Tomasi di Lampedusa: lezioni inglesi 

«Fra il novembre 1953 e la primavera del 1955 Lampedusa percorse a piccolissime tappe tutto lo svolgimento storico della letteratura 

inglese, cominciando proprio dai poemi anglosassoni e giungendo a Eliot e a Fry. Non so come procedesse per assicurarsi delle date e di altre nozioni spicciole, né quanti libri riprendesse in mano per rinfrescare la propria memoria; certo si aiutava con qualche manuale, forse sfogliava o rileggeva qualche testo. Ma nelle pagine che scriveva c’era ben poco di manualistico: tutto era sostenuto da una miracolosa memoria di quasi mezzo secolo di letture, e ravvivato dall’intelligenza.1» 

Così racconta Francesco Orlando, allora giovane intellettuale palermitano alla ristretta corte letteraria del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 

Gli appunti delle lezioni di letteratura inglese e poi francese, rivolte quasi esclusivamente allo stesso Orlando e a Gioacchino Lanza, suo futuro figlio adottivo, costituiscono una parte fondamentale della biografia letteraria di Tomasi di Lampedusa: quelle sue personalissime conversazioni rivelano passioni, approcci, giudizi che certo fanno luce sulla complessità dell’uomo e dello scrittore. 

Ancora Orlando, nel suo vibrante Ricordo di Lampedusa scritto nel 1963, a cinque anni dalla morte di Tomasi, si sofferma sulla funzione consolatoria che la letteratura doveva avere per quel gentiluomo riservato e incline alla malinconia: «la letteratura era stata ed era la grande occupazione di questo nobile che non so quali traversie patrimoniali avevano avulso tanto da ogni mondanità quanto da ogni funzione pratica, e che era ridotto a vivere isolato senz’altro lusso che le ingenti spese per libri, soprattutto per le adorate e sempre maneggiate Pléades francesi.2» 

E i libri, esseri viventi nella grande casa di via Butera, dove ebbero luogo le lezioni di letteratura, si animarono di nuova vita, e il principe scrisse fitte pagine di appunti e parlò di centinaia di opere letterarie e di autori, impegnandosi in un faticoso e colossale esercizio di metodo e di memoria per l’incanto di quei giovani allievi privilegiati che ne avrebbero fatto tesoro per la vita. Per prime furono le lezioni inglesi. 

Lampedusa aveva una speciale predilezione per la letteratura e la cultura inglesi. Moltissimi i suoi soggiorni in Inghilterra già dalla metà degli anni ’20, in coincidenza con il periodo in cui suo zio Pietro Tomasi marchese di Torretta fu ambasciatore a Londra. E soprattutto a Londra, città amata, egli poteva passeggiare ritrovandovi le pagine di Johnson e di Dickens; in questa metropoli reale e letteraria, a testimonianza del cugino Lucio Piccolo, si sentiva veramente libero e a suo agio, il fisico ormai appesantito persino più agile mentre saliva al volo su un autobus londinese3. 

Il corso di Letteratura inglese fu diviso in cinque parti. Quasi tutta la prima parte fu occupata da Shakespeare e vennero commentati i sonetti e le opere teatrali, e via via, seguendo una coerente progressione cronologica si giunse agli scrittori del XX secolo, Joyce, Woolf, Greene; le lezioni su T. S. Eliot, che Lampedusa considerava “il più grande poeta contemporaneo”, furono le uniche a cui venisse ammesso, una sola volta, un pubblichetto che rasentava le dieci persone4. Erano 15-20 fogli manoscritti per lezione che l’autore dichiarava di provvedere a distruggere dopo ogni incontro, e ritrovati raccolti in vari blocchi alla morte dello scrittore, per essere pubblicati dopo traverse vicende soltanto nel 19915. 

Quello di Lampedusa era un modo di procedere che, come osserverà più tardi Orlando6, si accostava al metodo biografico di Sainte-Beuve, e dunque alla grande scoperta ottocentesca, dal romanticismo al positivismo, che la letteratura dovesse sganciarsi da canoni classici eterni, per essere indagata nelle relazioni tra opere, società e autore, inteso quest’ultimo nell’aspetto più privato di persona. Prospettiva che venne puntualmente rovesciata dalla rivendicazione novecentesca dell’autonomia della letteratura, la premessa cioè che un testo non sia mai riducibile ad una determinata realtà fattuale o autoriale, ma che venga percepito come opera d’arte a sé. 

Tomasi di Lampedusa apparteneva ad una categoria di intellettuali solitari e indipendenti, e perseverò contro corrente nel suo biografismo ottocentesco alla Sainte-Beuve che in Italia lo univa idealmente all’autorevole voce di un suo coetaneo, l’anglista Mario Praz. 

