasconde, ma accenna solamente. 

 

Don Juan, lo stregone istruttore dell’iniziando uomo civile nell’Isola del Tonal di Carlos Castaneda10 definisce “guerriero” colui che ha terminato il suo iter formativo: “guerrie~o” è colui che, imponendosi una determinata autodisciplina, si rende “senza macchia”, cioè “impeccabile”. La fiducia in sé del guerriero, afferma Don Juan nell’opera citata: “non è la fiducia in sé dell’uomo comune. L’uomo comune cerca la certezza negli occhi di chi ha di fronte, e chiama questo fiducia in sé. Il guerriero cerca di essere senza macchia ai propri occhi e chiama questo umiltà (. ..) La fiducia in sé implica sempre qualcosa per certo: l’umiltà implica d’essere senza macchia nelle proprie azioni e nel proprio sentire”. L’acquisizione di questo tipo di “umiltà” è il risultato di un processo di apprendistato molto lungo che conduce l’iniziato ad una posizione particolarmente solitaria rispetto al resto degli uomini ed anche rispetto ai compagni, agli altri iniziati. 

Per comprendere che tipo di amore, cioè quali forme di relazioni “buone”, possa stabilire un uomo che, in virtù di un training esoterico, venga a trovarsi in una dimensione di individualismo esclusivo e di asocialità essenziale possiamo fare riferimento al tipo di rapporto che lo stregone stabilisce con il suo allievo. La prima caratteristica è l’accompagnamento. Lo stregone non è un maestro nel senso classico del termine e neanche un conduttore, ma è un assistente partecipante all’esperienza psicologica ed emotiva dell’allievo ora attuandola ma anche neutralizzandola, nel momento in cui l’allievo mostra di non tollerare la terribilità dei fenomeni con cui viene in contatto. La seconda caratteristica è la discontinuità. Lo stregone, come se dotato di reverie, si rende presente o si assenta, interviene o si astiene, in relazione ai reali bisogni dell’apprendista. La terza caratteristica è il profondo rispetto dell’altro. “L’umiltà del guerriero”, afferma Don Juan, “non è l’umiltà del mendicante. Il guerriero non abbassa la testa dinanzi a nessuno, ma nello stesso tempo non permette a nessuno di abbassare la testa dinanzi a lui. Il mendicante invece si butta in ginocchio e si umilia davanti a chiunque giudichi superiore, ma nello stesso tempo pretende che chiunque gli sia inferiore si umili davanti a lui”. 

La capacità di stare solo dell’iniziato non esclude i sentimenti penosi e gli affanni ma, a differenza dell’uomo comune, egli evita di indulgervi, pertanto è privo di tristezza. “Un guerriero”, insegna Don Juan, “è sempre pieno di gioia perché il suo amore è inalterabile . . . . .la tristezza è solo di quelli che odiano proprio ciò che dà riparo ai loro esseri”. 

Il metodo di addestramento psicoanalitico ha una parentela, pur se lontana, con le pratiche di iniziazione – soprattutto quelle in uso nelle scuole filosofiche dell’antichità greco-romana. 

Gli adepti di queste scuole dovevano informare il loro stile di vita alle regole ed agli insegnamenti del fondatore, dovevano imporsi delle restrizioni e dovevano seguire un determinato addestramento: inoltre dovevano trovare un mentore, in genere un anziano saggio che aiutasse a superare i difetti personali e a raggiungere un migliore dominio sulle passioni più accese. 

Con il training psicoanalitico viene introdotto un elemento inedito rispetto al passato: l’esplorazione profonda del mondo intrapsichico dell’allievo, il che conferisce alla relazione iniziatore-iniziando le caratteristiche di un legame molto intenso, legame che è esso stesso oggetto di analisi. 

La risoluzione della relazione analitica può avere le caratteristiche di un evento catastrofico, di una rottura che può evocare il primo grande vuoto, quello che si produce al momento della nascita. L’analisi produce spesso una sorta di malattia creativa: alcune volte, probabilmente, è la fine dell’analisi che comporta nell’analizzato un vissuto di solitudine che appare anch’esso necessario al definirsi di alcuni importanti mutamenti interiori delle personalità, attivati dal training. Ancora una volta possiamo osservare un collegamento tra Amore (o transfert libidico) e morte psicologica. 

Probabilmente uno degli aspetti più interessanti è che l’analisi comporta un abbandono del riserbo e una messa a nudo del Sé e nello stesso tempo una osservazione trasversale della stessa vicenda analitica che, integrando la dimensione “dionisiaca” e la dimensione “apollinea”, consentono lo sviluppo di una capacità di percezione “binoculare”, per cui l’Eros liberato e vissuto può essere contemporaneamente contenuto oniricamente e razionalmente interpretato. Ciò consente da parte dell’analista di sciogliere mentre annoda, cioè di preparare seduta per seduta la risoluzione della relazione con l’allievo nel momento stesso in cui viene istituita e sviluppata. 

Appare evidente che con la perdita dell’analista, alla fine del tragitto duale, muore la parte “filiale” dell’analizzato ma nasce una personalità che, tramite l’identificazione con l’analista, sarà dotata della capacità di stare sola (ma in presenza dell’analista introiettato). 

“Un guerriero si considera già morto”, afferma il più volte citato Don Juan, “per cui non ha nulla da perdere. Il peggio gli è già accaduto, quindi egli è lucido e calmo . . .”, e più avanti, “noi siamo soli . . .. ma morire soli non significa morire di solitudine”11.

Alfredo Anania

1. A Giannotti, G. De Astis, Trauma della nascita e Patologia del Sé, in “Atti del Congresso La nascita Psicologica e le sue Premesse Bilogiche”. IES Mercusy Ed., Roma, 1984 pag. 223. 
2. M. Sapir, La formazione psicologica del Medico, Etas Libri Ed., Milano, 1975, pag. 77. 
3. H. F. Ellenberg, La scoperta dell’Inconscio, Boringhieri Ed., Torino, 1972, pag. 1034. 
4. M. Sapir, op. cit., pagg. 79-80. 
5. F. Fornari, I segni del Sé e il Originario, in “Atti del Congresso La nascita psicologica e le sue premesse biologiche”; IES Mercury Ed., Roma, 1984, pagg. 246-248.
6. W.R Bion, Apprendere dall’esperienza, Armando Ed., Roma, 1972, pagg. 73-75. 
7. M-L. Von Franz, L’Asino d’Oro, Boringhieri Ed., Torino, 1985, pagg. 74-77. 
8. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi Ed., Milano, 1986, pag. 25. 
9. G. Colli, La nascita della Filosofìa, Ade1phi Ed., Milano, 1978, pagg. 9-16. 
10. C. Castenada, L’isola del Tonal, Rizzoli Ed., Milano, 1975, pagg. 25-47. 
11. Ivi, pagg. 285-289.
 
 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 57-66.

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