La letteratura diventava così per il futuro autore del Gattopardo una sorta di “diaristica cifrata7”, un mondo riconosciuto come proprio, poiché egli possedeva un «senso impareggiabilmente euforico e quasi tonico della letteratura8», fonte perenne di curiosità gioia e divertimento, e pure di lacrime che nascono dalla bellezza, come ebbe a dire a proposito della lettura di Lycidas di Milton. 

La straordinaria familiarità di Tomasi con gli scrittori inglesi rafforzava in lui la percezione di una corrispondenza spirituale che doveva poi affacciarsi alle pagine del Gattopardo, nell’aristocratico distacco di don Fabrizio Salina: una solida visione del mondo permeata di sottile ironia e pronta a sfociare in un tragico disincanto. Come l’inclinazione a rivolgere un amaro sorriso di scherno verso le vittime che spesso accompagna la figura perdente dell’underdog (uno dei temi fondamentali della letteratura inglese) che compare da Shakespeare a Swift a Dickens e in quasi tutti i grandi autori inglesi. 

Un’altra ragione rendeva Lampedusa vicino e in sintonia con il carattere britannico e polemico verso i difetti italiani e siciliani, una ragione che Orlando ha ritenuto nascere da una attitudine politica segretamente classista: 

«Va da sé che la sua ammirazione per il progresso sociale inglese dalla fine del Settecento in poi era quella, sincera, di ogni europeo colto; e si manifestava in modo aperto nelle lezioni (credo specialmente in quelle su Dickens). Ma Lampedusa non poteva non riflettere anche che quella forma di progresso era la sola attraverso la quale potesse conservare prosperità prestigio e soprattutto vitalità la classe sociale che era la sua; e perciò era da deprecare più amaramente la mortale sciatteria della medesima classe sulle terre ed ai tempi dei Borboni, con le conseguenze storiche che ricadevano sulla sua persona.9» 

Nelle lezioni inglesi si apre un vero e proprio dialogo intimo tra le pagine degli autori e la personalità eccentrica di Lampedusa, così che la digressione, una sorta di filosofica confessione, o l’aneddoto biografico diventavano parte dello stile soggettivo del principe. «La prima volta che si legge l’Amleto in inglese è una data10», o la riflessione che se una bomba distruggesse Palermo, la città morirebbe per sempre, senza che la sua esistenza sia testimoniata da un solo decente scrittore; ma Londra sopravviverebbe, immortalata da Dickens, poiché«in qualsiasi brutto alloggio, in qualsiasi recondita viuzza i suoi bizzarri personaggi dovessero recarsi, Dickens vi si era recato. Fortunata città che, insieme a Parigi, ha acquistato il premio supremo: quello di essere scrutata da un genio in ogni suo angoletto.11» 

È qui impossibile persino cercare di riassumere tratti più significativi del lungo percorso di Tomasi all’interno della storia letteraria inglese senza banalizzarne scelte e passaggi. Ma si può almeno riflettere su una categoria artistica che il principe-maestro giudicava di ordine superiore: gli scrittori creatori di mondi, i cosmourghi; tra loro alcuni giganti del canone occidentale: 

«Omero, Shakespeare, Cervantes, la Austen, Fielding, Ariosto, Balzac, Manzoni, Tolstoj, Proust […] I creatori di mondi debbono aver compiuto un’opera vasta, popolosa, omogenea nella varietà avente la facoltà di continuare a vivere indipendentemente dal creatore, rischiarata da una luce tutta sua, arricchita di paesaggi peculiari.12» 

E tra gli inglesi non è difficile immaginare (“ripensateci, chiudete gli occhi”) i paesaggi dei mondi della Austen o di Fielding. Shakespeare sfugge un’appartenenza che sarebbe troppo riduttiva, poiché non un paesaggio caratterizza la sua opera ma molti mondi. E un posto d’onore viene riservato da Tomasi anche a Dickens. 

«Dickens è uno dei più insigni creatori di mondi. E il suo mondo è uno dei più singolari: di esso conosciamo ogni campo, ogni strada, ogni volto. Eppure dobbiamo ogni volta dire a noi stessi che non abbiamo mai alcunché di simile: forse li rivedremo se saremo buoni e andremo in Paradiso. Il regno di Dickens è il realismo magico.13» 

Di Dickens (come del teatro di Shakespeare) Lampedusa ammirava l’arte sublime di fondere humour (insieme alla rifrazione deformante della caricatura) e eeriness, ovvero il senso fantastico del favolistico o del soprannaturale. Così i Pickwick Papers sono un vero capolavoro dickensiano, certamente il più amato dal poliedrico affabulatore delle lezioni inglesi, un’opera che viene considerata unica, un “blocco a parte” nella produzione dello scrittore vittoriano, un modello assoluto («Non esiste in nessuna altra letteratura un libro come Pickwick14»). 

Nei Pickwick Papers Lampedusa vede portata alla perfezione la curiosa e difficile arte del “realismo dis-realizzato”. I Pickwick Papers sono «un racconto di fate senza soprannaturale, un racconto che ha come Genio un vecchio piccolo ometto occhialuto e bonario15». 

È il mondo umano, universale, sorridente e arguto che passa attraverso i viaggi in carrozza per l’Inghilterra di Mr. Pickwick e dei suoi amici Winckle, Tupmann, Snodgrass e Sam Weller, che in particolare Lampedusa ama perché riunisce in sé l’umanità e lo spirito dei più grandi personaggi shakespeariani. E di Shakespeare questo personaggio di Dickens sembra ricordare il Falstaff dell’Enrico IV che memorabilmente viene definito nelle pagine della Letteratura inglese «gemma di Dio sa quanti carati, uno dei tre o quattro massimi personaggi shakespeariani. Adorabile mascalzone, uomo dallo spirito sempre invitto e sempre leggiadro, creazione impareggiabile del più alto humour, ognuno di noi darebbe dieci anni di vita per il privilegio di incontrarti un’ora.16» 

Come sottolinea Gioacchino Lanza Tomasi, un’analisi profonda della personalità letteraria di Lampedusa dovrà riconoscere alcuni modelli più di altri, e certamente «è Dickens più di Stendhal il vero biglietto d’accesso per chi voglia comprendere la singolarità del fenomeno Lampedusa.17» 

Nell’opera letteraria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa affioreranno i tratti della prima maniera dickensiana, quel procedere leggero per accostamenti e bozzetti, il disegno d’insieme che lascia spazio alla caratterizzazione dei personaggi secondari; ma si potrebbe pensare alla scelta del punto di vista di osservatore insieme esterno ed interno della sua Sicilia, isola che aveva sempre cercato nostalgicamente e ironicamente respinto nel corso delle lunghe frequentazioni letterarie di vari decenni. 

Inevitabilmente la lettura delle pagine della Letteratura inglese (come anche della Letteratura francese) conduce il lettore di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a sotterranei paralleli con la scrittura non solo del Gattopardo ma anche dei Racconti, e per chiudere questi brevi appunti vorrei ricordare il bellissimo racconto “La Sirena” (Lighea) nel quale l’affascinante e mitica creatura marina sembra essersi appropriata della magia soprannaturale della canzone di Ariel nella Tempesta di Shakespeare: 

«Sono immortale perché tutte le morti confluiscono in me da quella del merluzzo di dianzi a quella di Zeus, e in me radunate ridiventano vita non più individuale e determinata ma pànica e quindi libera. (… Mi narrava della sua esistenza sotto il mare, dei Tritoni barbuti, delle glauche spelonche, ma mi diceva che anche queste erano fatue apparenze e che la verità era ben più in fondo, nel cieco muto palazzo di acque informi, eterne, senza bagliori, senza sussurri. Una volta mi disse che sarebbe stata assente a lungo, sino alla sera del giorno seguente. “Debbo andare lontano, là dove so che troverò un dono per te.” Ritornò infatti con uno stupendo ramo di corallo purpureo incrostato di conchiglie e muffe marine.18» 

Maria Paola Altese

Note 

1 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pp. 23-24. 
2 F. Orlando, cit., p.15. 
3 D. Gilmour, L’ltimo Gattopardo (1988), Feltrinelli, Milano, 2003, p. 64. 
4 Cfr. F. Orlando, cit. p. 24. 
5 Cfr. G. Lanza Tomasi, premessa a Letteratura inglese, in G. Tomasi di Lampedusa, Opere, Milano, 2004. 
6 Cfr. F. Orlando, Da distanze diverse, Torino, 1996, p. 84-85. 
7 Ivi, cit., p. 85. 
8 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, cit., p. 17 
9 Ivi, cit. p. 35. 
10 Ivi, cit., pag. 25. 
11 G. Tomasi di Lampedusa, in Opere, Letteratura inglese, Mondadori, 2004, p. 1118. 
12 Ivi, cit., pag. 1112. 
13 Ivi, cit., pag. 1113. 
14 Ivi, cit., pag. 1116. 
15 Ivi, cit., pag. 1116. 
16 Ivi, cit., pag. 724. 
17 Ivi, G. Lanza Tomasi, cit. p. 654 
18 G. Tomasi di Lampedusa, “La Sirena” in Opere, cit., pp. 517-518. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 37-40.

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